La Stampa 10.12.19
Foibe, il ricordo che divide
La destra contro gli storici e l’Anpi
di Mario Baudino
Non
appena la Quarta armata jugoslava entrò in Trieste, gli agenti della
polizia politica di Tito si dettero da fare: la loro prima
preoccupazione fu di arrestare e eliminare i membri del Comitato di
Liberazione Nazionale, i leader italiani della Resistenza. Sul confine
orientale l’unico antifascismo doveva essere quello dell’esercito
vincitore, dei croati, degli sloveni e dei serbi. L’equazione
italiano-fascista era funzionale alla geopolitica, e attecchì bene: la
marea dei profughi giuliano-dalmati, che per anni si riversarono al di
qua del confine abbandonando terre e proprietà, venne spesso accolta in
modo oltraggioso dagli esponenti della nostra sinistra (non a Torino,
però, dove il sindaco comunista Celeste Negarville organizzò accoglienza
e aiuti). Alla Spezia, durante la campagna per le elezioni politiche
del ’48, un dirigente della Camera del Lavoro si abbandonò durante un
comizio a un gioco di parole piuttosto agghiacciante: «In Sicilia hanno
il bandito Giuliano, noi qui abbiamo i banditi giuliani».
La
tragedia delle foibe si ripeté due volte: i partigiani jugoslavi erano
infatti dilagati in Venezia Giulia nel settembre del ’43 (con
l’eccezione di Pola, Fiume, Trieste), per essere poi ricacciati dai
tedeschi nell’ottobre nello stesso anno. Ma subito erano cominciate le
esecuzioni sommarie (rese pubbliche dalla propaganda bellica della Rsi, e
destinate a ripetersi in misura assai maggiore nel ’45) in base
all’identificazione dei italiani come nemici, con le vittime annegate in
mare o gettate nelle profonde cavità carsiche. E quella tragedia a
lungo rimossa in un’Italia che non voleva ammettere né la sua sconfitta
né le violenze commesse nei Balcani, ignorata a sinistra fino al 2002
quando un libro molto fortunato di Gianni Oliva affrontò il tabù, ancora
divide, nonostante l’istituzione - anch’essa nata da una
tormentatissima discussione - del «Giorno del Ricordo». Aveva appunto lo
scopo di conciliare le memorie: in parte raggiunto, in parte no.
È
di questi giorni la polemica innescata a destra - da Fratelli d’Italia a
Casa Pound, proprio gli eredi di quel fascismo che con la sua politica
di aggressione e nazionalizzazione è uno dei protagonisti del dramma -
contro alcuni convegni, da Parma a Trieste, definiti «negazionisti». È
stata diffusa una dichiarazione di Matteo Salvini che chiedeva di
rivedere i contributi alle associazioni, «come l’Anpi, che negano le
stragi fatte dai comunisti nel dopoguerra». Il clima si è surriscaldato
all’insegna, come ormai accade puntualmente, della competizione
politica. Nel mirino gli storici, che col procedere della ricerca hanno
puntualizzato ad esempio le cifre del massacro di italiani, indagato sui
silenzi del Pci e di Togliatti e anche su quelli imbarazzati dei
governi post bellici.
Le foibe rimangono uno spaventoso episodio
di pulizia etnica - a lungo rimosso -, qualunque ne sia la portata
«numerica». Farne oggetto di propaganda è un insulto alla memoria delle
vittime. Ne discutono in questa pagina due storici, al di là delle
polemiche contingenti.