Associazione Culturale Amore e Psiche
supplemento di "segnalazioni" -
spogli di articoli apparsi sulla stampa e sul web
domenica 3 febbraio 2019
il manifesto 3.2.19
Il pericolo del ritorno dell’opzione nucleare
Corsa al riarmo. «Un’opzione come l’aria condizionata in automobile», scriveva Luigi Pintor in uno dei suoi editoriali dopo l’11 settembre. Quell’articolo iniziava con queste parole: «Non ammetto che l’opzione nucleare sia un’opzione. Non ammetto che il ministro della difesa americano la metta nel conto. Non ammetto che un telegiornale prospetti questa eventualità tra la pubblicità di un dentifricio e una previsione meteorologica»
di Guido Moltedo
È suggestivo e inquietante, molto più che un avvincente romanzo spionistico, il racconto di un presidente degli Stati uniti pupazzo e agente del Cremlino. Indubbiamente fa presa. E fosse una bufala? C’è solo da aspettare un po’ per appurarlo, quando l’inchiesta condotta dal silenzioso e operoso Mueller svelerà quanto c’è di fondato e quanto di romanzato in quel che si dice e si scrive a proposito di Donald Trump, a partire dalla sua fortunata campagna presidenziale in poi.
Nel frattempo, in attesa del verdetto dell’inflessibile special counsel, è consigliabile la lettura di certe cifre riguardanti il complesso militare-industriale (definizione di Eisenhower), unite alla lista delle misure prese nei confronti di Mosca da parte dell’attuale amministrazione. Esercizio istruttivo, al termine del quale vien da pensare che non c’è miglior nemico del migliore amico del presidente, per chi lavora oggi con Trump nel campo della guerra, che è il più importante comparto economico americano.
Mai così florido, mai in forma così smagliante. Mai così quintessenziale. Basti dire che il segretario alla difesa reggente, dopo l’allontanamento del generale Jim Mattis, è Patrick Shanahan, trent’anni trascorsi ai vertici della Boeing, il secondo fornitore del Pentagono. Non solo di aerei, ma anche di missili e di sistemi d’arma che sono al centro del pacchetto di trilioni destinati all’ammodernamento dell’arsenale nucleare, che seguirà il ritiro degli Usa – in esecuzione a partire da oggi – dal trattato Inf (Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty) sulle armi nucleari firmato da Ronald Reagan e Mikhail Gorbaciov nel 1987.
Con amici così, Putin può star tranquillo.
D’altra parte, il suo agente a Washington gli aveva già manifestato la sua sottomissione con la conferma delle sanzioni economiche dopo l’annessione della Crimea; con il sostegno a una forza di rapido impiego della Nato, trentamila soldati, schierati contro un ipotetico attacco russo; con l’aumento dal 2 al 4 per cento delle spese militari imposto agli alleati atlantici. E poi con la fornitura di armi all’Ucraina, che Obama aveva negato.
Con il mancato ritiro, dopo l’annuncio, dalla Siria, mentre, che si sappia, neppure uno dei 50.000 militari americani di stanza in Europa è riuscito tornare a casa, nonostante i proclami del presidente filorusso.
Più la ciliegina dell’ingresso del Montenegro nella Nato che, come scrive The American Conservative, «è evidentemente irrilevante per la sicurezza nazionale statunitense», ma è un chiaro segnale ostile nei confronti di Mosca.
Ma, s’obietta, il vero obiettivo del ritiro dall’Inf non è la Russia di Putin, è la Cina di Xi. Potenza nucleare del Pacifico, la regione dove si gioca la grande partita strategica, ma potenza fuori dei trattati firmati da Usa e Russia, dotate di missili intercontinentali e di immensi arsenali atomici.
Oggi Pechino è in cima alla lista degli avversari dell’America di Trump. Sì, si può anche ragionare sui reali obiettivi a breve e medio termine della mossa del presidente statunitense. Il che però non può distogliere l’attenzione dagli effetti incontrollabili che essa produce, aprendo di fatto la strada a una giungla atomica.
A una corsa illimitata al nucleare. Innanzitutto da parte della Russia che vede saltare un accordo di cui è contraente principale.
Fosse anche vero che non è il bersaglio numero uno, non può stare ferma, nella logica della reciproca deterrenza. Una corsa che vede impegnate anche altre medie e piccole potenze nucleari, nelle diverse aree del mondo, e ovviamente la Cina in primis. Quali vincoli possono essere imposti se i due giganti militari rompono il patto? Quale limite può essere posto, chi può porlo, all’impiego di armi nucleari tattiche?
Con questo «libera tutti», il ricorso all’atomica dunque torna a essere «un’opzione». Dopo le torri gemelle, era stata l’amministrazione Bush a mettere sul tavolo delle «opzioni» possibili l’uso dell’arma nucleare.
Dopo il crollo dell’Urss, fino all’11 settembre, quell’idea sembrava destinata a diventare, se non un tabù, un’ipotesi militare, certo non politica, dentro una residuale logica di deterrenza.
Finita l’era Bush, con Obama sembrava che ci si potesse di nuovo avviare verso un mondo addirittura post-atomico. Adesso torna l’idea dell’«opzione» nucleare.
«Un’opzione come l’aria condizionata in automobile», scriveva Luigi Pintor in uno dei suoi editoriali dopo l’11 settembre.
Quell’articolo iniziava con queste parole: «Non ammetto che l’opzione nucleare sia un’opzione. Non ammetto che il ministro della difesa americano la metta nel conto. Non ammetto che un telegiornale prospetti questa eventualità tra la pubblicità di un dentifricio e una previsione meteorologica».
Parole indimenticabili. Oggi ancora più inquietanti, in un mondo in cui si sfarinano gli ultimi residui di misure condivise a tutela dell’equilibrio nucleare.
il manifesto 3.2.19
Tutti sotto l’egida del dottor Stranamore
La settimana "americana". Quando non sai più che fare si torna al vecchio classico del Dottor Stranamore che moltiplica la paura con una nuova corsa agli armamenti per giustificare bilanci della difesa sempre più salati
di Alberto Negri
È stata una magnifica settimana americana. Soprattutto «in mano agli americani», tra Afghanistan, Venezuela e un prepotente ritorno di guerra fredda. Quando non sai più che fare si torna al vecchio classico del Dottor Stranamore che moltiplica la paura con una nuova corsa agli armamenti per giustificare bilanci della difesa sempre più salati.
Ma come è noto, la politica in Usa è soltanto la parte di intrattenimento del complesso militar-industriale e Putin ieri ha reagito con la sospensione della partecipazione anche della Russia al trattato anti-missili, pur rifiutando l’ipotesi di una escalation nucleare. Prima c’è stato l’annuncio della tregua possibile con i talebani e un futuro ritiro dall’Afghanistan, quindi sono arrivate le pressioni sull’Europa per riconoscere a Caracas come presidente Guaidó e infine il ritiro Usa dal trattato sui missili nucleari intermedi (Inf). Gli Stati uniti ci hanno così servito un menù da Masterchef della storia mondiale. Il tutto in attesa della prossima puntata, il vertice anti-Iran in Polonia.
In Afghanistan gli Stati uniti hanno messo fine alla guerra al terrorismo iniziata l’11 settembre 2001 dopo gli attentati di Al Qaeda a New York e Washington. Erano più di 17 anni fa quando cominciò la più lunga guerra della storia americana, seguita nel 2003 dall’invasione dell’Iraq, dall’attacco alla Libia di Gheddafi nel 2011 con Francia e Gran Bretagna, dal coinvolgimento diretto in Siria, da dove Trump vorrebbe andarsene. Un colpo di scena geniale: la guerra al terrorismo islamista è stata sostituita da Maduro che secondo il consigliere della sicurezza nazionale John Bolton potrebbe finire a Guantanamo insieme a Khaled Sheikh Mohammed, uno dei padrini di Al Qaeda.
In poche parole gli Stati uniti ci stanno dicendo che hanno più o meno sbagliato tutto ma che dobbiamo stare zitti e impegnarci nella nuova guerra fredda contro la Russia che mantenendo al potere Bashar Assad (e annettendosi anche la Crimea) ha fatto saltare il piano di destabilizzazione mediorientale voluto dall’ex segretario di Stato Usa, la signora Hillary Clinton, dalla Turchia, da Israele e dalle monarchie del Golfo, con l’attivo sostegno di Francia e Gran Bretagna. Se Assad fosse caduto sarebbe stato un duro colpo alla presenza militare di Mosca nella regione e al prestigio dell’Iran, che ha esteso la sua influenza dall’Iraq, alla Siria al Libano. È accaduto il contrario: adesso anche Assad sarà riaccolto nel mondo arabo che lo detestava.
Anzi Assad, nonostante la ferrea alleanza con Teheran, sta dalla parte giusta nella lotta ai Fratelli Musulmani voluta da Egitto e Arabia Saudita. È della partita anche il generale libico Khalifa Haftar, sostenuto da Russia, Egitto, Francia, Emirati, che si oppone al governo di Tripoli appoggiato dai Fratelli, dal Qatar e dalla Turchia. Prima o poi anche per l’inutile governo Sarraj suonerà la campana dell’ultimo giro, un esecutivo riconosciuto dall’Onu ma che non rispetta alcuna regola internazionale e al quale l’Italia si è adeguata con una tragica assenza di lungimiranza.
Per la verità, al momento, non si vede ancora un segnale di ritiro concreto degli Stati uniti, né dall’Afghanistan né dalla Siria dove la Russia guida le danze nel Nord del Paese, con Putin che taglia sottili e complicate fette di torta con cui dividere le zone di influenza tra Turchia, Siria e curdi.
In poche parole i talebani, considerati dagli Usa i peggiori terroristi al mondo insieme ad Al Qaeda e all’Isis, verranno riciclati in vista di un ritiro americano che prepara la retrovia afghana a un possibile attacco all’Iran.
Agli europei e in particolare all’Italia non è stato detto nulla se non a fatto compiuto. Ancora una volta gli italiani hanno fatto la figura dei camerieri che da tempo non sanno che fare del loro contingente di 900 uomini a Herat dove hanno perso la vita 54 soldati.
Ma il Paese sfiora il ridicolo quando litiga, oltre che sui profughi, anche sul Venezuela: non contento di essersi fatto bombardare Gheddafi, il suo maggiore alleato, pretende di dire la sua pure lì dove non contiamo nulla. Per una volta abbiamo tirato indietro la mano lasciando gli altri a farsi coinvolgere in uno Stato dove probabilmente saranno i militari a decidere la sorte di un Paese affamato e con il più alto tasso di omicidi dell’America Latina (81 ogni centomila abitanti).
Auguri all’erede di Maduro, perché non basta il bel faccino di Guaidó a tenere insieme posti del genere.
Ma è il Dottor Stranamore che ci detterà l’umore nei prossimi mesi con un tocco di fenomenale tecnologia bellica e spaziale. Con l’affossamento da parte Usa del trattato sui missili balistici (Inf) l’Unione europea ha dato via libera alla possibile installazione di nuovi missili nucleari americani in Europa, Italia compresa.
E su questo punto chiave, come sottolineava ieri sul manifesto Manlio Dinucci, nessuno ha detto niente, dal governo all’opposizione.
Trump ha annunciato che lancerà nello spazio satelliti con sensori e missili per rendere impossibile un attacco nucleare diretto agli Usa: pazienza se noi qui saremo in prima linea. Speriamo di riuscire a distinguere tra i satelliti Usa e gli Ufo degli alieni che secondo i teorici del paleo-contatto sono tra noi da alcuni millenni. La chioma spaziale di Trump può essere già una prova della loro presenza.
Il Fatto 3.2.19
Il nuovo wargame si chiama “conflitto nucleare tattico”
Corsa ai missili - Fine del trattato Inf, i russi attivano la base di Kaliningrad, gli americani tornano al progetto “Davy Crockett”: una Bomba da fanteria
di Valerio Cattano
Trump e Putin rivestono i panni del dottore Stranamore e si lanciano in una nuova corsa agli armamenti? L’ipotesi non è peregrina dopo le dichiarazioni degli ultimi giorni. Stavolta però il wargame si chiama “conflitto nucleare tattico”, in cui le testate, di dimensioni ridotte, sarebbero schierate sul campo di battaglia.
“Forniremo una risposta speculare. I partner americani hanno annunciato la sospensione della loro partecipazione al trattato e anche noi la sospenderemo”. Questa la replica del presidente Putin, alla decisione degli Stati Uniti di ritirarsi dal trattato sui missili nucleari a medio raggio, accusando Mosca di averlo ignorato.
Washington, con il supporto della Nato, ha evidenziato che i russi in barba all’accordo del 1987 hanno sviluppato il missile nucleare 9M729, di portata superiore ai 500 chilometri: una violazione dell’Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty che fu firmato dai presidenti Ronald Reagan per gli Usa e Michail Gorbaciov per la Russia: si concluse così la tensione legata ai missili nucleari di raggio intermedio su territorio europeo: erano state vietate in modo ufficiale le armi di portata fra 500 e 5.500 chilometri.
Ieri gli americani hanno lasciato la porta aperta: il loro ritiro sarà effettivo “entro 6 mesi, a meno che la Russia rispetti i suoi obblighi”, ha scritto il presidente Trump. Ma la risposta di Putin è stata tutt’altra: Mosca ha mostrato immagini satellitari di un impianto dell’azienda americana Raytheon, dove nel 2017 sarebbe iniziata la produzione missili proibiti dall’Inf, ed ha confermato che svilupperà nuovi armamenti. Così nello spazio di 48 ore è stata cancellata una intesa che era durata più di 30 anni e aveva contribuito alla fine della Guerra Fredda.
La mossa della Casa Bianca è stata ponderata? Gli analisti nicchiano e cercano di capire se la situazione è stata creata dall’asse Trump-Putin, amici-nemici a secondo delle convenienze.
Per il segretario della Nato, Jens Stoltenberg, che ha risposto alle domande della Bbc, la minaccia russa è reale: “Questi nuovi missili sono mobili, difficili da rilevare, dotati di capacità nucleare, possono raggiungere le città europee: riducono la soglia per qualsiasi potenziale uso di armi nucleari in un conflitto”. Su entrambi i fronti si punta l’incide accusatorio ma si lavora per potenziare gli arsenali.
Per gli alleati occidentali, la situazione sul terreno è già cambiata proprio nell’area del Baltico, la più delicata nel confronto con i russi: a Kaliningrad sono iniziati lavori di ristrutturazione per ammodernare il sistema missilistico mobile (“Iskander”) in grado di sparare con armi sia convenzionali che nucleari. “Sembra davvero che la base abbia subito una revisione piuttosto accurata”, ha detto Jeffrey Lewis – specialista del Middlebury Institute of International Studies di Monterey – alla National Public Radio (Npr), dopo aver analizzato le immagini satellitari scattate dalla compagnia Planet di San Francisco.
Nel frattempo, secondo Npr, in Texas gli americani hanno avviato la produzione di un nuovo tipo di arma nucleare, si chiama W76-2 ed è una variante molto più piccola di quelle conosciute. L’amministrazione Trump dice che questa testata aiuterà a contrastare le capacità della Russia. Lewis, così come altri esperti, sostiene che l’America da anni aveva trascurato il pericolo di una guerra nucleare e ora corre ai ripari con un approccio diverso.
L’idea era già nata nel luglio 1962, durante una esercitazione nel deserto del Nevada; prima di dare l’assalto, i reparti utilizzarono un’arma nucleare in miniatura chiamata “Davy Crockett”: nel giro di un’ora, truppe e carri armati attraversarono il deserto per dichiarare la vittoria sul nemico simulato ridotto in cenere. “Davy Crockett” era una bomba nucleare da campo di battaglia: poteva essere montata su una jeep.
