L’Espresso 10.2.19
2019
l’Italia è omofoba
Violenze, minacce, discriminazioni. Così la persona Lgbt diventa
il nemico. Nel nuovo clima
di Simone Alliva
Froocio fermati! Ti facciamo la festa di capodanno». Siamo a Perugia, sono le cinque di notte del primo gennaio 2019. Lorenzo ha festeggiato il nuovo anno con gli amici. Lascia il locale: «Forse ero vestito in maniera troppo eccessiva». Cinque ragazzi iniziano a pedinarlo per le vie della città. Lo ricoprono di insulti, lo minaccia-no. «Vieni qua che ti sistemiamo». In pieno centro storico. Bisogna immaginare la scena: Lorenzo pochi metri più avanti, a passo svelto vuole raggiungere la macchina. Dietro cinque ragazzi che gli urlano addosso. Ad assistere indifferente la città: i proprietari dei locali rimasti aperti, gli studenti per le strade. «Mi guardavo intorno, non interessava a nessuno. Io ero la preda, loro cinque i cacciatori». Non è una storia eccezionale, è una delle tante storie che ci presenta il nuovo volto dell’Italia. Quello anti-lgbt, omofobo, violento. Ed è finita bene: «Ho cercato di percorrere le vie più illuminate. Arrivato in macchina, mi sono fiondato dentro e sono partito». Resta la paura: «Sto molto attento a quello che indosso, a quello che potrebbe succedermi se cerco di dare troppo nell’occhio».
Le cronache delle aggressioni raccontano di un Paese sprofon-dato nell’odio. Sono tutte dell’ultimo anno, tutte legate alla nuova Italia. Quella del cambiamento, quelladel“prima gli italiani”. Non è bastata l’approvazione della legge che ha introdotto le unioni tra persone dello stesso sesso. Il dibattito pubblico che ne ha caratterizzato l’iter è stato avvelenato. Il 4 marzo è stato come fare marcia indietro al tempo: l’Italia consegnata a chi prometteva di abolire le unioni civili, di cacciare “le streghe” che nelle scuole fanno educazione di genere, di curare gli omosessuali spingendoli all’eterosessualità. In questo Paese, dove niente è come sembra, il tempo vira e va nella direzione del vento, e non sempre è in avanti. C’è M. che ha 16 anni, viene massacrato di botte fino a perdere coscienza il 21 luglio a Torino, perché? «Cammina come un frocio». A Palermo, invece, una coppia di 14 e 15 anni, seduta su una panchina in pieno centro, viene raggiunta prima dagli insulti poi da pugni in bocca, in faccia e da un colpo di casco in testa.
Da nord a sud.
Le vittime sono omosessuali, lesbiche, trans ma anche eterosessuali. Come i due muratori di Bologna, aggrediti da un 41enne che li ha prima sommersi di insulti omofobi per poi sfondare con un pugno il finestri-no della loro macchina. Erano saliti in auto per prendere una bottiglietta, l’uomo ha frainteso la situazione e li ha aggrediti. Se nel monitoraggio dei media presentato il17 maggio del 2018 Arcigay censiva 119 storiedi omotransfobia riportate nella stampa, con addirittura 4 omicidi riconducibili al movente omo- transfobico, le cronache che vanno dal 1 giugno a oggi raccontano un’Italia sommersa dall’odio verso le persone gay, lesbiche e trans. Tra giugno e luglio, ad esempio, sono stati ben 32 gli episodi, per un totale di 39 vittime, delle quali 22 nel solo mese di giugno e 17 a luglio. La media, in passato, era poco più di 9 vittime al mese. Numeri al ribasso, perché non tutte le vittime hanno il coraggio di sporgere denuncia. Le cifre e le storie sono comunque il preludio dell’anno che verrà.
Liste rosa
«È l’aria che si respira in questi ultimi tempi. Non che non sia mai successo prima. Ma chi aggredisce adesso si sente spalleggiato, rappresentato da chi ci governa», spiega Sebastiano Secci, presidente del Circolo di Cultura Omosessuale Mario Mieli di Roma, che nel mese di novembre ha trovato di fronte alla propria sede un sacco colmo di letame e un grande striscione con la scritta “Lgbt = Abominio perverso! Famiglia è Tradizione”. «Facciamo le riunioni la sera e fuori le macchine sfrecciano urlandoci di tutto, dagli insulti alle minacce. Non ci sentiamo tranquilli». Gli attivisti Lgbt sono diventati un bersaglio particolare di ostilità e campagne d’odio. Associazioni e locali erano considerate zone franche, dove sentirsi a casa. Oggi non più. Oltre agli atti vandalici alle sedi associative, ci sono le aggressioni, le minacce esplicite di morte.
È il caso di Cathy La Torre, presidente di Gay Lex e storica attivista del Mit (Movimento Identità Trans): «Da giugno ricevevo foto sempre di pistole puntate verso di me», racconta a L’Espresso. «È partito tutto con un account fake: ero in bici e mi arrivò questo messaggio: “Pedala e al più presto ti arriverà un colpo di pistola in fronte”, i messaggi riportavano che nemmeno la protezione della polizia mi avrebbe aiutata». Così la vita di Cathy cambia radicalmente: «Sono stata sotto regime di controllo: protezione a vicinanza. Ho fatto tutti i Pride con la scorta e ho modificato il mio stile di vita».
Solo tra marzo e giugno Cathy La Torre ha ricevuto una media di 800 messaggi a settimana tra minacce e offese. Nel mese di agosto in soli tre giorni diventano 2200, aveva criticato l’occupazione illegittima di CasaPound. «Non si fermano. Hanno inviato anche alla polizia minacce nei miei confronti. Ho 20 anni di attivismo alle spalle, solo tre anni fa una cosa del genere era impensabile».
