La Stampa 10.2.19
La storia utilizzata come un randello nel confronto politico
di Giovanni De Luna
Nel
dibattito sulle foibe gli storici vengono relegati in secondo piano; è
sempre stato così, a partire dalle polemiche che accompagnarono
l’approvazione della legge che istituiva il Giorno del Ricordo,
approvata il 16 marzo 2004. La proposta, presentata dall’on. Roberto
Menia, trovò un consenso quasi unanime. Ci si divise però sulla data: il
centrodestra aveva subito proposto il 10 febbraio; il centrosinistra
aveva replicato con il 20 marzo, giorno della partenza dell’ultimo
convoglio di profughi italiani da Pola. Fu il sen. Servello (ex Msi) a
illustrare le ragioni della scelta del centrodestra: il 10 febbraio era
«il giorno del Trattato di Parigi che impose all’Italia la mutilazione
delle terre adriatiche». Il fatto che nessuna delle due date fosse
legata effettivamente alle foibe non sembrava degno di interesse. Menia
citava il numero dell’11 febbraio 1947 del giornale Il grido
dell’Istria: «Finis Histriae: 10 febbraio. L’Istria non è più Italia».
Non le foibe bisognava ricordare il 10 febbraio, ma l’«infame diktat di
Parigi».
Nell’argomentare le varie posizioni ci si confrontò del
tutto marginalmente con le ricerche degli storici. I sostenitori (il
relatore Luciano Magnalbò) del provvedimento citavano un rapporto della
Special Intelligence (?) datato 30 novembre 1944 e pubblicato sul
Corriere della Sera («Ci viene riferito che in tutto i partigiani
jugoslavi hanno gettato parecchie centinaia di persone nelle foibe»).
Altri (Piergiorgio Stiffoni) si riferivano genericamente a documenti
dell’Oss, dai quali «risultava evidente che gli alleati, americani e
inglesi, fin dall’autunno 1944 ebbero notizia delle foibe ma preferirono
non intervenire per non irritare Tito che consideravano un alleato sul
fronte antinazista». A sostegno degli oppositori c’erano le conclusioni
dei lavori della commissione bilaterale italo-slovena e i Quaderni della
Resistenza pubblicati dall’Anpi del Friuli-Venezia Giulia. Questo era
tutto.
Quanto alla bibliografia, tutti tirarono in ballo gli
stessi libri, quelli dello storico Gianni Oliva: mentre Servello ne
citava un brano usandolo per denunciare il mito «autoassolutorio» della
Resistenza, sul fronte opposto, Vittoria Franco ne utilizzava un’altra
frase all’interno di una impegnata perorazione perché le foibe fossero
considerate «un fenomeno dovuto sia alla politica di italianizzazione
forzata da parte del fascismo, che mirava all’annullamento dell’identità
nazionale delle comunità slovene e croate, sia alla politica
espansionistica di Tito per annettersi Trieste e il goriziano».
Nell’uso
pubblico della storia era così allora ed è così oggi: non tesi che si
confrontano sulle fonti e sui documenti, ma argomentazioni che diventano
nodosi randelli da brandire contro i propri avversari. E le vicende del
passato sono degradate a puri pretesti.