Repubblica 3.2.19
La corsa agli armamenti
Trattato sui missili, la reazione russa. E la Polonia chiede le atomiche Usa
Anche Mosca, dopo l’annuncio americano, si ritira dall’accordo Inf. Putin: " Non saremo mai impreparati"
di Andrea Tarquini
Berlino Se giochi come il Dottor Stranamore devi aspettarti una risposta. La risposta russa al ritiro americano sul trattato di disarmo Inf sui missili a media gittata ( gli SS 20 russi e i Cruise e Pershing 2 americani) è arrivata subito: reagiremo, siamo pronti a tutto senza fretta e senza aggressività, ha detto il presidente Putin dopo l’annuncio di Washington di ritirarsi dall’accordo Inf raggiunto nella seconda distensione da Mikhail Gorbaciov e Ronald Reagan. La Russia ha tutti i mezzi per difendersi e replicare, hanno spiegato Putin e gli altri due potenti membri della sua " troika" eletta ( i ministri degli Esteri Lavrov e della Difesa Shojgu). Sull’altro fronte, in campo Nato, i falchi di Washington raccolgono solo un appoggio, isolato, ma determinante: quello della Polonia. Il ministro degli Esteri di Varsavia, Czaputowicz, ha auspicato il veloce schieramento in territorio polacco e di altri Paesi dell’Alleanza di vettori nucleari e armi pesanti americani.
« I nostri partner americani hanno annunciato il ritiro dall’intesa e lo facciamo anche noi», ha detto il presidente Putin dopo un consulto con Lavrov e Shojgu. E ha ammonito con calma: «Non saremo mai impreparati, reagiremo sul campo solo quando gli Usa schiereranno nuove armi, ma siamo pronti. Non lanceremo iniziative su nuovi negoziati per il disarmo finché Washington non si mostrerà abbastanza matura da condurre un dialogo significativo su un tema cosí importante ».
Su questo sfondo, Varsavia — al momento sola nella Nato — si schiera incondizionatamente con Washington. Tornare al tavolo negoziale a questo punto sarà complicatissimo. Anche per la lettura politica di diverse opinioni sulle caratteristiche delle nuove armi americane e russe. Washington sostiene che la versione missile da crociera ( i missili cruise) dello Iskander M russo può colpire fino a migliaia di chilometri di distanza; Mosca smentisce, il missile ha solo 480 km di gittata, « e armi di maggiore raggio le abbiamo su navi sottomarini e bombardieri non coperti dal trattato Inf denunciato dai nostri partner». Aggiunge il Cremlino: « I sistemi Aegis americani (antimissili difensivi, ma convertibili, ndr) in corso d’installazione in Polonia e Romania ci minacciano, anche per questo non possiamo restare senza risposta » . Russia e America preparano anche nuove armi stellari, da vettori a sensori a superdroni.
Nubi cupe da nuova guerra fredda si addensano dunque sui due blocchi, e soprattutto sull’Europa. Come Lavrov ha sottolineato, tra l’altro, a questo punto tra Usa e Russia resta ancora valido solo il trattato Start sui missili intercontinentali a testata multipla, « e noi non ci lasceremo trascinare in una nuova corsa al riarmo » . Indiretta, ma non meno inquietante, è la reazione della terza potenza al mondo per numero e qualità di vettori nucleari, la Cina: « Invitiamo Usa e Russia a regolare le loro divergenze che potrebbero avere conseguenze molto negative » , ha detto a Pechino il ministero degli Esteri. E il bilancio militare cinese quasi raddoppia ogni anno con priorità su high tech e forze strategiche. La nuova corsa all’equilibrio del terrore, dopo la scelta di Trump, appare già lanciata.
Il Fatto 3.2.19
Il colpo di Stato mondiale
di Furio Colombo
Sta finendo in queste settimane in Sud Africa il capolavoro di pacificazione voluto da Nelson Mandela. Sta esplodendo una violentissima contrapposizione, del tutto diversa dal passato, fra bianchi e neri. La ragione è una vasta e bene orchestrata fake news che racconta il complotto dei bianchi per fare ammalare i neri. La malattia è l’Aids, il veicolo è il retro-virus detto Hiv. La diffusione avverrebbe, da un lato, attraverso misteriose medicine delle case farmaceutiche del Nord Europa e attraverso le vaccinazioni; dall’altro, l’intero mondo industriale, finanziario e bancario del mondo si assumerebbe il compito di provvedere, nel corso dei prossimi due decenni, a stroncare la minacciosa popolazione nera del mondo. Chi ha letto queste righe avrà notato che c’è qualcosa di vecchio e di tristemente universale (per ragioni tuttora ignote): la lotta alle vaccinazioni viste come lo strumento di dominio di alcuni potenti untori. E c’è qualcosa di nuovo. Adesso sappiamo chi lo ha diffuso in Sud Africa, governi bianchi dell’apartheid e poi governi bianchi liberal. Il populismo è la ribellione di chi chiede, per ragioni che sembrano clamorose ma sono solo narrazione di un nuovo tipo di movimento politico, cambiamento e vendetta.
Queste due parole saldano il populismo sudafricano, cioè del Paese più ricco dell’Africa, al populismo che sta percorrendo il mondo come un ghibli che offusca la vista e spinge a mobilitazioni e decisioni sempre più separate dalla realtà. Ho citato il Sud Africa perché su quello che ho raccontato stiamo per vedere un film che si chiamerà Cold Case Hammarskjöld. Racconta di un vasto complotto che include reparti speciali sudafricani, della Cia e dei servizi segreti inglesi, nell’assassinio del segretario generale dell’Onu il cui nome dà il titolo al film. A quanto pare, la sua eliminazione era indispensabile per la riuscita del complotto.
Naturalmente la cultura politica sudafricana in questo momento si schiera contro i vaccini, contro la scienza, contro le banche che hanno finanziato il tutto e contro la sottomissione a poteri di altri Paesi, comprese le Nazioni Unite, che non li riguardano. Il sovranismo bianco e quello nero sono identici, salvo essere ognuno il pericolo intollerabile dell’altro. Resta così svelato il perché, durante un bel giorno di campagna elettorale presidenziale, negli Stati Uniti, uno dei candidati alle primarie elettorali del Paese più importante del mondo ha cominciato a definire “ladri, stupratori e inabili a ogni lavoro” milioni di suoi cittadini (messicani e sudamericani), che sostengono l’economia del suo Paese, ha cominciato a ridicolizzare la scienza e i vaccini, ha cominciato a invocare un immenso muro per difendere l’America dal pericolo del “mondo fuori”, ha proclamato gli articoli fondamentali del sovranismo, ha gettato come un macigno sulla storia uno slogan tipico dei deboli: “America First”.
E nel momento in cui ha ingranato furiosamente la marcia contro ogni collaborazione, tolleranza e accoglienza, una grande folla, fino a quel momento nascosta, si è raccolta intorno a lui proclamandolo leader, nella persuasione di avere patito un grande furto di ricchezza dalla privazione di sovranità.
Ha trovato gli stessi nemici del populismo italiano, di quello inglese, di mezza Europa (l’altra metà giace inerte). In questo clima di programmata ostilità (che esiste prima di sapere “ostile a chi”?) si diffonde sia negli Usa che in Europa la leggenda di un finanziere ebreo di nome Soros: dobbiamo a lui la grande miseria a cui il sovranismo deve opporsi con urgenza e, se necessario, anche con fermezza (vedi la crudeltà nel mare italiano).
In Venezuela, dove non si può decidere fra due contendenti al potere, entrambi dal passato pre-sovranista, e in Brasile, dove una spinta netta ha portato, come in Italia, il sovranismo al potere al primo colpo, si vede meglio il quadro mondiale. Religioni (variazioni bizzarre del cristianesimo) e superstizioni fanno la loro parte, cercando di portare i credenti lontani dal Papa, che ha rifiutato di dare una mano alla nuova, cieca visione del mondo. Nel ghibli che ci tormenta nessuno vede l’altro, e quando lo vede, vede un nemico. Nel Senato italiano qualcuno ha pensato che fosse il momento giusto per rimettere sul tavolo, bene in vista, “I Protocolli dei Savi di Sion”. Ma le parole d’ordine sul nemico (nemico è chiunque offra le prove sulle totali invenzioni del sovranismo), le istruzioni per l’eliminazione del “prima”, il cambiamento del passato e una narrazione adatta a un presente mondiale chiuso in un sinistro indovinello (dove si va di qui?) sono uguali nel mondo. Poiché viviamo circondati da un comportamento assurdo, non è improprio concludere con una frase che sembra assurda: è in corso un colpo di stato mondiale.
Corriere La Lettura 3.2.19
È l’Afroeurasia: il XXI secolo sarà multipolare
“The future is Asian” uscirà tra breve in Italia
La tesi è chiara: c’è la Cina ma non c’è soltanto la Cina.
L’Occidente vivrà un declino relativo, però se saprà cogliere le opportunità...
Intervista a Parag Khanna esperto di relazioni internazionali
di Danilo Taino
Parag Khanna vive a Singapore, probabilmente il luogo migliore dal quale osservare l’Asia del XXI secolo. Così come chi vive a Parigi, Berlino o Roma rischia di avere un’idea del mondo eurocentrica, anche questo esperto di relazioni internazionali rischia di assumere una visione asiatico-centrica. Forse, però, è lui più vicino alla realtà: chi oserebbe, oggi, scrivere un libro dal titolo I l secolo europeo? Khanna, invece, nei prossimi giorni pubblicherà senza titubanze The Future is Asian: Commerce, Conflict and Culture in the 21st Century: il 5 febbraio negli Stati Uniti, in marzo in Italia da Fazi con il titolo Il secolo asiatico? (con il punto interrogativo, forse per non spaventare gli europei). Khanna, 41 anni, nato in India ma studente di università americane e inglesi, ha raggiunto una fama globale con il libro Connectography. Le mappe del futuro ordine mondiale, pubblicato nel 2016 (in Italia sempre da Fazi). In questa intervista, raccolta mentre viaggiava verso Davos per il World Economic Forum, introduce una distinzione interessante, se vista nel dibattito che impegna gli esperti di strategie internazionali: l’Asia non è la Cina, la Cina non è l’Asia.
Che cosa intende per Asia?
«C’è solo una definizione corretta: quel territorio che va dal Mediterraneo e dal Mar Rosso al Mar del Giappone. Non solo quello che di solito viene chiamato Estremo Oriente. È arrivato il tempo di riconoscere questa entità nella sua interezza».
Qual è il ruolo della Cina in questo contesto: una forza unificatrice o un problema per gli altri Paesi?
«La Cina è un punto di mezzo per capire l’Asia. Un po’ di tempo dopo la Seconda guerra mondiale, fu il Giappone la potenza prevalente nel continente. Poi arrivarono le tigri asiatiche — la Corea del Sud, Taiwan, Singapore e così via. Paesi che furono poi i maggiori investitori nella crescita economica della Cina. Lo sviluppo dell’Asia degli scorsi decenni è la storia di un sistema interdipendente, fondato su risorse naturali, finanza, tecnologia, demografia. La crescita dell’Asia precede quella della Cina: si tratta di sistemi che si rinforzano reciprocamente, anche oggi».
Ora siamo però di fronte alla Belt and Road Initiative, la Nuova Via della Seta organizzata da Pechino, un progetto di infrastrutture senza precedenti. C’è chi ci vede un’iniziativa imperialista di Pechino.
«È parte dell’onda di reciproco rafforzamento tra Paesi. Si tratta della crescita e dei capitali cinesi in eccesso indirizzati, riciclati, verso il resto dell’Asia. La Belt and Road è la risposta a un fallimento del mercato nel campo delle infrastrutture: dagli anni Quaranta, la popolazione asiatica è quadruplicata e ciò ha creato un massiccio gap infrastrutturale. In più, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, la Cina vuole evitare di rimanere isolata nei commerci, vuole evitare la cosiddetta “trappola di Malacca” (lo stretto passaggio marittimo tra la Malaysia e l’isola indonesiana di Sumatra, ndr): ha un eccesso di capacità produttiva da esportare e ha anche motivazioni strategiche».
L’economia cinese però rallenta.
«È un Paese che cresce da tempo, è normale che ci siano ritorni minori. Ma anche aumenti annuali di solo il 5% sarebbero un contributo sostanziale all’economia del mondo. Ora la crescita è prevalentemente interna e c’è molta potenzialità nascosta perché misuriamo le economie in un modo vecchio, concentrati sulle merci. Le imprese estere devono capire di diversificare. La Apple ha puntato tutto sulla Cina, solo adesso ha capito l’esigenza di andare anche in India. E, come l’India, ci sono altre economie asiatiche interessanti. È fuorviante vedere solo il rallentamento della Cina».
Pensa che il presidente Xi Jinping abbia il pieno controllo del potere oppure il rallentamento economico, le tariffe imposte da Trump e le numerose opposizioni alla Belt and Road lo possono indebolire?
«Penso che Xi sia in pieno controllo. Ma non credo ai discorsi sul culto della personalità. Un uomo solo non può guidare un Paese di un miliardo e quattrocento milioni di persone. Inoltre, la Cina ha istituzioni molto forti».
Cina e India possono cooperare nel lungo periodo?
«La loro relazione ha punti di rottura sin dagli anni Sessanta. Ma questo è solo un aspetto del rapporto tra Pechino e New Delhi. Militarmente la Cina è più forte, ma non vuole dare l’impressione di essere prepotente ai suoi vicini, i quali sono spesso sospettosi. Un buon rapporto con i vicini è essenziale per Pechino: è il Paese con il maggior numero di confini con altri Stati. In economia, poi, non è vero che Pechino investa solo in Paesi-clienti: in India investe più che in Pakistan. Credo che nel digitale, per esempio, la collaborazione commerciale Cina-India possa essere forte».
Lei vive a Singapore, luogo di incontro tra Est e Ovest. Crede che i cosiddetti valori asiatici e quelli occidentali possano convivere?
«Certamente. I nuovi valori asiatici sono importanti soprattutto in tre aree. Primo, il governo tecnocratico: c’è più tolleranza che in Occidente per un governo forte, se è efficiente. Questo non significa che non ci sia democrazia in Asia, come dimostrano le elezioni che si terranno quest’anno in India, Indonesia e altrove, quasi due miliardi di persone coinvolte. Secondo, il capitalismo misto, non solo quello privato ma anche quello di Stato, capace di gestire l’innovazione. Terzo, il conservatorismo sociale, che è più lento nel riconoscere questioni come quelle riferite ai gay: qui l’Asia può imparare, ma ha anche da insegnare, per esempio nel regolare i social media. In generale, l’Occidente può imparare, ad esempio sulla ricerca del consenso sociale e sul rispetto dei civil servant: sarebbe utile in Paesi come Stati Uniti, Gran Bretagna, Italia. L’Asia, per parte sua, ha già imparato molto dall’Ovest».
Che cosa significa per l’Occidente un secolo asiatico? Declino? Sottomissione politica?
«Declino relativo. Significa soprattutto che il futuro vedrà una multipolarità globale. Gli Stati Uniti resteranno un’àncora dell’ordine mondiale, lo stesso l’Europa: ora entra l’Asia. La quale è multipolare essa stessa, sa che cosa significhi. In Asia c’è una maggiore diversità interna che altrove, la geografia è più ampia. Non si tratta più di dire quale sia la nazione numero uno del mondo: in Asia abbiamo imparato la diversità, la multipolarità».
Vede uno scontro tra Stati Uniti e Cina? Il conflitto tra la potenza dominante e quella emergente, la cosiddetta «trappola di Tucidide», è inevitabile?
«La proiezione lineare si può superare. Lo scontro non è inevitabile. Anche perché Washington e Pechino hanno interessi sovrapposti. Persino nella guerra fredda le due superpotenze combattevano per procura: sta già succedendo oggi tra Usa e Cina. Siamo in una fase di transizione del potere. Tensioni ci saranno. Teniamo conto che gli Stati Uniti non sono una potenza asiatica: per geografia, politica e storia. Ma il conflitto diretto si può evitare».
Pensa che una Eurasia o, come la chiama lei, una Afroeurasia sarà dominata dalla Cina?