Omofobia ed estrema destra
Proprio la persona Lgbt è diventata il nemico pubblico dell’Italia di estrema destra. Sono moltissimi gli episodi in cui l’ostilità nei confronti delle persone Lgbt viene espressa dalla galassia nera apertamente, con l’appoggio delle frange estremiste cattoliche. A Roma, Federico di 21 anni viene accerchiato da quattro uomini e insultato: «Pezzente, voi froci siete peggio degli zingari». Dopo avergli puntato un coltello sulla schiena viene pestato: pugni in faccia, calci nelle parti intime. Lo picchiano così tanto da farlo cadere a terra con la faccia piena di sangue. «Erano in quattro coi bomber neri e uno aveva la croce celtica tatuata sulla nuca». Nel mese di settembre viene presa di mira una scuola popolare di Milano che offre corsi di lingua agli stranieri. Le scritte sono le solite: insulti agli omosessuali, svastiche. Ci sono anche degli slogan pro Salvini.
30 litri di benzina per bruciarli
Rompere il muro dell’omofobia non è facile, a volte si parla ma si resta inascoltati, altre volte chi vede preferisce chiudere gli occhi. Andrea e Angelo hanno rischiato la vita, più volte, hanno denunciato le aggressioni e per questo hanno perso il lavoro. Succede a Verona, terra di Romeo e Giulietta, universalmente nota come la città dell’amore. Trasfigurata ne “la città a favore della vita” da una mozione anti-aborto leghista approvata dal Consiglio comunale. La storia di Angelo e Andrea racconta, in filigrana, questa Italia. Fascista, omofoba e indifferente. Spiega quello che non vediamo e quello che siamo diventati. «La nostra vita è cambiata radicalmente». È l’11 agosto, piazza Bra in centro, fuori da una gelateria Andrea e Angelo vengono insultati da un gruppo di ragazzi: «Culat- toni di merda, rotti in culo». «Perché ci tenevamo per mano», spiega Angelo. Vengono subito dopo schiafeggiati e spintonati. Poco più in là individuano dei vigili: «Ci siamo avvicinati per chiedere aiuto, il vigile non voleva capire. Dopo pochissimo si è avvicinato anche uno degli aggressori, ha toccato la spalla al vigile e gli ha detto “non vedi che sono due froci di merda?”. Il vigile lo ha mandato via senza fare nulla». Dopo l’episodio i poliziotti della Digos hanno individuato e denunciato un ventunenne originario della Romania. Ma l’incubo di Andrea e Angelo comincia proprio da questa inquadratura: la denuncia, il clamore, una grande manifestazione di piazza “Mano nella mano contro l’omofobia” promossa dalle associazioni. «Forse se quella sera i vigili avessero fatto attenzione questo incubo non sarebbe mai iniziato».
È la notte del 12 settembre, Andrea sente dei rumori nel cortile di casa. Apre la porta e viene travolto da un getto di benzina che lo colpisce in pieno volto. All’esterno l’abitazione viene ricoperta da una serie di scritte con la bomboletta nera, svastiche accompagnate da frasi come: “Culattoni bruciate” e ancora “Vi metteremo tutti nelle camere a gas”. Circa 30 litri di benzina per cospargere la casa. Anche qui: denuncia, clamore da parte dei media ma zero solidarietà dalle istituzioni. «Il sindaco Sboarina anzi ci ha attaccato», fuma di rabbia Angelo, «dice che non ha nulla contro di noi ma lui è per la famiglia naturale». Federico Sboarina, avvocato cattolicissimo soprannominato sindaco chierichetto, a marzo ospiterà il Congresso delle Famiglie, il summit mondiale delle associazioni anti-lgbt cattoliche e di destra. «Verona è sempre stata così ma adesso è peggio. Tutto intorno lo è. Noi abbiamo perso il lavoro. Abbiamo un’impresa edile e i nostri clienti hanno sempre saputo di noi. Tre anni fa io e Andrea ci siamo sposati in Spagna. Dopo la denuncia, l’esposizione mediatica, i clienti hanno disdetto tutto. Si vergognavano».
Vietato l’ingresso
La cortina di omotransfobia attraversa le istituzioni e si diffonde nel tessuto sociale serrando porte e finestre: le strutture alberghiere rifiutano le persone Lgbt, i locali pubblici vietano di baciarsi o tenersi per mano, le case in affitto vengono negate. Ai primi di giugno Valentina risponde ad un annuncio in cui chiedevano disponibilità di ragazze per lo stand delle pistole sul Lungotevere. Un lavoro estivo, da svolgersi tra luglio e agosto.
Viene rifiutata perché troppo mascolina: «Prima capisci qualcosa sulla tua identità poi ti potrai proporre per lavori in cui si cercano ragazze». Il 21 dello stesso mese due ragazze si scambiano un bacio all’interno del caffè Mc Donald’s a Napoli, vengono sgridate e invitate a uscire: «Una signora ci guardava con disprezzo e paura». Nel mese di agosto Ivy 19 anni, iscritta all’università di Lettere di Palermo, non riesce a trovare una stanza in affitto: «Mi hanno chiuso il telefono in faccia dopo che ho detto che ero trans. Oppure mi hanno detto esplicitamente che le altre ragazze non sarebbero state tranquille». E sempre nel mese di agosto a Casarano, in provincia di Lecce, un proprietario di casa si rifiuta di concedere l’affitto a una coppia gay. «Preferisco affittare casa ad una famiglia normale», dichiara l’uomo all’agente immobiliare che, pur avendo già incassato la caparra, ha dovuto dare la notizia alla coppia, ormai già pronta a trasferirsi.
