La Stampa 13.2.19
Felici nella prigione di Orwell
Con “1984” ha anticipato l’attuale società del controllo digitale
di Massimiliano Panarari
Esistono
dei libri straordinariamente profetici, perfino al di là delle
intenzioni dei loro autori. E, in questo senso, il grande George Orwell
(pseudonimo di Eric Arthur Blair, 1903-1950) è stato un autentico
«sensitivo» del futuro. Omaggio alla Catalogna (1938), il suo reportage
in presa diretta della Guerra civile spagnola, è stato la
preconizzazione del naufragio delle illusioni rivoluzionarie del
Novecento e dell’eterna lotta intestina alla sinistra, che ne ha
dilapidato parecchie delle energie tra violenze, ortodossie e
conformismi. Nella Fattoria degli animali (1945) ci ha spiegato perché
la proclamazione dell’«uno vale uno» rappresenta una menzogna
interessata e una concezione assai distorta e manipolata della società
(un’allegoria oggi terribilmente d’attualità). E in 1984 - di cui
ricorre il settantesimo anniversario della pubblicazione, celebrato dal
nuovo numero di Origami in uscita domani - ha prefigurato l’avvento
della società della videosorveglianza indiscriminata.
Un libro
premonitore come pochi, e che contiene un ammonimento sempre valido,
perché il socialista libertario Orwell volle metterci in guardia da un
rischio, quello della negazione della libertà attraverso l’occhiuta e
ossessiva «vigilanza» del Grande Fratello, che non rappresenta una
prerogativa esclusiva dei regimi fascisti e comunisti. Bensì, come
scriveva nel ‘49 in una lettera al sindacalista Usa Francis A. Henson
(riportata su Origami), «il totalitarismo potrebbe trionfare ovunque»,
anche nei sistemi politici liberaldemocratici. E le votatissime tendenze
politiche di questi nostri anni, avverse alla visione della società
aperta e pronte a promettere protezione in cambio di una riduzione dei
diritti individuali, ne costituiscono, a conti fatti, un’ulteriore
conferma.
L’inquietante satira politica e sociale orwelliana,
erede del filone letterario di lingua inglese che ebbe tra i progenitori
Jonathan Swift, ha davvero colto nel segno, e ha occupato il nostro
immaginario in maniera indelebile, divenendo un oggetto prediletto della
cultura pop attraverso film, serial, fumetti e pubblicità. Si potrebbe
dire che esiste un filo rosso che va dal Panopticon di Jeremy Bentham
fino ai social network, e il prototipo della prigione perfetta inventata
dal filosofo utilitarista si invera nelle piattaforme digitali che
riempiono ossessivamente la vita quotidiana di tanti abitanti del
Villaggio globale. Proprio l’Occidente neoliberale e postmoderno si è
fatto (anche) «società della sorveglianza», e si è riempito di
telecamere e «occhi elettronici» - per usare le formule del sociologo
David Lyon - dilatando le intuizioni di Orwell.
Con una
caratteristica dirompente e irresistibile, lo aveva messo bene in
evidenza Michel Foucault: dopo l’invenzione benthamiana del «carcere
ideale» (fonte di ispirazione per l’autore di 1984), il potere si
sarebbe enormemente fortificato - così come i suoi strumenti di
controllo - dismettendo il dominio verticale e dall’alto e permeando e
innervando, invece, la società in modo reticolare.
Dal panottico
si passa dunque alla Rete, l’amichevole Grande Fratello contemporaneo,
uno dei cui padroni, Mark Zuckerberg di Facebook - insieme con numerosi
altri tycoon high tech –, invita gli utenti a mostrarsi completamente
aperti e «visibili» nella propria esistenza digitale. E, così, nel nome
dell’ideologia della trasparenza assoluta, lo scivolamento dalla «casa
di vetro» alla «prigione di vetro» è diventato veramente un attimo.
Senza nemmeno più bisogno della psicopolizia, perché nella postmodernità
la realtà (fattasi iperreale) supera la fantasia. D’altronde, gli
attuali nazionalpopulismi non si alimentano di paradigmi comunicativi
che ricordano molto da vicino la neolingua e il bispensiero creati da
Orwell nel suo romanzo distopico? Come, per l’appunto, i «fatti
alternativi» degli spin doctor della Casa Bianca trumpiana, che hanno
fatto impennare le vendite su Amazon del libro orwelliano, dopo essere
stati evocati per la prima volta nel gennaio 2017 dalla consigliera
presidenziale Kellyanne Conway.
L’idea prêt-à-porter del Grande
Fratello che, non visto, ci scruta incessantemente è dilagata
nell’immaginario collettivo e nell’industria culturale e mediatica, da
film come The Truman Show di Peter Weir (1998) ai popolarissimi
(omonimi) reality show che imperversano in questi anni in tv. Fino a
graphic novel che hanno lasciato un segno come V for Vendetta (1988) di
Alan Moore e David Lloyd, dove il protagonista lotta contro una
reincarnazione del Big Brother indossando quella «maschera di Guy
Fawkes» che si è convertita nel marchio di fabbrica degli hacker di
Anonymous e di svariati movimenti antagonisti. E, ancora, 1984 è stato
uno degli spot commerciali più leggendari del XX secolo, realizzato da
Ridley Scott per presentare il pc di Apple, mettendo in scena la
prometeica lotta per l’autodeterminazione e la creatività dell’individuo
contro il collettivismo omologante del Grande Fratello. La perversa
ironia della storia, visto che nel Terzo millennio è proprio l’Ideologia
californiana (di cui Steve Jobs ha rappresentato uno dei primi
predicatori) ad avere implementato, tra gli inconsapevoli applausi di
tutti noi consumatori e navigatori, la predizione del controllo totale
fatta dallo scrittore e giornalista britannico a metà del Secolo breve.—