«Anche qui ci sono troppe proiezioni lineari quando si parla di militari o di “trappola del debito” (i prestiti di Pechino ai Paesi poveri che si indebitano troppo, ndr). L’intervento cinese in Africa è limitato per natura. Anche l’India investe in Congo, Etiopia, Kenya. La Cina apre porte: altri entrano. Inoltre, ci sono resistenze all’espansione degli interessi cinesi, in Asia come in Africa e in Europa».
Quali sono gli obiettivi di Pechino in Europa?
«L’Europa è il maggior partner della Cina. Pechino vuole commercio. I treni che dalla Cina arrivano nella Ue carichi di merci ormai non sono più, come un tempo, vuoti quando tornano. Ma ci vogliono maggiori accordi di libero scambio, che sono favorevoli a entrambi. Come l’Europa ha capito partecipando alla Belt and Road Initiative e alla Aiib (la banca che la finanzia, ndr)».
L’Europa dovrebbe rompere con Washington e avvicinarsi a Pechino?
«Penso che dovrebbe fare come la Germania: seguire i propri interessi. A differenza degli Stati Uniti, partecipare alla Belt and Road Initiative, cercare accordi commerciali».
Non rischierebbe di allontanarsi dalla democrazia e dai valori liberali?
«Il modello cinese vale solo per la Cina. Non per altri. Un maggiore coinvolgimento dell’Europa rafforzerebbe la democrazia in Asia».
Corriere La Lettura 3.2.19
Teorie Il caso coreano e oltre
L’ibrido (im)possibile fra Confucio e democrazia
di Maurizio Scarpari
Il tema della democrazia in Asia proposto da Parag Khanna è oggetto di dibattito in Oriente e in Occidente da tempo. Ci si chiede in quale misura sia possibile applicare i principi delle democrazie liberali che postulano, almeno idealmente, un’eguaglianza politica rispettosa dei diritti e degli interessi dei singoli cittadini, della pluralità di valori e della libertà di espressione e associazione, a realtà che tradizionalmente tendono a privilegiare la dimensione collettiva rispetto a quella individuale e che, in genere, sono governate da sistemi illiberali o autoritari.
I Paesi dell’Asia orientale nei quali i valori etici confuciani sono ancora oggi radicati rappresentano un caso a sé stante. Il confucianesimo è stato il fondamento della cultura e dello stile di vita dei cinesi per duemila anni e ha influenzato il pensiero e le abitudini dei popoli di vaste aree estremorientali. Nella Cina repubblicana di inizio Novecento e sotto Mao Zedong il confucianesimo fu messo al bando, accusato di essere la principale causa dell’arretratezza e dell’immobilismo dell’apparato burocratico-amministrativo imperiale e della società, rappresentando un retaggio feudale che avrebbe impedito al Paese di modernizzarsi. Corea del Sud, Giappone, Taiwan, Singapore e altri Paesi del Sudest asiatico sono invece riusciti a conciliare gli elementi fondamentali della tradizione confuciana con la modernizzazione, ottenendo risultati in taluni casi sorprendenti. In anni recenti la Cina è tornata sui suoi passi, promuovendo il recupero delle virtù confuciane, opponendole ai cosiddetti «valori occidentali» ritenuti inidonei alla società cinese e dannosi per l’ordine sociale. È avvenuta una riappropriazione del proprio retaggio culturale, ritenuto funzionale al progresso armonioso della società e anche a un suo più efficace controllo. Ha così ripreso vigore il dibattito sul rapporto dialettico tra valori democratici e principi confuciani, tra diritti individuali e doveri sociali, tra forme di governo liberali e illiberali.
In un’epoca in cui gli assetti geopolitici dell’intero pianeta sono rimessi in discussione e il concetto stesso di democrazia, nelle sue varie declinazioni, sembra aver perso il significato originario anche in Occidente, è utile volgere lo sguardo a modelli di governance diversi. Il volume di Sungmoon Kim, Democrazia confuciana nell’Asia Orientale (ObarraO), va in questa direzione, offrendo al lettore l’opportunità di esaminare teorie di governo poco note in Italia, estrapolate dal contesto politico delle società dell’Asia Orientale.
Partendo dall’esperienza della Corea del Sud, il Paese che forse più di ogni altro è imbevuto delle dottrine morali, filosofiche e religiose di matrice confuciana, Kim propone un modello politico tendente a valorizzare gli elementi democratici insiti nel contesto sociale, culturale ed etico confuciano, affrontando in modo critico le posizioni comunitarista e meritocratica di altre proposte esistenti. La democrazia avrebbe grande efficacia politica in Asia orientale se si fondasse sull’umanesimo e sugli «usi e costumi» confuciani che gli abitanti di diversi Paesi della regione hanno profondamente interiorizzato nel corso delle generazioni, dando vita a una forma di democrazia confuciana civica pluralista e multiculturale. Essa sarebbe il risultato della fusione tra principi liberal-democratici e confuciani, in grado di realizzare una società politicamente avanzata e promuovere un rinnovamento culturale stimolato dalle due diverse forme di pensiero. Questo modello è in parte già operativo in alcune realtà dell’Asia orientale ma per ora pare difficilmente applicabile alla Cina di Xi Jinping.
Corriere La Lettura 3.2.19
Anticipò Darwin, sfidò la Chiesa: l’«aquila degli atei» che morì da filosofo
1619-2019
Il 9 febbraio di quattrocento anni fa finiva la straordinaria avventura intellettuale e umana di Giulio Cesare Vanini: la lingua strappata, poi strangolato, poi arso sul rogo
di Matteo Trevisani
«Andiamo a morire allegramente da filosofi», disse Giulio Cesare Vanini al suo boia, il pomeriggio del 9 febbraio 1619. Poco dopo gli verrà strappata la lingua, strumento con la quale aveva offeso Dio e il re, verrà strangolato e il suo corpo bruciato sul rogo si consumerà illuminando Place du Sulin, a Tolosa. Aveva trentaquattro anni.
È con quest’atto cruento che si compie, diciannove anni dopo il più famoso rogo di Giordano Bruno in Campo de’ Fiori, l’ultimo tratto della parabola di Vanini, filosofo italiano, principe dei libertini, aquila ateorum.
Mi sono chiesto a lungo che cosa significasse «morire da filosofi» e in che cosa questo differisse dal morire di tutti. Se fosse solo una frase a effetto, la volontà di non mostrarsi vinti del tutto, l’arroganza ultima di chi crede di essere dalla parte della ragione. Ma per capire fino in fondo il significato della morte di Vanini bisognava partire dalla sua vita. La straordinaria storia del più ateo dei filosofi del Rinascimento è fatta di fughe repentine, di abiure, di prigionìe, di spionaggio e diplomazia, ma anche di audacia e coraggio, di una fede perduta e amore per l’essere umano.
Giulio Cesare Vanini nasce a Taurisano, in Salento, nel 1585, in una famiglia piuttosto agiata. Studia diritto a Napoli, dove nel 1603 entra nell’ordine dei carmelitani. Rimarrà nella città partenopea nove anni prima di iscriversi alla facoltà di filosofia a Padova, centro di quell’aristotelismo non allineato che ai dogmi teologici preferisce indagare i misteri della natura. Probabilmente conosceva già l’opera di quello che riterrà il suo maestro: l’aristotelico Pietro Pomponazzi, che nella sua opera più nota aveva sancito l’impossibilità di dimostrare l’immortalità dell’anima. A Padova si consuma il primo dei molti strappi che saranno la costante del suo peregrinare: dopo alcune prediche contro il maestro del suo ordine, gli viene imposto il ritiro in uno sperduto convento di Calabria. Vanini decide allora di fuggire in Inghilterra, dove la Chiesa anglicana offriva volentieri asilo agli apostati in funzione di propaganda anticattolica. Da quel momento cominciano anni di peregrinazioni e fughe, in cui Vanini e il suo spirito inquieto troveranno rifugio in molte città europee, aiutato dalla diplomazia internazionale e al contempo braccato dal controspionaggio. Quando alla fine il Papa lo richiama a Roma, sa che la sua vita è in pericolo. Fiuta l’inganno dell’Inquisizione e decide di fermarsi a Genova per poi riparare a Lione, dove pubblica il suo Amphitheatrum, seguito l’anno successivo dal De Admirandis, stavolta a Parigi, che gli procura un immediato successo presso i circoli libertini della capitale francese.
Lo strappo, non più ricucibile, è anche filosofico: sotto le spoglie di una forma apologetica e di un lessico platonico, il filosofo teorizza il suo personale e rivoluzionario ateismo, in cui l’uomo viene liberato da ogni dogma e il mondo da ogni vincolo metafisico. Dio non è più il vertice della scala degli esseri, ma una menzogna messa in atto dalle religioni allo scopo di suscitare timore nel popolo, la Bibbia poco più che una favola, Cristo un impostore.
Lo stile dissacratorio di Vanini abbraccia ogni ambito: la visione antropocentrica dell’uomo si dissolve, diventa un essere come gli altri in un universo meccanicistico e l’assoluta autonomia di cui gode la natura non è soggetta a nessuna provvidenza divina. All’interno di questo mondo liberato dal peccato e da ogni superstizione magica il sesso non ha connotazioni negative, perché garantisce il proseguimento della specie: l’innovazione di Vanini sta nell’affidare all’uomo stesso e a lui soltanto la responsabilità della propria condizione. L’anima è mortale, non esiste nessuna volontà organizzatrice e la vita dell’uomo è inserita soltanto nell’orizzonte della natura, niente di più. Niente è eterno, ma tutto è soggetto alle leggi naturali del divenire, e così come tutto ha avuto un inizio, ogni cosa dovrà finire.
Alla fine, sentendosi braccato, il filosofo tenta l’azzardo più grande: sotto falso nome decide di cercare riparo proprio tra le fauci della cattolicissima Tolosa, dove dopo due anni verrà scoperto, arrestato a causa del suo ateismo e condotto al rogo.
Antispecista, preilluminista, predecessore di Darwin e Schopenhauer, cantato da Hölderlin, citato da Hegel, innamorato delle leggi di natura: a quattrocento anni dalla morte, anche se molto è stato detto e scritto su Vanini, la sua fortuna ha vissuto stagioni alterne, tanto che spesso è ignorato perfino dai manuali di storia della filosofia.
Giulio Cesare Vanini ha vissuto tutta la vita non accontentandosi di verità precostituite: al contrario ha visto nella sua esistenza l’opportunità di indagare la natura, liberandosi da ogni facile dogma e promesse di future ricompense. Forse allora è questo che vuol dire, morire da filosofo: sentire la pienezza della vita anche nell’ora più buia, ma senza esserne vinti. Vivere fino alla fine con coerenza e coraggio. Morire da filosofi significa morire da vivi.
Corriere La Lettura 3.2.19
Culti e libertà
Processo al concordato
conversazione tra Francesco Margiotta Broglio e Massimo Teodori
a cura di Antonio Carioti
Novant’anni fa, l’11 febbraio 1929, Benito Mussolini e il cardinale Pietro Gasparri firmarono i Patti lateranensi: un trattato, un concordato e una convenzione finanziaria. Abbiamo chiamato a confrontarsi su quella vicenda e sul suo seguito, fino alla situazione attuale, Francesco Margiotta Broglio, che partecipò attivamente alla revisione del concordato nel 1984, e Massimo Teodori, anticoncordatario convinto.
Non fu comunque positivo per l’Italia chiudere il conflitto che si era aperto con la breccia di Porta Pia?
MASSIMO TEODORI — Bisogna distinguere. La questione romana viene risolta dal trattato, che riconosce lo Stato Vaticano e l’extraterritorialità della Santa Sede, del resto già assicurata dalla legge delle guarentigie, approvata dall’Italia liberale nel 1871, ma rifiutata dalla Chiesa. Invece il concordato è un accordo di potere tra il regime fascista e il Vaticano. Mussolini si procura consenso per la sua politica totalitaria: da quel momento può contare sull’appoggio della Chiesa. Non a caso Luigi Sturzo e Francesco Luigi Ferrari, cattolici antifascisti in esilio, criticano il concordato. La Chiesa dal canto suo ottiene il riconoscimento del matrimonio religioso, l’esclusione dalla docenza e da altri uffici dei «sacerdoti apostati o irretiti da censura», l’insegnamento della religione in tutte le scuole. Inoltre Mussolini versa alla Santa Sede un miliardo e 750 milioni di lire del 1929: una somma enorme che diventa il nucleo centrale dell’Istituto per le opere di religione (Ior), la banca vaticana di cui conosciamo la successiva opera nefasta. Nel 1929 i liberali ancora presenti in Senato — primo fra tutti Benedetto Croce, che pronuncia un intervento molto coraggioso — si schierano contro i Patti lateranensi. E poi la Santa Sede firma accordi analoghi con la Germania nazista (1933), con il Portogallo salazariano (1940), con la Spagna franchista (1953). Nel Novecento il concordato è il tipico strumento d’accordo tra la Chiesa e i regimi dittatoriali, non è accettabile mantenerlo in democrazia.
F. MARGIOTTA BROGLIO — Vorrei ricordare che il concordato firmato da Adolf Hitler resta tuttora vivo e vegeto nell’ordinamento della Germania e nessun partito tedesco chiede di rivederlo. Ma anche l’Italia liberale prefascista non era laica, perché la sua Costituzione, lo Statuto albertino, attribuiva al cattolicesimo il rango di religione di Stato. E le trattative per superare la questione romana erano cominciate molto prima dell’avvento di Mussolini. Basti pensare che Pio X, Papa dal 1903 al 1914, vieta alla «Civiltà Cattolica», rivista dei gesuiti, di sollevare il problema. E poi tutti i capi del governo liberali perseguono la normalizzazione dei rapporti con la Santa Sede. Quando arriva Mussolini, la questione è già matura, tant’è vero che l’ex primo ministro Vittorio Emanuele Orlando, caduto il fascismo, rivendicherà il merito di aver posto le basi per i Patti lateranensi.
Nel 1947 fu approvato l’articolo 7 della Costituzione, che indica nei Patti lateranensi lo strumento di regolazione dei rapporti tra la Repubblica e la Chiesa cattolica. Fu una scelta inevitabile?
MASSIMO TEODORI — Non era affatto necessario immettere il concordato nella Costituzione. Nessuno nell’Assemblea Costituente rifiutava una soluzione pattizia che garantisse l’indipendenza assoluta della Santa Sede. Piero Calamandrei propose che i rapporti tra Stato e Chiesa fossero regolati in termini concordatari, ma in armonia con le norme costituzionali, cioè nel rispetto della libertà di coscienza. A opporsi fu Pio XII, che non voleva rinunciare ai privilegi concessi da Mussolini al suo predecessore Pio XI. E a fargli da portavoce fu Giuseppe Dossetti: se il concordato non viene inserito nella Costituzione, disse, si mette in discussione la pace religiosa. Così nell’Italia repubblicana gruppi religiosi minoritari come i tremolanti e i pentecostali furono vessati in base a norme fasciste di derivazione concordataria. Decisivo alla Costituente fu l’atteggiamento del Pci, che approvò l’articolo 7 per ragioni teoriche, in quanto non si curava della libertà religiosa, e pratiche, perché voleva trovare un’intesa con il Vaticano in vista del grande incontro tra comunisti e cattolici perseguito prima da Palmiro Togliatti e poi, con esiti disastrosi, da Enrico Berlinguer.
Però alcuni laici liberali alla Costituente votarono a favore dell’articolo 7.
MASSIMO TEODORI — Sì, personaggi come Meuccio Ruini, Carlo Sforza, Ivanoe Bonomi, in prevalenza massoni, fecero quella scelta. Pensarono che fosse necessaria per assicurare alla Repubblica il sostegno della Chiesa. Ma Croce, che non era presente al momento del voto, poi rese noto che era contrario.