Questa Italia diventa anche il paese dell’altro mondo. Del mondo sottosopra, capovolto, dove sono gli studenti a bullizzare i professori. Come è successo a un insegnante di Imola che per un anno ha sopportato insulti, scritte volgari alla lavagna nella quasi totale indifferenza degli altri docenti e della preside. Il tentativo del vicepreside, che aveva dato inizio a un percorso disciplinare, soffocato dai genitori «che non si sono mai preoccupati di chiedere scusa all’insegnante dei loro figli». La denuncia arriva a fine maggio da un amico dell’insegnante, anch’egli vittima di attacchi omofobi, con una lettera pubblicata dal sito Gaynews.it, testata diretta da Franco Grillini. Ancora più grave il comportamento della dirigente scolastica: «Non gli ha espresso solidarietà, né si è presentata ai collegi straordinari dei docenti per l’adozione di provvedimenti disciplinari. Anzi, ha cancellato dal registro elettronico le note che facevano riferimento a questi gravi atti». La preside sulla vicenda ha chiesto il silenzio. Gli alunni? «Penso che abbiano capito il messaggio», ha risposto, «non so se con l’insegnante si sono scusati tutti, ma di certo i genitori hanno capito».
Rompere il silenzio
Eppure rompere il silenzio dopo una violenza sarebbe la prima risposta da dare. La violenza cerca un alleato nel senso di colpa, nel “te la sei cercata”, aggredisce la vittima e la fa tacere. Dire “mi hanno aggredito” e indicare l’aggressore è la prima mossa per allentare la catena dell’omofobia. Ma non è facile compierla.
Nel 2017 nel centro di Bari una coppia in vacanza in Puglia, è stata prima insultata mentre usciva da un locale. Successivamente picchiata: calci e pugni per essere poi essere rapinata. Il tribunale di Bari ha condannato il 31 gennaio 2019 i tre aggressori a due anni di reclusione. Per il giudice un «pestaggio animalesco a sfondo sessista», «brutale». Le vittime «per paura di ritorsioni» - come da loro dichiarato - non si sono costituite parte civile. «Un segnale», commenta Gabriele Piazzoni, segretario nazionale di Arcigay. «L’as- senza di una legge penale di contrasto dell’omotransfobia espone le vittime a una condizione di vulnerabilità estrema, da cui legittimamente si mettono al riparo. Perciò spesso non denunciano o addirittura rinunciano a quel poco di giustizia che è loro dovuta. Trattata il più delle volte come materia da talk show, ridefinita ogni volta nelle contrapposizioni degli opinionisti di turno. Una questione di opinioni, insomma, delegata dalla politica, in modo pilatesco, ai tribunali popolari».
Lega-M5S divisi anche sui gay
Doveva essere una legge contro l’omofobia, ma si è tramutata in una paccottiglia di emendamenti, schiacciati dall’alleanza gialloverde. Era il 2013, quando la norma approdò in Parlamento, per poi rimanere saldamente ferma al Senato, dimenticata dalla sinistra e destinata all’oblio dalla destra. Il disegno, in attesa di approvazione da sei anni, dovrebbe introdurre il reato di discriminazione e istigazione all’odio e alla violenza omofobica e transfobica. Pena prevista da sei mesi a quattro anni e una multa fino a seimila euro, il tutto mitigato da quel «non costituiscono discriminazione, né istigazione alla discriminazione, la libera espressione e manifestazione di convincimenti od opinioni riconducibili al pluralismo delle idee, purché non istighino all’odio o alla violenza».
Alberto Ribolla, giovane deputato del Carroccio, è stato uno dei pochi leghisti ad essersi seduto a un tavolo con Arcigay. Oggi ammette: «Una legge contro l’omofobia non è nella agenda politica». Il problema sono gli ultra-cattolici intransigenti del suo stesso partito, come Simone Pillon e il ministro Lorenzo Fontana. Ribolla quindi allarga le braccia e ripete: «Ci atteniamo alla linea di Matteo Salvini». E qual è? «Chi commette violenze contro gli omosessuali è uno stupido». E allora perché non tornare a discutere una legge? «Perché al momento le priorità sono altre». Quanto alla posizione degli alleati di governo, «non abbiamo mai discusso di questo», dice Ribolla.
Già, il Movimento 5 Stelle. Era il 18 settembre del 2013 quando i grillini si presentarono in aula con dei garofani rosa nel taschino o tra i capelli, imitando i deputati inglesi, che si presentarono così a Westminster per l’approvazione del matrimonio tra persone dello stesso sesso. Il fiore però perse i petali di fronte alla decisione di sospendere la seduta in Commissione Giustizia e attendere che la maggioranza, formata all’epoca dal Pd e il centrodestra trovasse un accordo sull’estensione del reato di omofobia alla legge Mancino. I pentastellati insorsero, chiesero le dimissioni della presidente della Camera, Laura Boldrini, «perché se l’accordo non c’è, le leggi si discutono in Aula». Il giorno dopo un nuovo gesto dimostrativo: il bacio in bocca con il compagno di banco per chiedere l’approvazione della norma. Da allora il silenzio siderale, se non per una dichiarazione di Vincenzo Spadafora in Commissioni riunite Affari costituzionali, lavoro e Affari Sociali: «Rimane l’auspicio sulla legge contro l’omofobia anche se non la prevede il contratto». E con “l’auspicio”, la questione è definitivamente nel dimenticatoio. E.T
L’Espresso 10.2.19
Quel bisogno di umiliare l’altro
di Natalia Aspesi
“Tollerare l’omosessualità equivale ad accettare la pedofilia e il satanismo”. Mah, povera signora, Silvana Mari, scrittrice fantasy, l’hanno condannata a pagare una multa neanche troppo salata, 1500, euro per questa stupidaggine. «Calano fatturato e Pil ma aumentano i gay». Tipico pensiero sgangherato di Vittorio Feltri, diventato il titolo di prima pagina del suo Libero: vero tra l’altro, ma per quel che riguarda l’economia chieda al governo e per i gay si vede che non deve essere male. Ai miei tempi gli omosessuali non esistevano: tutti gli uomini che conoscevamo erano fidanzati o si fidanzavano con noi, erano mariti devoti e padri affettuosi; non c’era nemmeno la parola per eventualmente definirli, al massimo una criptica nube di silenzio oscurava certi giovanotti amanti dell’opera e soprattutto del balletto, fedeli alla loro fidanzata morta vent’anni prima e che piacevano pazzamente alle mamme di zitelline incollocabili. Quando nel 1937, mentre abbondavano i pestaggi fascisti a gruppi di misteriosi giovanotti, uscì “La contessa di Parma” di Blasetti, si pensò che Umberto Melnati facesse gestolini e avesse l’erre moscia, simbolo perverso