martedì 12 febbraio 2019

La Stampa 10.2.19
La storia utilizzata come un randello nel confronto politico
di Giovanni De Luna


Nel dibattito sulle foibe gli storici vengono relegati in secondo piano; è sempre stato così, a partire dalle polemiche che accompagnarono l’approvazione della legge che istituiva il Giorno del Ricordo, approvata il 16 marzo 2004. La proposta, presentata dall’on. Roberto Menia, trovò un consenso quasi unanime. Ci si divise però sulla data: il centrodestra aveva subito proposto il 10 febbraio; il centrosinistra aveva replicato con il 20 marzo, giorno della partenza dell’ultimo convoglio di profughi italiani da Pola. Fu il sen. Servello (ex Msi) a illustrare le ragioni della scelta del centrodestra: il 10 febbraio era «il giorno del Trattato di Parigi che impose all’Italia la mutilazione delle terre adriatiche». Il fatto che nessuna delle due date fosse legata effettivamente alle foibe non sembrava degno di interesse. Menia citava il numero dell’11 febbraio 1947 del giornale Il grido dell’Istria: «Finis Histriae: 10 febbraio. L’Istria non è più Italia». Non le foibe bisognava ricordare il 10 febbraio, ma l’«infame diktat di Parigi».
Nell’argomentare le varie posizioni ci si confrontò del tutto marginalmente con le ricerche degli storici. I sostenitori (il relatore Luciano Magnalbò) del provvedimento citavano un rapporto della Special Intelligence (?) datato 30 novembre 1944 e pubblicato sul Corriere della Sera («Ci viene riferito che in tutto i partigiani jugoslavi hanno gettato parecchie centinaia di persone nelle foibe»). Altri (Piergiorgio Stiffoni) si riferivano genericamente a documenti dell’Oss, dai quali «risultava evidente che gli alleati, americani e inglesi, fin dall’autunno 1944 ebbero notizia delle foibe ma preferirono non intervenire per non irritare Tito che consideravano un alleato sul fronte antinazista». A sostegno degli oppositori c’erano le conclusioni dei lavori della commissione bilaterale italo-slovena e i Quaderni della Resistenza pubblicati dall’Anpi del Friuli-Venezia Giulia. Questo era tutto.
Quanto alla bibliografia, tutti tirarono in ballo gli stessi libri, quelli dello storico Gianni Oliva: mentre Servello ne citava un brano usandolo per denunciare il mito «autoassolutorio» della Resistenza, sul fronte opposto, Vittoria Franco ne utilizzava un’altra frase all’interno di una impegnata perorazione perché le foibe fossero considerate «un fenomeno dovuto sia alla politica di italianizzazione forzata da parte del fascismo, che mirava all’annullamento dell’identità nazionale delle comunità slovene e croate, sia alla politica espansionistica di Tito per annettersi Trieste e il goriziano».
Nell’uso pubblico della storia era così allora ed è così oggi: non tesi che si confrontano sulle fonti e sui documenti, ma argomentazioni che diventano nodosi randelli da brandire contro i propri avversari. E le vicende del passato sono degradate a puri pretesti.