F. MARGIOTTA BROGLIO — In realtà il quadro è ancora più nero, dal punto di vista laico. Gli accordi tra l’Italia e il Vaticano erano già stati inseriti nell’ordinamento costituzionale, in vista dei Patti lateranensi, con la legge sul Gran consiglio del fascismo, approvata nel 1928. E la Costituente segue la stessa linea, non c’è rottura. Anzi la formula dell’articolo 7 si ritrova nei progetti costituzionali fascisti abbozzati nel 1940 e sotto la Rsi. La continuità è maggiore di quanto si pensi, perché fascisti e antifascisti, con qualche eccezione, vedevano i rapporti con la Santa Sede allo stesso modo.
MASSIMO TEODORI — Non sono d’accordo. Tutti i socialisti e la maggioranza dei laici alla Costituente si pronunciarono contro l’articolo 7. Decisivo fu il voto favorevole dei comunisti.
F. MARGIOTTA BROGLIO — D’accordo, ma quelli che si schierarono per l’articolo 7, cioè la maggioranza, mostrarono di vedere le cose allo stesso modo dei fascisti.
La revisione del Concordato conclusa nel 1984 dal governo di Bettino Craxi fu una mossa opportuna?
MASSIMO TEODORI — Craxi fece un’operazione realista, deciso a raggiungere un accordo con i cattolici che tagliasse fuori i comunisti: all’epoca il duello a sinistra tra Psi e Pci era al culmine dell’asprezza. La leggenda narra che ai socialisti impegnati nel processo di revisione concordataria Craxi abbia detto: ai preti date i soldi e vedrete che si accontentano. Così si ottenne l’eliminazione di norme anacronistiche, ma il guaio è che il concordato del 1984 demandava a leggi successive il compito di regolare molte materie. E le conseguenze in materia economica sono state pessime. In realtà ormai negli anni Ottanta la società italiana si era secolarizzata, erano stati introdotti il divorzio e l’aborto. Capisco la mossa di Craxi in chiave politica, ma riproporre un concordato nel 1984 secondo me non aveva più senso. A mio parere la Chiesa cattolica ribadì all’epoca il suo carattere ambiguo: da una parte esprime un forte messaggio religioso universale, dall’altra tiene a ingerirsi negli affari interni italiani e a ricavarne profitti materiali.
Dunque la revisione del 1984 è stata un errore?
F. MARGIOTTA BROGLIO — Facciamo un passo indietro. Solo con l’ingresso al governo del Psi si comincia a parlare di revisione del concordato. Ma si procede a rilento. Il primo che s’impegna sul serio è Aldo Moro nel 1974, dopo il referendum sul divorzio, ma il testo negoziato allora con la Santa Sede, molto avanzato, viene poi cestinato da Giulio Andreotti. Le trattative proseguirono, furono definite altre bozze, ma solo Craxi arrivò in fondo. Ricordo che io e Giuliano Amato gli portammo il testo del nuovo concordato nel suo studio di Palazzo Chigi, dove teneva un ritratto di Garibaldi. Ci guardò, girò lo sguardo verso il quadro, si voltò di nuovo e disse: «Ci perdonerà?». Ecco lo spirito con cui firmò l’accordo.
Non sarebbe stato meglio allora puntare su un’ipotesi separatista?
F. MARGIOTTA BROGLIO — Secondo me è un’idea che non sta in piedi. L’unico Paese separatista nell’Unione Europea è la Francia, ma quella soluzione è in crisi già da tempo. L’attuale presidente Emmanuel Macron ha detto di voler rivedere la stessa nozione di laicità alla luce del principio non separatista di cooperazione tra le religioni e la Repubblica. L’obiettivo è far coesistere i diversi culti in un dialogo permanente con le istituzioni, ripensando la legge del 1905 che stabilisce la separazione tra lo Stato e la Chiesa cattolica. Non mi sembra realistico che l’Italia possa percorrere il cammino da cui la Francia pensa di tornare indietro.
Il meccanismo di finanziamento pubblico delle confessioni religiose è molto contestato dai laici. Perché?
MASSIMO TEODORI — Il principio per cui il contribuente è libero di destinare alla Chiesa cattolica o alle istituzioni di altri culti che hanno concluso un’intesa con lo Stato (ebrei, valdesi e così via) l’8 per mille della sua Irpef, indicando la scelta nella dichiarazione dei redditi, mi pare sacrosanto. Però c’è il trucco. La scelta compiuta da una minoranza, che si pronuncia in larga prevalenza per la Chiesa cattolica, si estende automaticamente anche all’Irpef di coloro che non conoscono il meccanismo e non indicano nulla, cioè la maggioranza degli italiani. Il loro 8 per mille viene diviso tra le confessioni religiose in proporzione alle scelte espresse da altri, quindi va quasi tutto alla Chiesa di Roma. Di fatto è un imbroglio a spese di cittadini inconsapevoli. Poi c’è la questione fiscale: oggi capita che un hotel di lusso, se ha una piccola cappella al suo interno, possa farsi passare per edificio religioso ed essere esentato dal pagamento dell’Ici. Infine il nodo dello Ior. In base ai Patti lateranensi, secondo una sentenza della Cassazione, la banca vaticana, in quanto ente centrale della Chiesa, non è soggetta alla magistratura italiana. E ciò ha trasformato lo Ior in un intangibile punto di passaggio per la corruzione e il riciclaggio di denaro sporco. Forse, dopo tanti scandali, ora la situazione sta cambiando, ma non sappiamo fino a che punto.
F. MARGIOTTA BROGLIO — La vera svolta è stata l’ingresso del Vaticano nell’euro, perché alcune norme europee hanno costretto la Santa Sede a modificare la disciplina dello Ior: la Corte di giustizia europea oggi può mettere il naso nella banca vaticana. Anche per quanto riguarda il fisco c’è una sentenza della Corte di giustizia dell’Ue che ha sancito il recupero dell’Ici non pagata dagli enti religiosi. Dell’8 per mille poi beneficiano anche le minoranze religiose, che prima non ricevevano nulla e faticavano a sopravvivere. Il sistema può non piacere, ma vorrei ricordare che in Germania la tassa ecclesiastica è obbligatoria: per non pagarla bisogna abiurare formalmente la propria confessione religiosa, mentre in Italia basta scegliere di dare l’8 per mille allo Stato. E le Chiese tedesche ricevono somme molto più alte di quella italiana.
MASSIMO TEODORI — Però anche in Italia c’è un’obbligatorietà di fatto: l’8 per mille di chi non sceglie finisce quasi tutta alla Chiesa.
F. MARGIOTTA BROGLIO — Bisognerebbe cambiare quel meccanismo, ma vedo che adesso anche le associazioni degli atei chiedono di essere ammesse a ricevere l’8 per mille.
La Stampa 3.2.19
Da svolta della sinistra a lotta spietata
Il rito consumato delle primarie Pd
di Mattia Feltri
La differenza fra le primarie d’esordio dell’esordiente Partito democratico di dodici anni fa (2007) e le primarie di oggi, è che quelle di allora servirono per fondare una comunità, e adesso saranno al massimo buone per sfibrarla ancora un po’. Per paradosso le primarie sono state fruttuose sinché sono state finte, una specie di sottintesa ma consapevole messinscena democratica, una festa di piazza col sorriso sulle labbra a marcare l’unicità di un partito che, circondato da partiti monarchici, affidava l’incoronazione alla pura volontà del suo popolo. La fondazione del Pd, senz’altro a freddo, senz’altro un esperimento di ingegneria politica, fu la prima vera svolta della sinistra italiana dalla fine del Regno del Male sovietico, accolta con due tenere lacrimucce da chi ci aveva creduto, più a salutare la propria gioventù che a piangere qualche decina di milioni di morti su cui si era passati con la stessa noncuranza con cui, da un giorno all’altro, il Pci era passato su di sé, si era ribattezzato Pds (e poi Ds) per autonominarsi forza riformista, moderata e occidentale (e poi ci si chiede perché nel 1994 l’abbia spuntata Silvio Berlusconi).
Ma quell’unificazione fra eredi del Partito comunista, della Democrazia cristiana e di qualche rimasuglio del socialismo, era l’unificazione delle principali tradizioni antifasciste su cui si era edificata la Costituzione repubblicana, con pari dignità (più o meno) e comunità d’intenti. Era naturale che l’ideatore e il promotore del Pd, Walter Veltroni, ne fosse anche il leader. Venne scelto dallo sproposito del settantacinque per cento dello sproposito di tre milioni e mezzo di elettori, e al culmine di un campagna elettorale in cui lui e i suoi rivali, Rosy Bindi ed Enrico Letta, a tutto pensarono fuorché a scannarsi, visto che i loro padri s’erano scannati per una vita, e loro s’erano messi assieme proprio per rinfoderare le lame.
Dodici anni dopo, Roberto Giachetti, Maurizio Martina e Nicola Zingaretti sono tornati ad affilarle, le lame. Se le danno di santa ragione per sottrarsi voto su voto, e secondo le regole dell’amore e della guerra: nessuna regola. Succede da un po’ di tempo a questa parte, non soltanto con loro tre. La contesa delle primarie per la leadership del Pd è diventata democrazia autentica, quindi spietata, e tocca ripeterlo una volta di più (con Norberto Bobbio): niente come l’eccesso di democrazia uccide la democrazia. Insomma, mettetevi nei panni di un elettore del Partito democratico, costretto a scegliere fra tre candidati, uno (Zingaretti) che pensa di fare piazza pulita del renzismo, l’altro (Giachetti) che il renzismo invece lo difende con orgoglio e il terzo (Martina) un po’ e un po’. Fra tre candidati di cui uno non proprio del tutto schifato dai Cinque stelle (Zingaretti), l’altro decisamente schifato (Giachetti) e il terzo (Martina) un po’ e un po’. Fra tre candidati di cui uno (Zingaretti) molto amorevole coi fuoriusciti dalemiani (Zingaretti), uno per niente amorevole (Giachetti) e il terzo (Martina) un po’ e un po’. Una specie di destra-sinistra-centro senza possibilità di conciliazione, una tripla al Totocalcio, e non sarebbe del tutto drammatico se i rispettivi stati maggiori e minori non si randellassero quotidianamente via Twitter e Facebook, cioè i luoghi paludosi della guerra tribale, accusandosi di intelligenza col nemico, trame occulte, tradimento degli elettori, col carico di rancore che ci si porterà dietro a cose fatte. Chiaro che così una comunità la si sbrindella, come si è cominciato a sbrindellarla pazientemente e chirurgicamente da qualche anno.
Non è un buona strategia per altre ragioni ancora. Innanzitutto è difficile farsi venire un’idea di respiro per il partito e per il Paese se si è impegnati a dichiarare fellone l’avversario, e infatti non viene, nemmeno un’ideuzza; poi perché non servirebbe un generale, basterebbe un sergente a sconsigliare la lotta intestina quando si è accerchiati, il nemico storico a sinistra, il nemico classico a destra (Berlusconi), uno non irresistibile ma friccicarello ancora più a destra (Meloni) e due nemici tosti e vincenti al governo, Lega e Movimento. Si vive in una bolgia feroce e primitiva, e non sarà un partito che a quella bolgia feroce e primitiva si adegua, e la alimenta e la importa, ad appassionare chi è stufo della faida e ha voglia di un po’ di politica.
Si può sospettare che un sostenitore del Pd desidererebbe tanto un bel congresso stile anni Cinquanta, coi delegati e le mozioni, in cui ci pesta in qualche stanzetta, per arrivare a una leadership innalzata nell’applauso unanime e un poco ipocrita (santa ipocrisia).
La Stampa 3.2.19
Al via la corsa, oggi la kermesse
I timori per la bassa affluenza
di Alessandro Di Matteo
La corsa per le primarie del “dopo-Renzi” parte ufficialmente. Tra un mese esatto gli elettori Pd andranno ai gazebo per scegliere tra Nicola Zingaretti, Maurizio Martina e Roberto Giachetti, i tre candidati premiati dal voto degli iscritti al partito, e adesso il vero spauracchio per tutti è la partecipazione. Due anni fa, quando Matteo Renzi venne riconfermato segretario nonostante la sconfitta al referendum costituzionale, andarono a votare 1 milione e 800mila persone. Un’affluenza che oggi è un miraggio: nel Pd la speranza è di riuscire a non scendere sotto il milione di partecipanti, e non a caso Zingaretti, il più votato dai tesserati, da settimane fa una campagna continua su questo punto.
Un appello al voto che Zingaretti dovrebbe ribadire anche oggi, durante la convenzione Pd che ufficializzerà i risultati della prima fase del congresso, quella appunto riservata agli iscritti nella quale il presidente della regione Lazio è arrivato primo con il 47,9% dei voti, seguito da Martina con il 36,5% e da Giachetti con l’11,23%. Cifre, peraltro, che potrebbero subire qualche correzione al termine delle verifiche della commissione di garanzia, che proprio questa mattina si pronuncerà sui ricorsi presentati da Francesco Boccia, uno dei candidati che non sono stati ammessi alla fase delle primarie. Secondo indiscrezioni, alcuni ricorsi verranno accolti e questo porterà a un ritocco dei risultati dei vari candidati, anche se non cambierà il quadro complessivo.
L’affluenza alle primarie sarà decisiva anche per la scelta del vincitore: Zingaretti è convinto che più arriveranno voti “esterni” e maggiori saranno le sue possibilità di successo. Per il governatore del Lazio è importante non solo arrivare primo nei gazebo, ma anche superare il 50% dei voti, perché lo statuto Pd prevede che al di sotto di quella soglia è l’assemblea del partito a scegliere il nuovo segretario, con un ballottaggio tra i primi due votati alle primarie.
Non a caso il voto di Laura Boldrini ai gazebo ha scatenato i renziani. «Non esiste - dice uno dei parlamentari vicini all’ex premier - la Boldrini in Parlamento è nel gruppo di Leu... Allora lasci quel gruppo e venga nel Pd, se vuole votare alle primarie». Zingaretti anche oggi insisterà su un punto: «È tempo di ricostruire». Ma gli avversari sono pronti a rinfacciargli le aperture a sinistra, agli ex Pd, fatte dal suo braccio destro Massimiliamo Smeriglio. «Zingaretti - dice un renziano - vuole usare le primarie per rifare la sinistra unita». Giachetti ha già minacciato di andarsene, se il Pd dovesse «fare l’accordo con M5s e riportare dentro D’Alema». Martina avverte: «In troppi stanno scommettendo sul fallimento del Pd, immaginando che dalle macerie cresca qualcosa».
Il Fatto 3.2.19
Il reddito e i dilemmi della sinistra
Dopo le critiche di Montanari. Il sussidio voluto dal M5S è troppo o troppo poco universale?
di Stefano Feltri
Ma questo reddito di cittadinanza è troppo o troppo poco? Mentre il Pd si limita a deridere una misura che, con mille difetti, è l’evoluzione di quel Reddito di inclusione introdotto dai governi Letta-Renzi-Gentiloni, c’è un pezzo di sinistra che contesta nel merito il provvedimento appena approvato dall’esecutivo.
Sul Fatto di ieri, Tomaso Montanari, tra l’altro presidente di Libertà e Giustizia, ha mosso una serie di rilievi. Il primo dei quali riguarda la natura quasi filosofica: è un reddito di base? Cioè universale e incondizionato? Sicuramente no, di condizioni ce ne sono fin troppe. Ma nonostante i vincoli ad accettare le offerte di lavoro e gli obblighi di formazione, questo reddito è molto più simile a un reddito di base di quanto i Cinque Stelle sostengono. È vero, come scrive Montanari, che il reddito di base è eterno mentre quello di cittadinanza dura 18 mesi. Ma dopo un solo mese di pausa può essere rinnovato. Potenzialmente all’infinito, se il beneficiario non riesce mai a migliorare la propria condizione.