di chic da ridere, in quanto sarto per ricche dame e non altro. Poi si sa i tempi cambiano, cambia tutto e adesso, difficili e pericolosi decenni dopo, sono migliaia le persone che lacrimando di commozione, hanno la gioia patriottica e democratica di assistere tra decorazioni di fiori bianchi, assessore con striscia tricolore, testimoni eleganti, alle unioni civili di cari amici, due donne, due uomini anche ottantenni. Finalmente sposi! Persino nella vecchia Italia peccatrice e sessuomane è accaduto: di colpo, dopo mezzo secolo di terrorismo omofobo non si sa se più democristiano o più semplicemente maschile nella difesa cieca della coppia mai abbastanza procreatrice, il povero Renzi premier riuscì a far approvare una legge di riconoscimento delle unioni omosessuali, mentre già in molte nazioni il vero matrimonio era esteso a tutti: e forse anche per questo suo successo civile Matteo, quello democratico, è tuttora inesorabilmente detestato. Recente manifesto a Verona: “Zona altamente inquinata da immondizia abbandonata e infestata da finocchi molesti”. Pochi giorni fa nel giro elettorale in Abruzzo, il vice premier e ministro dell’Interno: «Fin che campo difenderò il diritto dei bimbi ad avere una mamma e un papà e combatterò contro utero in affitto e adozioni gay». Ci si poteva aspettare che questo altro Matteo, per ora adorato dal Popolo, proseguisse promettendo di difendere anche il diritto dei bimbi a non essere ammazzati da babbo o mamma o privati dalla mamma ammazzata da babbo. Sono momenti duri questi, di incattivimento nuovo, irragionevole e passivo, che impedisce di sopportare oltre la convivenza, la pace che dura da troppi decenni. Riaffiora questo improvviso bisogno di sangue, di guerra, di trincea, di assalto alla baionetta, meglio ancora di atomica, per i fortunati paesi che ce l’hanno. Solo che non si sa più bene chi infastidire, chi far soffrire, chi umiliare, chi escludere, e perché no chi ammazzare. E siccome odiare i cosiddetti Poteri Forti assicura la sconfitta, e odiare gli immigrati non dà risultati di strage promessa e innesca nuove paure o addirittura nuovi rimorsi, e odiare l’Europa pare una impresa pericolosa e odiare i cosiddetti radical chic sa un po’ di muffa, eccoli lì i nuovi nemici, anzi i nemici di secoli, o meglio le facili vittime di sempre: questi froci, questi culattoni, questi rottinculo, questi anormali, questi malati, che si nascondono dentro un aspetto qualsiasi, professioni qualsiasi, convivenze qualsiasi, anche famiglie qualsiasi, quindi difficili da stanare. E quelle sporcaccione che appaiono anche nel nuovo film di Eastwood, “the mule - Il corriere”? Una masnada di motocicliste grasse, muscolose, rapate e in completo di cuoio nero, le famose lesbiche degli incubi maschili? La nostra tivù, anche di Stato, causa audience, ha sdoganato in fretta l’omosessualità, con una serie di cronache sui matrimoni gay con interviste a genitori estasiati; in certe trasmissioni molto seguite come Portobello, è capitato che si aiutasse un ospite gay a trovare il suo partner, e fu un grande successo, mi pare a un Festival di Sanremo, invitare una signora con barba e baffi, dove in altra occasione aveva trionfato una coppia malauguratamente etero con sedici figli. Poi una sera il presidente del Popolo della Famiglia Mario Adinolfi chiese inutilmente che la Rai non trasmettesse un film con Ornella Muti, in cui due uomini si baciavano senza essere mafiosi, il che invece è consentito far vedere. Sempre in difesa “dei nostri bimbi”, che se davvero piccini a quell’ora dovrebbero essere a letto e se decenni sui loro telefonini ne vedono di ogni colore. Non si sono ancora sentite proteste rilevanti per quel che si vede al cinema forse frequentati dagli omo ma non dagli omofobi, e neanche per le piattaforme streaming, come sul diffuso Netlix; dove per esempio nella serie “Le Regole del Delitto Perfetto” due bei ragazzi maschi innamorati passano tutto il tempo a togliersi le mutande e a saltarsi addosso contentissimi. I siti gay confermano che stanno aumentando l’odio, il disprezzo, la voglia di menare, sul web, nelle lettere ai giornali, nelle parole di molti personaggi antichi del nuovo parlamento e governo. Tra le tante lettere di insulti a me e al mondo, che il signor Gianluca Bovi mi scrive da un paese alle porte di Salerno, ce ne è una più illuminante delle altre: «Sono anche dichiaratamente e orgogliosamente omofobo. Mi scusi, siete voi di sinistra a voler far girare il mondo alla rovescia con le vostre teorie sul gender. E ci tocca a noi “omofobi” subire tale epiteto con l’intento di essere giudicati duramente e negativamente...». È omofobo, il signor Bovi, 47 anni, ma è pure razzista, «una persona che se ne vuole stare con la propria etnia, nel mio caso quella caucasica...». Ma soprattutto odia le donne: «Che le donne facciano schifo è un fatto oggettivo... Si chiede se sono misogino? E come può un uomo non esserlo, visto quanto siete viscide e subdole e rompiballe...le ho espresso il sentire del popolo...». Anni fa ricevevo lettere di maschi orripilati dal femminismo, adesso è tutto il genere femminile che odiano: e credo che tutti questi nemici vengano intrecciati tra loro: stranieri, neri, gay, donne. Non si è mai visto un governo più razzista, omofobo, misogino di questo, neppure ai tempi dei democristiani più vaticani, e può essere questo uno dei richiami più forti per il consenso del Popolo; che può finalmente ribellarsi a tutto ciò che lo inquieta, e prima di tutto le donne, che non sono come dovrebbero essere secondo il pensiero di chi non vuole rinunciare al solo potere sicuro, quello di qualsiasi maschio su qualsiasi femmina. Molto frequentato è il sito Sexodus, dedicato «agli uomini che rinunciano alle donne e si ritirano dalla società» con previsioni apocalittiche, il crollo delle istituzioni perpetrato dalle donne dette femministe, il rifugio degli uomini nel porno, nel feticismo, nella dipendenza dalle droghe e dai videogiochi... Qualche giorno fa si è riunita una commissione della Lega per intervenire sulla legge che consente l’interruzione della gravidanza: tutti uomini maturi e un paio di signore. Un muro compatto di donne con cartelli gridava contro la tavolata horror, e allora un tipo grassottello si è alzato furibondo e si è scagliato contro le manife- stanti: ancora non si era mai visto un attacco fisico contro le donne che difendono la loro libertà e la loro vita.