Ed è vero che, sotto la pressione delle critiche degli avversari politici e pure degli alleati leghisti, i Cinque Stelle hanno abbinato al sussidio una serie di misure paternalistiche (l’obbligo di spendere tutte le somme ricevute in un mese, sanzioni durissime per chi non rispetta gli impegni presi ecc.), misure che sembrano presupporre una naturale malafede e tendenza alla pigrizia dei poveri. Ma sappiamo tutti che gran parte di quegli obblighi non saranno mai rispettati perché la Pubblica amministrazione sarà forse pronta a erogare il reddito a fine aprile, ma impiegherà anni a mandare a regime la complessa organizzazione che coinvolge Centri per l’impiego, assistenti sociali, imprese, “navigator”, Regioni, Anpal, Inps, Poste e tutto il resto. E un reddito minimo condizionato che prevede condizioni di fatto poco applicabili finisce per assomigliare un po’ troppo a un reddito universale, di base.
Anche l’esclusione degli stranieri, denunciata da Montanari, è un argomento debole: secondo la relazione tecnica le famiglie di soli stranieri escluse sono 87.000 su 241.000, immolate per tacitare la Lega.
La destra contesta il reddito di cittadinanza con argomenti di destra: è sbagliato aiutare i poveri, lo Stato non deve fare assistenza, è più efficace destinare quelle risorse alle imprese o usarle per ridurre le tasse e così via. La sinistra si perde in dibattiti terminologici o tendenze al benaltrismo (non basta, non risolve tutti i problemi…) e perde l’occasione di imporre un punto di vista di sinistra al dibattito.
Chi ha gli ultimi come priorità dovrebbe fare una sola domanda: ma il reddito di cittadinanza funziona nel rendere i poveri meno poveri o meno numerosi? L’investimento è grosso, 7 miliardi annui, e il governo chiede al reddito di cittadinanza troppe cose: far ripartire i consumi e il Pil, ridurre il numero dei disoccupati, abolire la povertà, riformare il sistema di ricerca del lavoro… Così tanti obiettivi che sarà difficile, o impossibile, raggiungerli tutti. E, come sempre succede, alla fine saranno i poveri a essere dimenticati. Secondo l’Istat nel 2017 gli individui in povertà assoluta erano 5 milioni. Molti di loro, se faranno domanda per il reddito, saranno affidati ad assistenti sociali e Comuni che già ora sono sotto stress. È su di loro che la sinistra dovrebbe concentrarsi.
Corriere 3.2.19
Il sondaggio
Un italiano su 2 boccia le misure economiche
di Nando Pagnoncelli
Il 54 % degli interpellati boccia le misure economiche adottate dal governo, su tutte il reddito di cittadinanza che «non aiuta la crescita». Anche il «decreto dignità» divide il Paese: favorevoli il 48 %, contrari il 40. Più in generale, stando al sondaggio Ipsos, solo il 33 % è del parere che l’esecutivo sia in grado di favorire lo sviluppo dell’Italia, mentre il 61 % si augura che arrivi la tanto sospirata riduzione delle tasse per le imprese assieme agli incentivi per le assunzioni. Tuttavia resta alta la fiducia nel governo Lega-M5S.
L a Gazzetta Ufficiale ha pubblicato il 28 gennaio il testo del decreto che contiene le norme riguardanti la riforma delle pensioni e il reddito di cittadinanza, i due provvedimenti simbolo della legge di Bilancio. Il dibattito, talora molto aspro, che ha accompagnato questa fase e la formulazione finale delle due misure hanno determinato qualche cambiamen to nelle opinioni dei cittadini.
Nel sondaggio di fine settembre «Quota 100» risultava apprezzata dal 55% degli italiani e il reddito di cittadinanza, pur avendo più detrattori che sostenitori, veniva giudicato positivamente dal 44%. Oggi la riforma delle pensioni polarizza maggiormente le opinioni (47% i giudizi positivi e 45% i negativi) e fa registrare un aumento di coloro che esprimono un parere negativo, aggiungendo ai detrattori iniziali coloro che si mostrano delusi per il provvedimento rispetto alle aspettative suscitate. Quattro elettori su cinque della maggioranza si dichiarano soddisfatti, come pure il 56% degli altri partiti di centrodestra, mentre nel centrosinistra il 18% è a favore e il 76% contro.
Il reddito di cittadinanza continua a ottenere più giudizi negativi (54%) che positivi (40%); il consenso più elevato si registra tra i pentastellati e, sia pure con valori più contenuti, tra i leghisti (56%). Ma ottiene un consenso tutt’altro che trascurabile tra gli elettori dell’opposizione di centrodestra (33%) e di centrosinistra (20%).
Anche il «decreto dignità» divide il Paese (48% i pareri negativi, 40% quelli favorevoli), con accentuazioni tra i diversi elettorati analoghe a quelle rilevate per il reddito di cittadinanza.
In generale l’operato del governo in materia economica non lascia presagire un miglioramento complessivo nella maggioranza dei cittadini. Infatti, solo il 33% ritiene che l’esecutivo stia favorendo la crescita (il 54% è convinto del contrario), il 32% è del parere che contribuisca a creare nuovi posti di lavoro (contro il 53%) e il 37% pensa che agisca positivamente per la tenuta dei conti pubblici (contro il 48%).
E riguardo a quella che da molto tempo rappresenta la priorità degli italiani, cioè l’occupazione, il 61% auspica la riduzione delle tasse per le imprese e incentivi all’assunzione, mentre il 26% pensa che gli imprenditori dovrebbero mostrarsi disponibili ad assumere anche a costo di ridurre i loro profitti per un certo periodo.
Insomma, il quadro macroeconomico non è positivo, i pronostici dei cittadini su crescita, lavoro e conti pubblici non sono improntati all’ottimismo e i provvedimenti su pensioni, lavoro e reddito di cittadinanza dividono le opinioni.
Alla luce di questi dati ci si potrebbe aspettare un calo di consenso per il governo, mentre non è affatto così: i giudizi positivi si attestano al 54% (stessa percentuale di fine dicembre), quelli negativi passano dal 36% al 37% e l’indice di gradimento cala di un punto (da 60 a 59). È interessante sottolineare la sintonia con l’esecutivo di due terzi degli elettori di opposizione del centrodestra (63%), e di un quarto (24%) di quelli di centrosinistra.
Sono diversi gli aspetti che spiegano queste incongruenze nell’opinione pubblica: innanzitutto, questo è un governo che, agli occhi del 56% degli italiani, è capace di rispettare il programma che si è dato, giudizio condiviso dalla quasi totalità degli elettori della maggioranza ma anche dal 64% di quelli del centrodestra e dal 36% del centrosinistra.
In secondo luogo, le tensioni all’interno della maggioranza non sembrano intaccare più di tanto i giudizi sul grado di intesa tra le due forze di governo: il 51% ritiene il governo coeso, con punte più elevate tra i pentastellati (92%) rispetto ai leghisti (79%).
Infine, continua a prevalere l’immagine di un governo che pur tra mille difficoltà sta dalla parte dei cittadini e, in tal senso, la semplificazione del linguaggio, i toni e lo stile comunicativo inducono la gran parte degli italiani a identificarsi con i leader della maggioranza, Salvini in primis, e contribuiscono a ridurre la distanza tra élite e popolo. La riprovazione e le alzate di sopracciglio, che pure non mancano, contribuiscono a radicalizzare le posizioni.
In questa epoca di cambiamento le opinioni dei cittadini non procedono per linee rette, e immaginare che siano basate solo sulla razionalità, su una sorta di bilancio costi-benefici, significa guardare al presente con le lenti di un passato che sembra difficile possa tornare. Oggi è più premiante che il leader sia «uno di noi».
il manifesto 3.2.19
Gantz, il generale che bombardò Gaza sfida Netanyahu
Elezioni israeliane. Appena qualche settimana fa il primo ministro era certo di vincere le elezioni del 9 aprile. Ma l'ex capo di stato maggiore delle offensive contro Gaza nel 2012 e nel 2014 continua a crescere nei sondaggi. Intanto si spacca la Lista araba unita
di Michele Giorgio
GERUSALEMME Forse è esagerato parlare di «colpo di stato» dei militari contro Benyamin Netanyahu, come fa Carolina Landsmann su Haaretz. Ma ci sta. Sono anni che i capi delle forze armate e dei servizi d’intelligence israeliani, o almeno alcuni di essi, si mostrano insofferenti nei riguardi del primo ministro, da dieci anni al potere. E uno di questi, l’ex capo di stato maggiore Benny Gantz, appena entrato in politica sembra già in grado di intercettare consensi sufficienti da mettere in discussione l’ennesima vittoria di Netanyahu quando il 9 aprile gli israeliani andranno alle urne per eleggere la nuova Knesset. A maggior ragione se si tiene conto delle voci, sempre più insistenti, che vorrebbero il procuratore generale Avishai Mandelblit approvare prima del voto l’incriminazione di Netanyahu per corruzione richiesta dalla polizia. Gantz, leader del neonato Homed L’Israel (Resilienza di Israele), si è alleato con un altro ex capo di stato maggiore, Moshe Yaalon, e diversi sondaggi, dopo il primo vero discorso elettorale pronunciato a metà settimana, lo danno in forte ascesa, alla pari con il premier nel gradimento degli elettori israeliani. Vola anche Homed L’Israel dietro di 6-9 seggi al partito Likud guidato da Netanyahu. Tutti ne sono convinti. Nei prossimi due mesi la campagna elettorale vedrà i fuochi d’artificio.
Gantz accusa Netanyahu di aver spaccato Israele. Afferma di voler creare maggiore unità tra tutti i cittadini, tra laici e religiosi, tra le varie componenti ebraiche della popolazione. E promette di “correggere” la legge su Israele-Stato del popolo ebraico, approvata lo scorso luglio e tanto voluta dal premier e dalla sua coalizione, che ha sancito nero su bianco lo status di cittadini di serie B per i palestinesi e i drusi nello Stato ebraico. Ma i “buoni” propositi si fermano alla politica interna. Se parliamo di occupazione militare dei Territori palestinesi, di sicurezza e di diplomazia Gantz è decisamente spostato a destra. L’ex generale si presenta sorridente e conciliante, spesso appare con la camicia aperta sul collo come i vecchi leader sionisti per darsi una immagine di “pioniere” e “combattente” contrapposto al politico scaltro e navigato Netanyahu. «Per me – ripete – Israele viene prima di tutto. Unisciti a me e insieme percorreremo nuove strade. Perché abbiamo bisogno di qualcosa di diverso e insieme faremo qualcosa di differente». Strade nuove ma non nei confronti dei palestinesi.
L’ex generale, 60 anni, capo dell’esercito dal 2011 al 2015, ha guidato due offensive contro Gaza: “Colonna di nuvola” (2012) e “Margine Protettivo” (2014). E della seconda ha usato, peraltro in modo illegale, immagini girate da palestinesi che mostrano distruzioni immense a Gaza con scritte che ricordano quanti “terroristi” sono stati uccisi e la “lezione” data ad Hamas. Una famiglia palestinese intende portarlo in giudizio all’Aja per uno dei tanti massacri di civili avvenuti in quella guerra. Gantz nel suo discorso elettorale non ha espresso la volontà di voltare pagina. Anzi, insiste sul pugno di ferro e afferma una linea intransigente: Valle del Giordano, Gerusalemme Est e vaste porzioni di Cisgiordania sotto il controllo di Israele, così come il territorio siriano delle alture del Golan occupate nel 1967. Con lui al potere la posizione di Israele verso i palestinesi resterà la stessa, anche se mettesse insieme una ipotetica maggioranza con i resti del partito laburista (in caduta libera) e i partiti centristi Yesh Atid, Hatnua e Gesher, guidati da Yair Lapid, Tzipi Livni e Orly Levy-Abekasis.
Di sicuro, come vuole una regola non scritta della politica israeliana, non chiederà di unirsi a una sua coalizione i partiti non sionisti che rappresentano la minoranza palestinese (20% della popolazione) in Israele. Che si sono spaccati. La Lista unita araba a inizio gennaio ha perduto uno dei suoi tre pezzi, il partito Taal del deputato Ahmed Tibi che, confortato dai sondaggi, ha deciso di andare da solo al voto e di abbandonare le formazioni progressiste Hadash e Tajammo.
il manifesto 3.2.19
Il ritorno oscuro dell’elettroshock
La scarica elettrica al cervello sembra una barbarie del passato. Invece divide ancora gli scienziati. È stato inventato 80 anni fa a Roma, da Ugo Cerletti e Lucio Bini come «metodo dell’annichilimento». Nell’ultimo numero del «British Medical Journal» la discussione in corso
di Andrea Capocci
Tre volte l’anno, l’Istituto di Psichiatria del King’s College di Londra organizza i «Maudsley Debates». Si tratta di dibattiti pubblici su tematiche di largo impatto sociale, in cui il pubblico è chiamato a schierarsi a favore o contro la sua tesi dopo le presentazioni di due esperti. Con un telecomando il pubblico in sala esprime la sua posizione, sia prima che dopo il dibattito. Si tratta di discussioni di alto livello, tanto che il prestigioso British Medical Journal (Bmj) ne dà regolare resoconto.
COME RIPORTA l’ultimo numero del BMJ, la 57/a edizione del dibattito verteva sull’uso della terapia elettroconvulsivante, più nota come «elettroshock»: il suo uso medico è ammissibile? A favore del suo uso, è intervenuto lo psichiatra Sameer Jauhar dell’Istituto di Psichiatria dello stesso King’s College. Giocava invece in trasferta l’oppositore John Read, psichiatra anche lui ma all’università di East London. Il pubblico, telecomando alla mano, all’inizio del dibattito si è schierato decisamente con il beniamino di casa.
Questo schieramento, in Italia, può apparire sorprendente. Nel nostro immaginario collettivo, l’elettroshock è una terapia appartenente a epoche oscure, come il salasso o la lobotomia. Molti ritengono (sbagliando) che l’elettroshock sia stato addirittura bandito dalla legge Basaglia come una barbara pseudoscienza. Invece, il trattamento è ancora utilizzato, all’estero e pure in Italia. D’altronde, l’elettroshock è stato inventato proprio ottant’anni fa a Roma, da Ugo Cerletti e Lucio Bini. Lo sperimentarono per la prima volta su un quarantenne senza fissa dimora.
Secondo uno studio della ricercatrice norvegese Kari Ann Leiknes del 2012, Usa, Belgio, Norvegia e Australia sono oggi i paesi in cui l’uso dell’elettroshock è più comune. In America tocca a circa duecentomila persone ogni anno. D’altronde, le assicurazioni private statunitensi preferiscono rimborsare l’elettroshock rispetto ad altre terapie. In Italia, secondo un’inchiesta dell’Espresso di un anno fa, ci passano circa trecento persone ogni anno. In maggioranza si tratta di individui gravemente depressi. In quasi tutti i casi si fa sotto anestesia, anche se in molti paesi asiatici questa precauzione è ancora rara.
NELLA COMUNITÀ scientifica, però, è in corso una sorta di riabilitazione dell’elettroshock ed è probabile che dopo anni di calo, nel prossimo futuro il trattamento torni di moda. Ci sono ragioni reali per un simile cambio di rotta?
In ottant’anni, le conoscenze sugli effetti biochimici dell’elettroshock non sono progredite granché. Si sa che la «scossa» agisce su alcune proteine coinvolte nella trasmissione dei segnali neuronali, e secondo qualche ricercatore sarebbe anche in grado di stimolare la crescita dei neuroni. Ma come questi fattori esattamente influenzino l’umore è ancora ignoto.
Si sa qualcosa in più sugli effetti. Secondo Jauhar, che nel dibattito londinese perorava la causa del trattamento, molte ricerche dimostrano che nei pazienti gravemente depressi l’elettroshock funziona meglio dei farmaci. Anche Read ha citato la letteratura scientifica, ma si è limitato agli studi condotti secondo i corretti standard scientifici. Infatti, stabilire che «il paziente migliora» non è sufficiente per accertarne le cause. Occorre confrontare gli effetti del trattamento con quelli di un placebo (un’anestesia generale senza elettroshock). Come ha mostrato Read, solo una decina di studi è stata condotta secondo le regole. E solo quattro hanno indagato gli effetti terapeutici a lungo termine. L’ultimo risale al 1985.
DA QUESTI STUDI «DOC», emerge una realtà diversa da quella descritta da Jauhar. L’elettroshock ha un effetto benefico molto debole durante la somministrazione delle scariche. Non appena il trattamento finisce, svaniscono anche gli effetti e la percentuale di ricadute è la stessa che si osserva con i trattamenti tradizionali. «Dopo ottanta anni, non c’è alcuna prova che l’elettroshock abbia effetti duraturi», ha affermato Read.
Inoltre, gli effetti collaterali sono assai più marcati di quanto dicano i suoi fautori. L’elettroshock provoca un notevole stress per il sistema cardiocircolatorio, con un aumento relativo dei rischi di infarto. Anche l’impatto sulla memoria è controverso. Negli studi monitorati da Read, «la percentuale di casi di perdita persistente o permanente della memoria varia tra il 29% e il 55%». Secondo i fautori dell’elettroshock l’amnesia dipende dalla depressione e non dal trattamento. Dimenticano che la perdita di memoria è stata a lungo considerata uno degli obiettivi dell’elettroshock e proprio a essa venivano attribuiti gli effetti benefici. Lo stesso Bini negli anni ’40 mise a punto il cosiddetto «metodo dell’annichilimento», basato sulla quasi totale amnesia per i pazienti più refrattari attraverso ripetuti elettroshock.
MOLTI SCIENZIATI, però, sorvolano e preferiscono attribuire la diffidenza a una rappresentazione inesatta della terapia. Puntano il dito soprattutto contro un film Qualcuno volò sul nido del cuculo, che da noi uscì proprio mentre Basaglia sperimentava l’anti-psichiatria a Trieste. In quel film, si mostrava la funzione repressiva più che terapeutica del trattamento sanitario. Due anni dopo, la legge Basaglia abolì i manicomi e nacque il Servizio sanitario nazionale. Forse non è un caso che la sua crisi, il ritorno delle mutue private (anche in Italia) e il riorientamento scientifico avvengano proprio nello stesso periodo.
Dopo un’ora di discussione serrata, alla fine il duello del King’s College è andato a Read. I dati presentati sono apparsi più convincenti e lo scienziato è stato in grado di ribaltare il pronostico iniziale. A colpi di «evidence-based medicine» il 57° Maudsley Debate se lo è aggiudicato lui.
Corriere 3.2.19
Gli obiettivi della scienza
Una Sanità orgogliosa che serva all’uomo
È importante un’idea del sapere medico che riconosca i suoi limiti
di Gianluca Vago
Mai come ora, il mondo della medicina, della ricerca, della cura, affronta sollecitazioni, cambiamenti, progressi, rischi, la cui direzione sembra difficilmente prevedibile. Non solo per chi alla medicina affida il bene più prezioso, la salute, ma per quanti quel bene cercano di tutelare.
Tutto sta cambiando, e con una velocità impensabile. Cambia il modo con cui diagnostichiamo le malattie, cambia persino il modo con cui le classifichiamo. Ora sappiamo che parlare di tumore come una sola malattia non ha più senso. Sappiamo che ciascun tumore ha un profilo particolare di alterazioni del proprio profilo genetico, e abbiamo la speranza di poter trattare ciascun particolare tumore con farmaci specifici per quelle alterazioni. Che questo, probabilmente, varrà anche per molte altre patologie. Che ogni malattia è unica anche perché ogni malato è unico.
Sappiamo che i progressi stessi della medicina hanno modificato le aspettative di vita, aumentandole, e generando un bisogno mai sperimentato di aiuto per chi convive per anni con patologie croniche. Sappiamo che prevenire è possibile, e assistiamo allo stesso tempo alla difficoltà di alimentare programmi efficaci di prevenzione.
Sappiamo che quanto sta avvenendo grazie ai progressi nel campo dell’intelligenza artificiale modificherà radicalmente ogni aspetto della cura, e persino della relazione di cura.
Sappiamo che il sistema dei social network sta cambiando, in una direzione imprevedibile, il modo con cui si generano e si trasmettono i saperi, veri e falsi.
Sappiamo, anche e prima, che il mercato generato dalla medicina è portatore di interessi colossali, e come ogni mercato, spinge al consumo, anche quando non servirebbe consumare di più, e anzi consumare di più è dannoso per la nostra salute.
Sappiamo che faremo sempre più fatica a sostenere sistemi che garantiscono assistenza e cura per chi non ha risorse per farlo da sé; sistemi universalistici, nei quali l’interesse pubblico all’aiuto sia difeso come un valore irrinunciabile.
Come sempre è accaduto, le reazioni possibili a queste enormi, continue, complesse sollecitazioni comprendono gli estremi di una esaltazione acritica della scienza e della tecnologia, o di un pessimismo immotivato e fatalista. Della fiducia cieca nelle dinamiche di mercato, o del rimpianto per una semplicità che non è mai esistita, e non esisterà mai. Che il progresso porti rovine, conflitti, regressioni; o che invece ogni novità sia, perché novità, portatrice di valori positivi.
Credo invece, sia importante, proprio ora, sostenere, con ancora più forza, un’idea della medicina, del sapere e dell’agire medico, che rimandi, con mite fermezza, ai fondamenti primi della cura. Una medicina che riconosca i suoi limiti.
Che non prometta immortalità (non ancora, almeno). Che non pretenda di portare responsabilità non sue — l’inquinamento atmosferico provoca malattie, ma non tocca alla medicina la responsabilità delle politiche ambientali. Che non renda malati i sani, per poterli curare. Che coltivi il dubbio, perché è sul dubbio che riposa la sua credibilità. Che provi, con pazienza, ma con fermezza, a dire cosa sia l’incertezza. Che verifichi, sempre, quello che fa, gli strumenti che usa, i farmaci che somministra, gli interventi che sceglie. Che usi al meglio, o anche solo bene, le risorse di cui può disporre. Che non faccia mercimonio della salute altrui. Che rispetti la volontà di ognuno, di essere curato e come, e insieme difenda la salute delle comunità. Che viva la sofferenza, e il sollievo e la gioia della guarigione, e aiuti ad accogliere la fine.
C’è solo un modo, per affrontare un futuro mai così vicino, e mai così imprevedibile. Difendere strenuamente, una medicina che serva veramente all’uomo. Una medicina mite; e orgogliosa di sé.
Repubblica Roma 3.2.19
Medici: pochi, anziani, in fuga Così la Sanità perde i migliori
di Carlo Picozza
Attratti dal privato o cor
teggiati all’estero Lo scouting tedesco L’assessore D’Amato "Spesa e ingaggi snelli"
Restano sbarrate le porte d’ingresso al Servizio sanitario del Lazio. Si spalancano, invece, i portoni per le uscite, sempre più numerose, di medici di chiara fama. È fuga grande verso i centri privati. In Italia e fuori. L’ultimo canto di sirena per i camici bianchi, anche freschi di studi, si leva dalla Germania: un ingaggio a 4.402 euro al mese (700 in più che in Italia), con alloggio pagato e un contratto quinquennale nella clinica Katholisches Krankenhaus di Hagen, città di 188mila abitanti, nella Renania- Westfalia. " Unico requisito per candidarsi", si legge nell’annuncio, "una laurea in Medicina e Chirurgia, con o senza esperienza". E "non è richiesta la conoscenza del tedesco".
Tant’è, a valle per i neolaureati e a monte per le eccellenze, la Sanità del Lazio si spopola impoverendosi. E invecchia: l’età media dei medici è 57 anni, 6 in più di quella italiana. Anziani e non solo, i nostri medici sono la minoranza più esigua d’Italia rispetto alla popolazione: 7 ogni mille abitanti, 4 in meno della media nazionale. Anziani, pochi e in fuga dai centri pubblici: in folta schiera — mille all’anno dall’Italia, un centinaio dal Lazio — emigrano in altri Paesi dell’Ue e Oltreoceano, dopo essersi formati qui con un costo sociale di 130mila euro.
Se non scappano prima, una volta in pensione, i più bravi approdano nei centri privati. Il chirurgo oncologico Giovanni Battista Grassi, pioniere della radioterapia intraoperatoria, lascia il San Filippo Neri per il Policlinico Casilino insieme con la sua équipe affiatatissima e di livello. Il chirurgo toracico, Massimo Martelli, antesignano della Chirurgia polmonare mininvasiva, dal Forlanini è ormai di casa al Quisisana. Tra i più bravi in Italia, anche l’anestesista rianimatore Remo Orsetti, che al San Camillo coordinava 150 colleghi, sbarca alla Salvator Mundi.
L’elenco è lungo. Si aggiunge a quello di altri che, pur lontani dalla pensione, dal " pubblico" emigrano al "privato". In Italia e fuori. A New York il chirurgo oncologico Francesco Serafini coordina gli interventi sui tumori del fegato e del pancreas per l’area di Brooklyn. Formatosi a Roma, anche Antonio Daniele Pinna ora è ad Abu Dahbi dove dirige il centro trapianti della Cleveland Clinic. L’ortopedico Michel Oransky, già primario al San Camillo, un mago nella ricostruzione del bacino, è in forza all’Aurelia Hospital. La chirurga Valentina Giacaglia, valente specialista delle patologie del pavimento pelvico, da trenta mesi opera e insegna a Dubai. Carlo Eugenio Vitelli, già direttore del dipartimento chirurgico, con sei reparti al San Giovanni, ora è al Vannini a Tor Pignatara (vedi intervista). Lo ha seguito Francesco Stipa, stessa formazione al Memorial Sloan Kettering di New York.
« Con un contratto dei medici fermo a dieci anni fa — commenta Alessio D’Amato, assessore regionale alla Sanità — con la spesa per il personale inchiodata al 2014, per di più ridotta dell’ 1,4%, e con procedure concorsuali farraginose, il Servizio sanitario va alle guerre stellari con l’alabarda. Anche se — precisa D’Amato — dal 2018 al 2020, delle 5mila assunzioni di medici e infermieri, 1.800 sono già un dato di fatto » . Sono per lo più precari di lungo corso, perciò, anche loro, non più giovanissimi.
Corriere 3.2.19
Come trattenere i medici in fuga?
di Beppe Severgnini
Mail da Liverpool. «Leggo sul Corriere un altro articolo sui medici in fuga dall’Italia (oltre diecimila in dieci anni, ndr). Il motivo? La formazione specialistica è deputata all’università; e qui nasce il clientelismo. Al quinto anno di medicina devi scegliere il dipartimento dove svolgere la tesi e poi il concorso di specializzazione. Il sistema lega un candidato al professore, e viceversa. Perché non introdurre la chiamata diretta, invece di continuare con l’ipocrisia dell’imparzialità della commissione? Certe regole sembrano scritte per poter essere aggirate. Parlo con cognizione di causa. Da 20 anni lavoro come chirurgo in UK e ricevo continue richieste da medici italiani, tutte con le stesse motivazioni». Il mittente si chiama Attilio Lotto (atlot@hotmail.com). In pochi secondi (San Google) ho scoperto che è un cardiochirurgo infantile presso l’Alder Hey Children’s Hospital (Liverpool John Moores University).
Che dire? Credo che la fuga dipenda anche da motivi economici (in Inghilterra, Francia, Olanda e Germania i medici guadagnano meglio). Però da anni sostengo la stessa tesi (in privato, in pubblico, nelle università): baste ipocrisie, introduciamo la chiamata diretta. Non solo per le scuole di specialità, ma per l’accesso ai ruoli universitari. Ogni università o dipartimento prenda chi vuole: ma poi se ne assume la responsabilità. Troppo semplice? No: efficace e trasparente, invece. Se prendo un incapace, ne risentirà la mia organizzazione e la mia reputazione. Quindi, meglio prenderne uno bravo.
Perché la chiamata diretta, in Italia, non passerà? Semplice. La maggioranza — ne sono convinto — sceglierebbe con buon senso. Ma alcuni — pochi o tanti, sempre troppi — assumeranno leccapiedi, clienti, amici e figli di amici, parenti e amanti. Altri seguiranno le indicazioni della politica. Altri ancora, per non sentirsi minacciati, si circonderanno di mediocri. E per tutti costoro non scatterà alcuna sanzione: accademica, professionale, legale, sociale o morale. Nessuno gli chiederà conto del guaio che hanno combinato. Qualcuno si congratulerà; i bravi colleghi faranno finta di niente.
Chiudo con le parole del prof. Lotto (nomen omen): «Questo “governo del cambiamento” vuole cambiare? Si attendono notizie in merito. Finora, calma piatta».
il manifesto 3.2.19
L’Aristotele di Lanza e Vegetti, corpo dell’animale e lettura marxista
Pensiero antico. Bompiani riedita l’esemplare edizione delle Opere biologiche del filosofo che i due antichisti curarono per la Utet nel 1971: un lavoro scientifico di rottura
di Massimo Stella
La riedizione delle Opere biologiche di Aristotele tradotte, commentate e introdotte da Diego Lanza e Mario Vegetti (La vita, Bompiani «Il Pensiero occidentale», pp. 2496, euro 60,00) offre l’occasione di ricordare alla comunità dei lettori italiani (che già conoscono l’opera, che ancora non la conoscono, studiosi o cultori del mondo antico) l’importanza di questo imponente lavoro – uscito da Utet nel 1971 (2ª ed. 1996) per la collana «I classici della scienza» allora diretta da Ludovico Geymonat – nel panorama bibliografico internazionale dell’antichistica e, più in generale, della storia del pensiero occidentale. «Lavoro imponente» si diceva, lavoro fondamentale nella storia degli studi filologici, epistemologici, filosofici, quanto di rottura: è lo snodo cruciale tra anni sessanta e anni settanta, e per un certo tipo di intellettuale marxista, autenticamente radicale e libertario come lo furono convintamente durante tutta la loro attività Lanza e Vegetti, la tradizione umanistica, insieme al suo storicismo di matrice idealistica e al suo culto delle belles lettres rimodellato wilamowitzianamente da edificio scientifico dei realia, non poteva più convivere (per molti classicisti continuava e continua, invece, a farlo) con quella Kulturkritik che deriva la sua origine specifica dall’economia politica (prima ancora che dalla filosofia politica) di Marx. Lanza e Vegetti non erano certo figure disponibili al compromesso tra conformismo accademico e esercizio del pensiero. Ora come allora, dunque, non si può capire assolutamente nulla della loro ricerca intorno alle opere biologiche di Aristotele se non si parte da tale premessa, soprattutto perché proprio essa è la ragione strutturale e immediata dell’innovatività scientifica unanimamente riconosciuta dagli aristotelisti all’opera dei due studiosi. Ed è un’innovatività ancora oggi fiammante per quella sua impostazione marxista, della quale vorrei ricordare qui i punti essenziali.
I limiti linguistici e discorsivi
Innanzitutto, Lanza e Vegetti guardano ad Aristotele (come sempre, in generale, guardavano all’Antico) a partire dalla Modernità: non si tratta di un posizionamento storico (o tantomeno attualizzante) bensì analitico, nel tentativo di tracciare i limiti linguistici e discorsivi (entrambi condividevano l’archeologia foucaultiana) dell’osservazione e della riflessione di Aristotele sull’animale, sul funzionamento delle sue parti e della sua struttura – fermo restando il fatto, sia chiaro, che l’unico tratto di discontinuità tra l’animale e l’uomo è la sophia. Il costante riferimento alla biologia, alla fisiologia e alla zoologia moderne, tra Harvey e Linneo, tra Cuvier, Lamark e Darwin, è dunque essenziale ai due curatori per definire lo stile di razionalità (non dunque il «razionalismo») aristotelico nelle sue caratteristiche intrinseche insieme al linguaggio che gli corrisponde. Ne risulta che la biologia di Aristotele è un sapere antropologico, calato nella memoria collettiva, e tuttavia dislocato dalla teoria e dal teorico sull’ulteriore livello dell’argomentazione. Ciò significa riconoscere alla biologia di Aristotele lo statuto di pensiero scientifico, nel quadro, però, di una prospettiva completamente differente da quella positivista ed evoluzionista, sostenuta, ad esempio, da Jaeger. Piuttosto e alternativamente, la biologia aristotelica, nella lettura di Lanza e di Vegetti, ci restituisce il lato fenomenologico della scienza, cioè il movimento teoretico-linguistico interno a un sapere dell’esperienza che, tutt’al contrario e in modo decisamente retrogrado, l’umanesimo storicista considera risolto nella verifica.