L’Espresso 10.2.19
Oltre il buio, l’umanesimo
La questione in Italia non è se serve o no un partito dei cattolici. La questione è se per uscire dall’odio servono o no i valori cristiani. Opposti a quelli branditi oggi dalla destra
di Giuseppe Genna
L’altra sera, primo di febbraio, uscito per una passeggiata pericolosa nel Bosco di Rogoredo a Milano, l’area di spaccio più vasta d’Europa, lungo i binari della ferrovia, fumiganti nella nebbia gelida, tra l’erba sbiancata ho visto piccole luci, quasi intermittenti e ho impoeticamente pensato a uno smartphone rubato o perduto. Avevo torto: erano lucciole. Il fenomeno mi è parso ai limiti del credibile. Le lucciole, si sa, sono scomparse da decenni e soprattutto non brillano in pieno inverno cittadino. Invece i piccoli coleotteri luminosi sono ritornati, nonostante l’inquinamento, la polluzione che contamina aria acque e territori. Al parco delle Cave, dall’altra parte della metropoli, da qualche anno si organizzano passeggiate estive per ammirarne gli sciami. E dunque mi è tornato alla mente il celebre articolo che Pasolini pubblicò sul Corriere della Sera diretto da Piero Ottone, proprio l’1 febbraio, nel 1975, nove mesi prima di morire, intitolato “Il vuoto di potere” e passato alla storia come l’articolo delle lucciole. Pasolini, fraterno e lontano, constatava la scomparsa delle lucciole nelle campagne italiane, un fenomeno repentino e sconvolgente, una mutazione improvvisa della natura che attestava un più profondo cambiamento nella storia occidentale e, in particolare, in quella nazionale. Ne desumeva un discrimine, con cui era in grado di argomentare la trasformazione del regime democristiano, che dal ’45 alla sparizione degli insetti lumescenti si presentava come continuatore clericale delle istanze del fascismo storico e, dopo la scomparsa delle lucciole, esprimeva un nuovo tipo di fascismo, in cui chiesa, patria, famiglia e ordine non contavano più - a sostituirli erano improvvisamente i “valori” di un nuovo tipo di civiltà, totalmente “altra” rispetto alla precedente, contadina e paleoindustriale. Un vuoto valoriale riempito di efficientismo e tecnocrazia e sottomissione al giogo delle multinazionali, che restituiva sintomi anzitutto linguistici: mentre sparivano le lucciole, «gli uomini di potere democristiani hanno quasi bruscamente cambiato il loro modo di esprimersi, adottando un linguaggio completamente nuovo (del resto incomprensibile come il latino): specialmente Aldo Moro: cioè (per una enigmatica correlazione) colui che appare come il meno implicato di tutti nelle cose orribili che sono state, organizzate dal ’69 ad oggi, nel tentativo di conservare comunque il potere». Pasolini emetteva un acuto sorprendente, pochi mesi prima del suo massacro e tre anni prima di quello che avrebbe coinvolto proprio “il meno implicato di tutti”, Aldo Moro,in un affaire da cui l’Italia non avrebbe mai potuto prescindere, storicamente, antropologicamente. E ora le lucciole sono tornate. C’è una palingenesi, un adattamento della natura, che supera ogni inquinamento. Forse dunque si dovrà affrontare il tema di un terzo tempo del cattolicesimo in politica.
Che cosa comporta il ritorno delle lucciole? Probabilmente, che “il meno implicato di tutti” sia quarant’anni dopo il più implicabile. «Chi non vede la rinnovata ipocrisia, il disprezzo della volontà dei popoli, la gerarchia delle potenze? E nell’interno degli Stati ancora faziosità, incomprensione, violenza, decadere progressivo del senso umano della vita sociale e l’intrinseca debolezza della istanza democratica. Le responsabilità di questo stato di cose sono di tutti noi»: è una descrizione impressionante del presente ed è stata scritta da Moro a due anni dalla caduta del fascismo, quando la democrazia incompiuta stava facendosi, anche grazie a Moro stesso. Le condizioni storiche sono tutte attive: dalla volontà dei popoli che viene disprezzata al predominio delle gerarchie di potenze transnazionali, che si esprime oggi in una richiesta di diminuzione della democrazia partecipata, con spinte totalitarie esplicite, in fase di germinazione e pronte a maturare. Patria, famiglia e ordine, ribaltando Pasolini, sono tornati a essere i “valori” dell’età sovranista, in cui padre Antonio Spadaro, nello scorso numero di questo giornale, ravvede l’esito di una «colonizzazione ideologica», che ha sostituito la paura alla pietà come reazione prima all’apparire dell’altro. L’articolo di Moro si intitolava “Ritorno all’uomo” e non ritorno alla teocrazia. È nell’incandescenza di questo punto che si gioca il tempo in cui sono tornate le lucciole.
Se oggi si chiedesse a un istituto di ricerca un sondaggio sull’eventuale ritorno di un soggetto politico a ispirazione cristiana (che il quotidiano Libero si è affrettato a definire «il partito degli orrori») si otterrebbero dati prossimi al 2 per cento. Una fotografia del presente, che è frutto della strategia cattolica all’indomani dell’estinzione della Democrazia Cristiana, ovvero l’obbiettivo polemico di Pasolini. Si sbaglierebbe tuttavia a considerare numericamente la faccenda del ritorno di un simile movimento politico. «La sistemazione teorica generale in questo Paese fa premio», affermò in tempi sospetti Romano Prodi (in Italia qualunque tempo è sospetto). E forse da quei tempi bisogna partire per riflettere. Pasolini non poteva prevedere il crollo della cosiddetta Prima Repubblica, dalle cui ceneri emerse il consenso a Silvio Berlusconi, rispetto al quale l’allora capo dell’episcopato italiano, Camillo Ruini, propose lo sdoganamento, certificando la fine dell’unità politica dei cattolici e mostrando di «apprezzare consonanze o adesioni anche parziali (quelle di Forza Italia, ndr) sui temi dell’insegnamento sociale cristiano». Ciò che restò a ergersi sempre e compattamente contro la deriva iperliberista del berlusconismo, dagli anni Novanta fino a poco prima della ricomparsa delle lucciole, fu tuttavia il nucleo della sinistra democristiana, ovvero l’erede del discorso umanista di Moro, tra i cui nomi si possono registrare quelli di Sergio Mattarella e Leoluca Orlando. Che, per nulla improvvisamente, ad altezza 2019 sono uno, nelle vesti di Presidente della Repubblica, il garante della tenuta democratica e l’altro il principale oppositore delle politiche portuali di Matteo Salvini, contro cui ha il coraggio di intraprendere uno scontro istituzionale senza precedenti.
È un radicalismo cattolico antagonista all’idea dell’identità chiusa, che vorrebbe intestarsi Salvini in persona, col suo goffo tentativo di accreditarsi in Vaticano. Si tratta piuttosto di un’idea di uomo che ripristina nell’azione politica i valori evangelici dell’amore, della pietà, della dialettica: ovvero la metà in ombra dell’astro politico cattolico, che Pasolini non vedeva. Esistono ferite aperte nel discorso pubblico, alle quali la sinistra maggioritaria non è stata e non pare in grado di proporre suture e superamenti: il conflitto con religioni spacciate per aliene o il travestimento delle più perniciose istanze del capitalismo sotto spoglie di sovranismo - cioè il condizionamento di un popolo che non è più tale, perché ridotto a termitaio: nemmeno a termitaio, bensì a massa indistinta di individui presso cui la solidarietà è diventata un disvalore, a partire dall’idea stessa che la comunità funzioni politicamente attraverso la concessione di una delega di rappresentanza.
Ad altezza 2019 non è più vero che sia anzitutto la lingua a offrire i sintomi del mutamento. Al disumanismo dell’estrema destra ora al governo si oppone in ogni caso l’umanismo cattolico. E tuttavia, da scrittore, non posso ignorare i sintomi della lingua. Del resto, come intuì Leonardo Sciascia a proposito di Aldo Moro, era la letteratura stessa a spiegarne la tragedia (sostantivo di natura letteraria). Testimonia Pietro Boselli che il giovane Moro studiava per ore sul balcone di casa e, affranto dalla stanchezza, restava in bilico sul parapetto fino a notte fonda. In “Amerika” di Franz Kafka, il protagonista Karl Rossman si trova confinato sul balcone e lì accanto, anch’egli su un balcone, c’è uno studente che non fa altro che studiare, non dorme mai, studia sempre e Karl gli chiede quando dorme: «Già, dormire: quando avrò finito gli studi». Le lucciole sono riapparse e lo studente ha finito di studiare, ha dormito e ora sta per svegliarsi.
L’Espresso 10.2.19
Disuguaglianze, indietro tutta
Hanno prodotto ingiustizia, rabbia e sovranismo
Eppure si possono ridurre, invertendo una tendenza trentennale. Le proposte del Forum di Fabrizio Barca
di Alessandro Giulioli
Dopo quasi due anni di lavoro sottotraccia - lontano dai riflettori, dai partiti e dalle controversie quotidiane di palazzo - il Forum delle disuguaglianze e delle diversità è arrivato al dunque. Cioè alla pubblica presentazione (il 25 marzo a Roma) delle sue analisi e delle sue prime proposte per una maggiore giustizia sociale in Italia. Il Forum è un cartello di associazioni, economisti e studiosi il cui volto più noto è Fabrizio Barca, ex ministro, nome storico della sinistra italiana. Ma sarebbe sbagliato ridurre l’iniziativa a lui perché invece ha una vasta e doppia anima: quella di chi sta ogni giorno sul territorio con l’associazionismo e quella di chi studia i macrofenomeni, i dati, le tendenze. Ne fanno parte la Fondazione Basso, la Caritas, Legambiente, ActionAid, Cittadinanzattiva, la fondazione Comunità di Messina, Dedalus Cooperativa sociale, l’Uisp. Ci sono poi, a titolo personale, economisti, sociologi, accademici e ricercatori di diversa estrazione. Da questa alleanza sta nascendo la bozza di quello che è stato chiamato “Programma Atkinson per l’Italia”, dal nome del grande economista inglese morto due anni fa dopo aver dedicato una vita a questi temi con decine di libri di cui l’ultimo, il monumentale “Disuguaglianza. Che cosa si può fare?”, è stato pubblicato nel 2015 da Cortina. Quella che segue è un’intervista collettiva ad alcuni degli esponenti del Forum (vedere in fondo) che abbiamo ospitato nella redazione dell’Espresso per conoscere il senso di questa iniziativa e capire se può accendere una luce nel buio dei progressisti italiani.
Prima di tutto una presentazione: come nasce la cosa che state facendo e soprattutto che obiettivi ha?