A questo proposito, Lanza e Vegetti sottolineano che la linea di demarcazione spesso tracciata tra scienza moderna e scienza artistotelica dagli odierni epistemologi sul filo della speculazione finalistica è una forzatura dovuta al peso della tradizione medievale, perché la dottrina biologica di Aristotele non si fonda tanto sulla causalità finale, quanto piuttosto sulle modalità causali. La vita stessa, secondo Aristotele, non è altro se non una particolare forma o struttura assunta dalla materia. E si tratta di un elemento particolarmente importante da sottolinare, in questa sede, soprattutto per spirito di servizio ai lettori, perché il titolo editoriale della riedizione Bompiani è, come detto: Aristotele, La vita (formula che scarta dal denotativo titolo Utet Opere biologiche). Lanza e Vegetti sono molto chiari nel merito: la scienza biologica di Aristotele non si pone, infatti, il problema della «vita», nell’accezione «vitalistica» del termine, l’anima stessa essendo semplicemente la struttura funzionale del corpo. E d’altra parte, per Lanza e per Vegetti, la conciliazione tra l’Aristotele biologo e l’Aristotele metafisico è un atto di pura falsificazione. Piuttosto, c’è uno psichismo tutto biofisiologico del corpo animale legato alle funzioni della percezione e della memoria: ed è Lanza in particolare a studiare da vicino, nelle sue note di commento e nelle introduzioni alle opere psicologiche, i processi di acquisizione conoscitiva (dall’esterno verso l’interno del corpo) e quelli che, invece, si originano in un impulso (dall’interno del corpo verso la realtà esterna), veri e propri dinamismi psicomotori in cui è possibile riconoscere un’interessante anticipazione del concetto ben più recente di «stimolo nervoso».
C’è poi l’altra importante intuizione aristotelica intorno al legame tra l’attività psicomotoria e l’immaginazione: vista dalla parte della macchina corporea, l’immaginazione non è il gioco del «fantasticare», bensì il prodotto dell’incontro e dell’intreccio tra esperienza somatica e rielaborazione emotiva di quella stessa esperienza. Ne è un chiaro esempio il funzionamento del ricordo, descritto da Aristotele nel De memoria come il vorticare di una forma in un fluido, posto che l’equilibrio dei fluidi (e soprattutto del sangue) è il perno della fisiologia aristotelica. Possiamo davvero dire, dunque, che, nell’intero panorama del mondo antico, è proprio Aristotele a scoprire il corpo nella sua natura strutturalmente mista di biologico e di pulsionale, aprendo, di fatto, problemi che soltanto, per un verso, le ricerche di Piaget (la sua psicogenesi della conoscenza, i suoi studi sulla costruzione dell’intelligenza e sulla capacità mimetica umana), e, per l’altro, la psicoanalisi pre-freudiana e freudiana avrebbero esplorato fecondamente a cavallo tra XIX e XX secolo (sia detto incidentalmente: se l’attuale trend neuroscientifico degli studi letterari ritornasse all’Aristotele «psicologo», ci guadagnerebbe in apertura).
Contro ogni accademismo
Questa riedizione Bompiani, con l’aggiornamento bibliografico a cura di Giuseppe Girgenti e una bibliografia degli scritti di Diego Lanza e Mario Vegetti, ha il merito di rendere nuovamente e materialmente disponibile in libreria per il grande pubblico le Opere biologiche apparse da Utet (Ricerche sugli animali, Le parti degli animali, La locomozione degli animali, La riproduzione degli animali, Parva naturalia, Il moto degli animali, tutte con testo greco a fronte) e di tenere viva la testimonianza di un lavoro che rappresenta, al di là del suo altissimo apporto specifico agli studi aristotelici, un esemplare saggio di metodologia marxista senza obbedienze diplomatiche o fideistiche a nessun accademismo culturale e politico. Credo che oggi – in questi nostri tempi di «caduta delle ideologie» e, per fatale conseguenza, di studi «alla moda» i cui risultati sono sempre più spesso oggettistica di mercato e poco più che rassegne bibliografiche aggiornate all’ultima segnalazione google – sia importante ribadirlo: un’opera scientifica che resti fondamentale e duratura non è mai costruita primariamente sull’informazione e sul rispecchiamento delle tendenze en vogue, e nemmeno sulla pur nobilissima erudizione, ma su esatte scelte di pensiero che posizionino lucidamente lo sguardo critico a distanza strategica dalla struttura dei fatti e dei fenomeni analizzati.
Corriere 3.2.19
Anteprima
L’anima eterna di Adriano
Andrea Carandini: l’imperatore aveva una visione vicina alle credenze cristiane
Un volume firmato con Emanuele Papi (Utet) su uno dei più famosi sovrani dell’antica Roma
di Paolo Conti
L’archeologo Andrea Carandini si confronta con Adriano, l’imperatore romano colto e raffinatissimo che ha intrigato generazioni non solo di studiosi dell’arte antica, ma anche di filosofi, di poeti, di teatranti, di letterati (l’ovvio nome per tutti è quello di Marguerite Yourcenar). Ma in questo suo Adriano. Roma e Atene edito da Utet (scritto con Emanuele Papi, direttore della Scuola archeologica italiana ad Atene e che firma la seconda parte del volume, dedicata appunto alla parte Adriano/Atene) Carandini tiene saldamente le distanze da facili coinvolgimenti emotivi per regalare al lettore, passo dopo passo, un ritratto documentato di un politico titolare di «un principato eccellente», come scrive l’autore, modernissimo nella sua concezione itinerante della gestione del potere («dove lui si trovava, lì era anche Roma, per cui Urbs e Orbis si univano in lui grazie alla metafora suggestiva, che forse già circolava, del foro di tutto il mondo»).
Una scelta politica ben precisa: «Adriano lavorava all’impero come un architetto che dava una forma riconoscibile, unitaria e perenne all’edificio-mondo che si era proposto di costruire». Voleva essere un sovrano assoluto, «capace di imprimere un ordine giuridico e amministrativo nel vasto impero». Dunque i suoi lunghi viaggi lontano da Roma, visto il giudizio finale di «principato eccellente», non erano sintomo di eccentrica noia esistenziale, ma consapevole strumento di controllo dell’impero.
C’è di più. Carandini, incontrando Adriano, propone un’ipotesi straordinariamente suggestiva della sua concezione della morte verso la fine della vita. Il punto di partenza sono i celeberrimi versi adrianei: «Animula, vagula, blandula/ hospes comesque corporis,/ quo nunc abibis in loca,/ pallidula, rigida, nudula,/ nec ut soles dabis iocos» (che Carandini così traduce: «Piccola anima smarritella e delicatella/ ospite e compagna del corpo,/ verso quali luoghi ora te ne andrai,/ lividina, intirizzita e nuderella;/ né più come solevi darai svaghi»). Adriano anticipava i tempi anche qui: «Aveva una speciale e accresciuta speranza di sopravvivere oltre la morte. Faceva comunque una differenza immaginarsi ombra negli inferi dell’Acheronte e dell’Orco oppure anima astrinfiammante in cielo». Ecco, qui entra in ballo il ragazzo-chiave della vita di Adriano, ovviamente l’amato Antinoo: la sua anima, dopo la misteriosa morte in Egitto, «aveva d’un tratto brillato nel notturno cielo sopra il Nilo in forma di stella». Era la «collocazione tra gli astri», ovvero il «catasterismo». Esattamente l’iconografia trovata recentemente in un mosaico rinvenuto a Pompei dagli scavi voluti dal direttore generale di quel parco archeologico, Massimo Osanna: il mitico Orione assunto in cielo per diventare costellazione (ne ha scritto Livia Capponi su «la Lettura» del 30 dicembre). L’iniziazione ai Misteri Eleusini, racconta Carandini, la padronanza dell’astrologia e della magia dei tempi condussero Adriano «alla sfera inusitata, interiore e invisibile dell’anima». Addirittura consapevole che la sua condizione di principe non fosse «abissalmente diversa da quella dell’uomo comune e perfino dello schiavo, i quali anch’essi possedevano in loro un frammento della divinità cosmica, luminosa ed eterna». In fondo Antinoo, finito in cielo, era un uomo comune. Dunque, argomenta l’autore, «era come se il mondo antico si stesse appropinquando passo passo a quella uguaglianza etica di tutti gli uomini scoperta un secolo prima da un oscuro falegname della Galilea». Infatti «la credenza in un eterno futuro andava propagandosi nel mondo greco e romano».
C’è un’altra ipotesi suggestiva proposta da Carandini. Chiunque abbia visitato San Pietro a Roma avrà in mente lo strepitoso fonte battesimale in porfido rosso nella navata sinistra firmato da Carlo Fontana. Per l’archeologo quel pezzo unico è il coperchio rovesciato (e riutilizzato come fonte battesimale nel 1698 da Fontana) del sepolcro di Adriano: il quale avrebbe optato, sempre consapevolmente, per l’inumazione e non per la tradizionale incinerazione. Prese le misure da Carandini, quel sarcofago ora a San Pietro entra perfettamente nella nicchia centrale della camera funeraria del sepolcro di Adriano «che sembra progettata apposta». Insomma, dice l’autore, «Adriano ha segnato una grande ed eccezionale discontinuità, a livello imperiale, sia nella concezione dell’anima sia nel trattamento del corpo, contrario a quello della tradizione romana, ripresa poi dai suoi successori».
La prosa di Carandini è sempre intrigante e insieme chiara, non dialoga solo con gli addetti ai lavori, ma anche col grande pubblico appassionato di Roma antica. Un vasto corredo di immagini e tavole (lavoro coordinato da Maria Cristina Capanna e da Maria Teresa D’Alessio) arricchisce un viaggio alla scoperta di un Adriano nuovo, sottratto ai facili (e spesso irritanti) stereotipi.
La Stampa 3.2.19
Operazione Abu Simbel
Così, nonostante la Guerra fredda, il mondo si unì per salvare i templi
di Maurizio Assalto
Fa effetto pensarci, in questo principio di mirabolante Terzo Millennio in cui le testimonianze più preziose del passato vengono saccheggiate o prese a cannonate o polverizzate sotto le bombe, da Bamiyan all’Iraq, dalla Siria al Kurdistan, sotto lo sguardo angosciato ma sostanzialmente impotente del mondo. Eppure nel vecchio millennio c’è stato un tempo - non tanto tempo fa, poco più di mezzo secolo, piena Guerra Fredda - in cui tutto il mondo fu capace di unirsi per un’impresa cultural-tecnologica senza precedenti, con un «nobile spirito di cooperazione che si manifestò in ogni campo», con un «aiuto materiale, finanziario e scientifico» che accomunò «Occidente e Oriente, uomini delle più diverse razze, fedi e convinzioni politiche»: sono parole di Sarwat Okasha, l’allora ministro della Cultura egiziano, nella cerimonia che annunciava il completamento dell’operazione di salvataggio dei templi di Abu Simbel. Era il 22 settembre 1968.
Sedici anni prima, Gamal Abdel Nasser, appena salito al potere con il golpe che spodestò re Faruq, aveva avviato il progetto della Alta Diga sul Nilo, nei pressi della prima cateratta, a Assuan. Avrebbe sostituito quella, ormai inadeguata, costruita a fine ’800 dagli inglesi sei chilometri più a valle. La nuova gigantesca opera - 111 metri di altezza per 3600 di lunghezza e 980 di larghezza alla base, 40 alla sommità - sarebbe servita a contrastare l’aridità di quella parte meridionale dell’Egitto, consentendo l’inondazione e quindi la coltivazione di diecimila chilometri quadrati di deserto, e incrementando nel contempo la produzione di energia idroelettrica. La realizzazione del progetto avrebbe comportato anche non indifferenti danni ambientali, tanto nella zona interessata quanto nel delta, ma non era questo il problema maggiore.
L’emergenza che fin da subito mobilitò la comunità archeologica internazionale era un’altra: il lago Nasser, il grande invaso artificiale di 550 chilometri di lunghezza creato dalla diga, da Assuan fino a oltrepassare i confini con il Sudan, avrebbe sommerso una quantità di tesori archeologici della Nubia, tra i quali i più rilevanti erano i due grandiosi templi rupestri di Abu Simbel, con le pareti interne ricoperte di splendide decorazioni a bassorilievo. Eretti nel XIII secolo a.C. da Ramesse II in onore di sé stesso e della Grande sposa reale Nefertari (oltreché degli dèi Horus e Hathor) per celebrare la (millantata) vittoria contro gli Ittiti nella battaglia di Qadesh, erano stati individuati nel 1813 dallo svizzero Johann Ludwig Burckhardt e violati per la prima volta quattro anni dopo dall’italiano Giovanni Battista Belzoni. Una meraviglia. Ma adesso si poneva il dilemma se conservare il passato o garantire il presente e il futuro alle popolazioni bisognose. Con molta buona volontà, le opposte esigenze si poterono contemperare.
I lavori per la diga partirono il 9 gennaio 1960. L’Egitto si rivolse all’Unesco, che l’8 marzo rispose con un appello lanciato dal suo direttore generale Vittorino Veronese per salvare i templi nubiani: «Il mondo intero ha diritto alla loro perennità perché sono parte di un patrimonio comune che comprende tanto il messaggio di Socrate quanto gli affreschi di Ajanta, le mura di Uxmal quanto le sinfonie di Beethoven. Ai monumenti di valore universale si deve una tutela universale».
All’appello rispose tra le prime la comunità egittologica italiana, con l’Università Statale di Milano e la Sapienza di Roma, con le iniziative personali di Sergio Bosticco (Università di Firenze) e di Edda Bresciani (Pisa), e soprattutto con il Museo Egizio di Torino, il cui direttore Silvio Curto avviò una vasta campagna di scavi in un’area poco conosciuta della Nubia. Il governo italiano stanziò per Abu Simbel 856.000 dollari, il terzo maggior contributo dopo quelli di Stati Uniti e Francia. Ma come procedere?
Le proposte per il salvataggio furono svariate e fantasiose. Qualcuno suggerì di lasciare i templi sott’acqua, protetti da cupole di calcestruzzo e accessibili per mezzo di ascensori incapsulati all’interno di condotti verticali, addirittura si fece avanti un produttore cinematografico americano, William MacQuitty, infatuato dal mito di Atlantide, che prevedeva di renderli visitabili attraverso gallerie subacquee. Alla fine prevalse l’idea di smontare i templi e spostarli 65 metri più in alto e 280 metri più all’interno, conservandone l’orientazione originaria rispetto agli astri e al sole, e ricostruendovi intorno una collina artificiale identica a quella originale. Un’operazione titanica, se si considera che il tempio più grande pesava 265 tonnellate e quello più piccolo 55. La realizzazione del progetto, messo a punto da un’azienda svedese, fu affidato all’italiana Impregilo (oggi Salini Impregilo, l’impresa che ricostruirà il Ponte Morandi di Genova, e che a 50 anni dalla conclusione dei lavori celebra il successo con un sontuoso volume edito da Rizzoli in collaborazione con il Museo Egizio di Torino, con belle immagini inedite, disegni esemplificativi e la possibilità di ulteriori informazioni grazie alla realtà aumentata).