«Oggi tutti parlano di diseguaglianze, anche chi ha concorso a produrle e chi le sta sfruttando per imporre una dinamica autoritaria. Noi invece facciamo una diagnosi delle loro cause per arrivare a proposte concrete di trasformazione, di inversione. Lo scopo del Forum quindi è semplice: attraverso l’analisi, arrivare a offrire strumenti praticabili, traducibili in azioni e indirizzi per superare le diseguaglianze o quanto meno il loro eccesso, causa principale della grande crisi in cui ci troviamo oggi, della reazione sovranista e autoritaria che vediamo non solo in Italia. La somma e l’interazione delle diseguaglianze, in crescita da decenni, hanno infatti prodotto in vaste fasce della popolazione paure e rabbie, ma non ancora una alternativa credibile di emancipazione. L’obiettivo del nostro lavoro è contribuire proprio a questa alternativa. Il primo pacchetto di proposte arriverà tra poco più di un mese, poi il Forum lavorerà per dibatterle, farle camminare, sperimentarle, at- tuarle, assieme ad amministrazioni, politici, organizzazioni, sindacati, attivisti, cittadini, decision maker a ogni livello. Insomma all’azione pubblica e collettiva».
Entrando più nello specifico, di che cosa vi occupate?
«Abbiamo deciso di partire dai tre momenti fondamentali in cui si forma la ricchezza. Primo, le trasformazioni tecnologiche nella produzione - la rete, gli algoritmi, l’intelligenza artificiale, la robotica - che modificano radicalmente il modo in cui si forma la ricchezza. Secondo, il tema delicatissimo del passaggio da una generazione all’altra: oggi nascere in un determinato contesto significa vincere o perdere nella lotteria sociale. Terzo, il rapporto tra chi lavora e chi controlla le imprese, con l’esigenza che ai lavoratori - dalle fabbriche alla gig economy e oltre - venga assicurato un salario sufficiente, l’autonomia, la dignità. È in questi tre campi che si gioca la partita, è qui che il Forum vuole intervenire con la sue proposte. Non tanto perché questo è utile nel ridurre le tensioni sociali, nello sbloccare la crescita, ma proprio perché è giusto, perché risponde a un senso profondo di giustizia sociale».
In che modo la tecnologia ha modificato la produzione di ricchezza?
«Negli ultimi trent’anni la rete, il digitale e la logica delle piattaforme hanno prodotto arricchimenti enormi e velocissimi. È stato un fenomeno travolgente che ha trasformato anche il mercato del lavoro: non solo sotto l’aspetto delle competenze, ma soprattutto in termini di polarizzazione delle mansioni e delle retribuzioni. Tuttavia un punto deve essere chiaro: la tecnologia non produce per forza, fatalisticamente, le disuguaglianze. Sono le scelte politiche che le causano. Quindi scelte politiche diverse possono ridurre le disuguaglianze. Ed esistono pratiche che possono invertire l’attuale tendenza. È una scelta, ad esempio, quella di usare gli studi sul Dna per far vivere 130 anni pochi ricchissimi o per produrre farmaci a basso prezzo per tutti. È stata una scelta quella di non regolamentare l’uso dello straordinario pool di conoscenza accessibile che si è creata con la rete e gli algoritmi, tra l’altro grazie a finanziamenti pubblici. È stata una scelta lasciare che queste informazioni fossero acquisite da pochi soggetti con metodi non sempre trasparenti, generando uno scambio ineguale tra corporation digitali e cittadini. E quest’ultima è una questione che va a toccare il concetto stesso di democrazia, di controllo democratico».
Il secondo punto, quello del passaggio generazionale, ha una rappresentazione plastica nel divario dell’istruzione. È sempre più ampia la forbice tra le scuole d’élite - quelle che formano l’uno per cento di domani - e tutte le altre...
«Sì, ma attenzione perché il problema è più ampio e noi vogliamo concentrarci sull’aspetto collettivo - non individuale - della formazione di disuguaglianze nel passaggio generazionale. Per capirci: oggi anche a parità di istruzione chi nasce in una famiglia povera non ha le stesse possibilità di chi nasce in una famiglia ricca. La disuguaglianza nelle nuove generazioni ha a che fare con tante cose: l’ambiente che si frequenta, i servizi che ci sono sul territorio, i viaggi che si possono o non possono fare, anche il livello di relazioni che ha o non ha la famiglia di origine. Dai nostri dati risulta ad esempio che, tra i redditi da lavoro, la differenza di titolo di studio spiega una quota piccolissima del divario di stipendio; per contro, a parità di titolo di studio ci sono grandi differenze di reddito. E il figlio meno istruito di una buona famiglia in media guadagna di più del figlio laureato di una famiglia povera».
Dov’è quindi il centro del problema?
«Nel riequilibrio di potere - di potenzialità reali - tra le persone. Ci siamo forse un po’ disabituati a parlare di potere e di trasferimento di potere, di politiche pubbliche che rendono davvero più uguali le opportunità».
E questo è connesso anche con il terzo campo in cui volete giocare, quello dei rapporti nella produzione, nel lavoro.
«Certo, perché la relazione negoziale tra i lavoratori e chi controlla l’impresa è il luogo principale da cui discendono la distribuzione di ricchezza, i divari retributivi e lo stesso indirizzo del cambiamento tecnologico. Anche in questo caso sono state scelte politiche quelle che hanno sbilanciato questa relazione. Bisogna favorire il reinvestimento nel dividendo - incluso quello che deriva dall’innovazione - non solo rendendolo più favorevole al reddito, ma anche in servizi di cura della persona, dell’ambiente, del riequilibrio tra zone benestanti e aree dimenticate. Senza scordare che il lavoro non è solo salario ma anche autonomia e soddisfazione del lavoro: e qui l’obiettivo delle proposte sarà anche nella direzione di ridurre le mansioni ripetitive e ridurre la loro polarizzazione, anziché accrescere il controllo gerarchico».
Come state arrivando a queste proposte concrete?
«Abbiamo un metodo bidirezionale, diciamo: dall’alto verso il basso e dal basso verso l’alto. Il primo è quello di sperimentare dalla teoria alla pratica, dallo studio al territorio. Il secondo va alla rovescia: e arriva alla teorizzazione attraverso i risultati delle pratiche migliori che già esistono, in Italia e all’estero. Abbiamo poi una metodologia sperimentale e partecipativa: in tutti i nostri incontri il consensus è la condizione di ogni diagnosi e quindi di ogni proposta».
Mi è chiaro che non siete un partito, però non siete neanche un semplice think tank, dato questo rapporto continuo con il reale che va oltre gli studi accademici. In ogni caso nel vostro percorso dovrete cercare degli interlocutori, se non proprio delle alleanze...
«Gli interlocutori saranno le persone di buona volontà, a partire da quelle che all’interno della società già stanno facendo queste cose o potrebbero farle. Possono essere amministrazioni comunali avanzate, come quelle che in questo momento stanno facendo rete in Italia e all’estero - da Barcellona a Palermo, da Milano a Messina - per creare piattaforme di partecipazione dei cittadini. Ma anche università interessate a una maggiore giustizia sociale attraverso modalità sperimentali, imprenditori disponibili a provare le soluzioni che proponiamo nel settore del lavoro, naturalmente sindacati impegnati nel costruire nuove forme di tutela dei lavoratori. Ci sono cose che già in parte avvengono, come si diceva, ma non sono ancora messe a sistema».
E i partiti?
«Fino a pochi anni fa offrivano un terreno, oggi molto meno. Pensano più alla tattica e alle prossime elezioni che alla costruzione. Ma speriamo di avere comunque interlocutori anche dentro i partiti».
Anche ammesso che le vostre proposte siano raccolte, poi come potrebbero incidere veramente in un capitalismo sempre più globale, dove tutto dipende da grandi fenomeni economici e finanziari che non si possono più controllare a livello locale?
«I fenomeni economici di cui lei parla non sono ontologici e ineluttabili: sono il frutto di regole, regole del gioco. Regole che, così come sono, producono sempre maggiore ingiustizia sociale. Noi non crediamo che sia indifferente se in ogni Paese ciascuno fa pro- poste per modificare queste regole del gioco. Anche in Italia, che è la seconda potenza manifatturiera d’Europa, ha un Pil tra i primi dieci del mondo, un eccellente sistema di piccole imprese e un mondo del lavoro vivace. Il nostro è un Paese che può contribuire a cambiare i regolamenti internazionali, le regole del gioco. No, non siamo velleitari o almeno cerchiamo sempre di non esserlo».
All’intervista collettiva con il Forum Disuguaglianze Diversità pubblicata in queste pagine hanno risposto: Fabrizio Barca, statistico ed economista, docente universitario, coordinatore del Forum. Vittorio Cogliati Dezza, insegnante, nella segreteria di Legambiente, dove si occupa di politiche sociali. Nunzia De Capite, sociologa di Caritas Italiana dove si occupa di povertà e politiche sociali. Marco De Ponte, segretario generale di ActionAid. Maurizio Franzini, professore di Politica Economica all’Università La Sapienza di Roma. Elena Granaglia, professoressa di Scienza delle Finanze all’Università Roma Tre.Patrizia Luongo, economista, si occupa di povertà e disuguaglianze. Andrea Morniroli, della cooperativa sociale Dedalus, dove si occupa di politiche di welfare.
Silvia Vaccaro, giornalista, si occupa di comunicazione sociale e di tematiche di genere.
L’Espresso 10.2.19
Hovistocose di Beatrice Dondi
Sorelle d’Italia
Storie di donne per un racconto universale. “Le Ragazze” su Rai Tre
L’Italia è un Paese di poeti, santi e navigatori. E di operaie, partigiane, infermiere, suore e biologhe. Per costruire mattone dopo mattone la facciata di questa casa che sentiamo nostra c’è stato bisogno del contributo di tutti, uomini e donne. Ognuno ha fatto il suo. È questo che resta dopo aver visto “Le Ragazze” su Rai Tre. Quel senso di costruzione pezzo dopo pezzo, di piccole grandi storie che diventano qualcosa di veramente solido quando vengono appoggiate una vicino all’altra. Isa Barzizza, celebre spalla femminile di Totò, bionda dall’eleganza esplosiva, era sul piccolo schermo nella prima trasmissione ufficiale della Rai. Era il Il 3 gennaio 1954. Quando, nel 1943, iniziano le deportazioni degli ebrei, Elena Ottolenghi ha 14 anni. Sul suo certificato di iscrizione a scuola c’è scritto “di razza ebraica”. Elena lo ricorda, a settant’anni ancora bella come il sole e regala con i suoi frammenti di memoria una spada di gelo che rimane ben issa nella spina dorsale di tutti. Nell’agosto del 1969 Albalisa Sampieri è a Woodstock. «Di tempo per mangiare non ce n’era, maper fare l’amore sì, ne avevamo tanto». Angela Buttiglione è stata giornalista vaticanista. Saliva sull’aereo del Papa quando le donne scrivevano in quota rosa di moda, bambini, cani. Invece Eleonora Brown aveva 11 anni quando girò “La Ciociara”. «Non sapevo cosa fosse lo stupro e De Sica mi disse di non preoccuparmi: “Pensa di aver preso dei pugni sulla pancia, tirati giù la maglia, sentirai meno dolore”». Elena Cattaneo entrò nel laboratorio di Boston nel 1988. Lavorava dalle otto a mezzanotte. E quando usciva era completamente sola in quella città lontana. Adele Ravagnani ha 22 anni, è laureata in fisica, fa judo da quando ha 6 anni. E convive con la sclerosi multipla. Tra foto, occhi lucidi
e tracce di rossetto si snoda un racconto di piccole ed enormi conquiste che non appartengono solo alle donne ma alla società civile tutta. Perché un Paese cresce sotto un unico cielo anche se ci si ostina a immaginarlo come due metà separate. Una storia d’Italia che nella sua pacata eleganza accumula denuncia, allegria, musica, violenza fatica e sorrisi. E ricorda i mattoni tirati in testa a Krazy Kat. Che sebbene facciano male, nella loro durezza sono un gesto d’amore.
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