All’impresa, del costo di 40 milioni di dollari, contribuirono con fondi e sostegno tecnico, oltre all’Italia, 113 Paesi di tutto il mondo, dagli Usa all’Argentina, dall’Austria al Belgio, alla Cecoslovacchia, le due Germanie, Gran Bretagna, Olanda, Polonia, Spagna, Svizzera, Jugoslavia, Urss, fino all’India e al Ghana. I lavori partirono il 16 luglio ’65, approfittando del basso livello estivo del Nilo. Dapprima si procedette a erigere una diga di sbarramento, per proteggere l’area archeologica dall’innalzamento delle acque. Quindi cominciò la delicata opera di smontaggio. I templi vennero sezionati in 1030 blocchi di 20-30 tonnellate ciascuno, numerati per identificarli e stoccati, in attesa di essere riassemblati come un gigantesco puzzle tridimensionale.
Fu una corsa contro il tempo, mentre il lago Nasser si ingrossava e allungava verso Sud: durò fino al ’68, con l’impiego di oltre duemila uomini, guidati da un gruppo di esperti cavatori di marmo italiani fatti venire appositamente da Carrara e dal Bresciano. Per non compromettere i monumenti non si utilizzarono esplosivi ma solo martelli pneumatici e seghe azionati a mano: tutti i macchinari arrivarono dall’Europa, via mare. Ricostruiti i templi, nei primi mesi del ’69 l’operazione fu coronata con la costruzione di una cupola di calcestruzzo armato al di sopra dei templi, in funzione protettiva e per dare forma alla collina artificiale a cui vennero addossati.
Come ricompensa per l’aiuto prestato, all’Italia andò il tempietto rupestre di Ellesiya, il più antico scavato nella Nubia, costruito da Thutmosi III nel 1430 a.C. e investigato da Silvio Curto durante le sue missioni. Sezionato a blocchi con la medesima tecnica impiegata a Abu Simbel, è stato rimontato al Museo Egizio di Torino, di cui è uno dei tesori più rilevanti. Altri quattro templi, non di età faraonica, furono donati alla Spagna, agli Stati Uniti, all’Olanda e alla Germania. Ma al di là delle ricompense materiali, e anche dei tesori archeologici che furono salvati, dell’impresa di allora resta la lezione: di quel che si può fare per il patrimonio culturale quando si è capaci di superare le divisioni, e di quel che può il patrimonio culturale per far ragionare il mondo.
Corriere La Lettura 2.3.19
Il trasloco del Faraone
Il salvataggio dei templi di Abu Simbel
Mezzo secolo dopo un volume documenta e celebra l’evento
di Cecilia Bressanelli
Due enormi templi in roccia, ricavati nel fianco della montagna. A costruirli, sul confine meridionale del regno, fu il faraone Ramses II nel XIII secolo avanti Cristo. Sulla facciata del Tempio Maggiore, alta 33 metri e larga 38, quattro statue di 21 metri rappresentano il faraone sul trono. La struttura è orientata in modo che i raggi del sole due volte l’anno (il 22 febbraio e il 21 ottobre) possano raggiungere le stanze più interne. Il Tempio Minore, dedicato alla moglie Nefertari, è ornato sulla facciata larga 28 metri e alta 12 da sei statue di 10 metri.
A scoprirle il tempio più grande sotto uno strato di sabbia fu lo svizzero Johann Ludwig Burckhardt nel 1813. Ma il primo a esplorarlo fu, nel 1817, l’archeologo italiano Giovanni Battista Belzoni. Per oltre tremila anni i colossi sono rimasti lì nella Nubia, regione che abbraccia l’Egitto e il Sudan, a guardare il Nilo dalla riva occidentale. In silenzio. Fino al 9 gennaio 1960.
La data segna l’inizio dei lavori per la costruzione della diga di Assuan, voluta dal presidente Gamal Abdel Nasser, che con le sue potenti turbine avrebbe aumentato notevolmente le risorse elettriche dell’Egitto. A sud della diga si sarebbe creato un lago artificiale (il lago di Nasser) che avrebbe alterato il paesaggio: oltre 500 chilometri della valle del Nilo sarebbero stati sommersi dalle acque e il patrimonio archeologico qui ospitato si sarebbe perduto.
L’8 marzo 1960 l’Unesco lancia un appello per salvare i monumenti e i siti in pericolo. Le risposte arrivano da tutto il mondo. Si organizzano spedizioni archeologiche, scavi, registrazioni di centinaia di siti e il recupero di migliaia di oggetti. Ma i progetti più spettacolari sono i trasferimenti: interi siti ricollocati in luoghi più elevati, al riparo dalle acque. È questo il destino che spetta ai templi di Ramses II nel sito di Abu Simbel.
Fin dal 1960 arrivano finanziamenti e proposte. L’Unesco opta per il progetto di un consorzio formato dalla compagnia italiana Impregilo (20%), dall’egiziana Atlas (20%), da Hochtief, compagnia tedesca con base a Essen (24%); Sentab-Skanska, una ditta di Stoccolma (24%), e la francese Grands Travaux de Marseille (12%). La proposta: smontare i templi (pesanti in tutto 320 mila tonnellate; 265 per il Tempio Maggiore, 55 per il Minore), stoccarli, trasportarli per poi ricostruirli 180 metri più indietro e 65 più in alto. I lavori iniziano nella primavera del 1964 e durano 1.117 giorni: il 22 settembre 1968 i templi sono nella nuova collocazione.
Oggi, 50 anni dopo, Salini Impregilo — gruppo industriale specializzato nella realizzazione di grandi opere complesse su scala internazionale in cui è confluita Impregilo — celebra l’impresa in un volume curato in collaborazione con il Museo Egizio di Torino ed edito da Rizzoli: Nubiana. Qui «la grande impresa che salvò i templi di Abu Simbel», come si legge nel sottotitolo, è ricostruita grazie a centinaia di fotografie, sei grandi infografiche e 33 esperienze in realtà aumentata (fruibili attraverso l’app di Salini Impregilo) che tramite lo smartphone permettono di visualizzare elaborazioni grafiche e filmati inediti provenienti dall’archivio del Gruppo (in queste pagine sono mostrati due esempi).
A introdurre il viaggio sono Pietro Salini, ceo di Salini Impregilo («siamo orgogliosi di aver scritto alcune pagine di quella storia»); Christian Greco, direttore del Museo Egizio («il trasferimento è stato un esempio senza precedenti di come le tecnologie possono aiutare a salvare testimonianze straordinarie del passato»); e Willeke Wendrich, direttrice del Cotsen Institute of Archeology dell’Università della California («la campagna nubiana ha permesso di conoscere in modo più approfondito questa parte della valle del Nilo»). Ci si immerge quindi nei testi e nelle immagini, per ritrovarsi al tempo dei faraoni e venire poi proiettati negli anni del «salvataggio», ricostruito nei dettagli.
La prima fase (primavera 1964-primavera 1965) è dedicata alla preservazione del sito e allo studio tipografico e architettonico. Viene costruita una diga provvisoria larga 372 metri e alta 25 per proteggere i templi dalle acque — gli ingegneri avevano previsto che nell’inverno 1964-65 il livello dell’acqua, dai 119 metri sopra il livello del mare iniziali, avrebbe raggiunto i 127,5 metri; e poi i 133 l’anno successivo, iniziando a sommergere l’area di Abu Simbel (la base del Tempio Minore stava a 120,2 metri), fino a raggiungere i 183 metri. Una sabbia protettiva ricopre le facciate; all’interno vengono poste impalcature d’acciaio e tunnel artificiali. Intanto dall’Europa, via acqua, arrivano i macchinari (630 tonnellate di escavatori, 350 tonnellate di ruspe, 610 di veicoli, 135 di compressori, martelli pneumatici e perforatori). Duemila persone lavorano al progetto, per un totale di 40 milioni di ore di lavoro e un costo di 40 milioni di dollari.
All’inizio del 1965 parte la seconda fase (che si sarebbe conclusa ad aprile 1966). Sopra ai templi si scava la nuova collina artificiale destinata ad ospitarli; a partire dal soffitto, i templi vengono segmentati in blocchi. Il peso di ogni blocco, studiato con cura, deve essere tra le 20 e le 30 tonnellate; la dimensione massima è di 15 mq per i blocchi della facciata e di 12 per le pareti delle stanze. Lo «smontaggio» è affidato a Impregilo. La roccia arenaria che compone i templi rischia di sgretolarsi con facilità; il taglio deve essere effettuato con seghe a mano affidate ai marmisti di Carrara, assoldati dall’impresa italiana. I templi sono divisi in 1.070 blocchi (235 per il Tempio Minore, 835 per il Mggiore), identificati da un codice (GA1A01 è il primo) che indica il tempio (G), il segmento (A), la zona (1), la fila (A) e il blocco (01).
Nel gennaio 1966 si avvia la ricostruzione. Resine speciali evitano lo sgretolamento dei blocchi, barre di acciaio tra i 25 e i 32 millimetri di diametro ne consentono il trasporto in un’area di stoccaggio di 44 mila metri quadrati, prima della destinazione finale. Qui vengono riassemblati in un’innovativa struttura artificiale. Le tecnologie più avanzate si combinano con tecniche simili a quelle antiche: i calcoli astronomici permettono di mantenere l’orientamento originario rispetto agli astri. Ed è così che ancora oggi, come tremila anni fa, i raggi del sole due volte l’anno penetrano nel Tempio Maggiore e arrivano a illuminare le statue del faraone e degli dei Amon Ra e Ra Horakhti poste nella stanza più interna. Mentre Ptah, dio delle tenebre, rimane nell’ombra.
Corriere 3.2.19
Nell’area di Minya
L’Egitto annuncia ancora: scoperta necropoli con quaranta mummie
Circa quaranta mummie, numerosi utensili in ceramica, papiri e sarcofagi colorati. È quanto è stato scoperto all’interno di alcune camere funerarie scavate nella roccia nel sito archeologico egiziano di Tunah Al-Jabal, area di Minya, 250 chilometri in linea d’aria a sud del Cairo. L’annuncio arriva dal ministero egiziano delle Antichità. Le mummie — in buone condizioni e almeno dieci, piccole, di bambini — risalirebbero a un arco di tempo piuttosto ampio (vengono indicati i periodi tolemaico, romano e bizantino): questo lascia presumere che la piccola necropoli sia stata utilizzata nel corso di diversi secoli. Secondo quanto riferito, apparterrebbero a una famiglia della classe media: alcune sono decorate con scritture a mano in demotico, una forma usata appunto dalla gente comune. È il terzo anno consecutivo che viene annunciato un rinvenimento nell’area e la scoperta arriva in un periodo in cui le autorità egiziane stanno puntando molto sui ritrovamenti archeologici per contribuire ad attrarre turisti, in calo dopo due rivoluzioni e vari attentati terroristici.
Per l’anno prossimo è anche attesa l’apertura al Cairo del nuovo «Grande museo egiziano».
Corriere 3.2.19
Maestri
Toscanini, la Scala, il no a Bayreuth
Un direttore senza compromessi
Dopo quarant’anni di ricerche Harvey Sachs scrive la biografia definitiva del musicista (il Saggiatore)
A Londra chiese a Stefan Zweig di conoscere Sigmund Freud ma l’incontro tra i due non si fece mai
di Helmut Failoni
In un suo articolo, lo storico della musica Harvey Sachs, per spiegare meglio l’intensità del rapporto che lo ha legato per anni allo studio di Arturo Toscanini (1867-1957), ricorreva alla sua vita privata. «Sono stato sposato due volte — ha scritto su “Il Sole 24 Ore” — e sono padre di due figli, ma il rapporto più lungo della mia vita è stato con un uomo che non ho mai conosciuto». Un uomo con la bacchetta in mano, che lo ha accompagnato in un percorso durato quarant’anni, portandolo a pubblicare più scritti sul maestro. Ogni volta pensando che fosse l’ultima. Ma poi, per un motivo o per l’altro, ma sempre legato a nuove scoperte, Sachs è tornato sull’amato Toscanini. Fino al recente sforzo titanico di una biografia di 1.200 pagine dal titolo Toscanini. La coscienza della musica , edita ora da il Saggiatore e tradotta da Valeria Gorla.
Crediamo che per questo libro si possa finalmente usare la definizione, a volte abusata, di «biografia definitiva». Sachs aveva già pubblicato (era il 1978) un’importante monografia sul maestro, ma La coscienza della musica non è la solita seconda edizione vista e riveduta. Il perché è presto detto: per la pubblicazione del 1978, Sachs aveva soprattutto parlato con le persone che erano state vicino al direttore: si trattava di fonti umane, quindi di voci soggettive. Ciò che mancava (allora) era l’accesso all’oggettività di un archivio personale di Toscanini, chiuso in scatoloni impilati, impolverati e custoditi nei magazzini della New York Public Library, perché, come spesso accade, gli eredi non si erano messi d’accordo.
Verso la metà degli anni Ottanta invece, una parte di questi documenti è stata donata e l’altra venduta, altri archivi vennero alla luce negli anni successivi (tantissime lettere), poi alcune registrazioni private con un Toscanini molto anziano e raccolte (di nascosto) dal figlio Walter, il primogenito. Il direttore, notoriamente restìo a interviste e dichiarazioni pubbliche, qui parla di musica, di cantanti, di colleghi, di partiture, nella serenità rassicurante delle mura di casa e degli oggetti familiari che lo circondavano.
Ecco allora che fra le pagine di Sachs emergono anche le letture amate dal grande direttore — «eternamente scontento» e alla «continua ricerca della perfezione» — che tra la Scala e il Metropolitan ha diretto le prime mondiali de La bohème e di Turandot e prime italiane di Richard Wagner e Claude Debussy. Amava Leopardi, Dante, Shelley... In una delle tante lettere indirizzate ad Ada Colleoni Mainardi, con la quale Toscanini ebbe una lunga e focosa relazione clandestina (certe sue lettere all’amante farebbero arrossire i fan di Cinquanta sfumature di grigio...), si legge: «Passo da Shelley e Keats alla Bibbia (Giobbe e l’Ecclesiaste), Dante e all’ultimo libro di Croce».
I poeti inglesi Toscanini li leggeva in lingua originale, Virgilio in latino e durante la sua permanenza a Londra, mentre frequentava lo scrittore austriaco Stefan Zweig, espresse più volte (siamo nella primavera del 1938) il desiderio di conoscere Sigmund Freud. Non se ne fece nulla per la morte, l’anno successivo, del padre della psicoanalisi, ma Toscanini rimaneva un uomo pieno di curiosità e di passioni. E sulla sua genialità ci aveva visto bene la maestra di scuola elementare che nella natìa Parma lo aveva soprannominato Napoleone, per via della sua memoria infallibile, memoria che si tradusse poi sulle partiture, prima di tutto su quelle del suo amato Verdi, che conobbe alla Scala il 5 febbraio 1887. Il suo primo incontro con l’opera, che avrebbe poi trasformato da genere di intrattenimento in forma d’arte, avvenne al Regio di Parma quando aveva 4 anni e ascoltò Un ballo in maschera. Il suo debuttò come direttore fu casuale, a Rio de Janeiro, e anche in questo caso legato alla memoria e a Verdi: a 19 anni gli piantarono una bacchetta in mano e lui diresse Aida, chiudendo la partitura . A trentun’anni divenne direttore principale della Scala. Poi ci fu la guerra, e dopo la Liberazione, il suo grande ritorno a Milano. Salì sul podio della Scala nuovamente l’11 maggio 1946 dopo tanti anni di assenza (la serata fu anche il debutto di una giovane e promettente voce: Renata Tebaldi) per il concerto inaugurale della ricostruzione, dopo i bombardamenti. In una lettera scrisse che si sentiva così commosso al punto di svenire. E, sottolinea Sachs: «Il periodo più importante della carriera di Toscanini fu proprio quello della Scala».
Non vanno dimenticati altri momenti fondamentali. Nel 1931, quando si rifiutò di dirigere (a Bologna) l’inno fascista Giovinezza e per questo fu picchiato (nel 1919 si era persino candidato, per via delle sue vocazioni socialiste, nelle liste di Mussolini...); nel 1933 quando si rifiutò di dirigere a Bayreuth per l’ascesa nazista (e questa, spiega Sachs, fu una delle scelte più dolorose della sua vita), nel 1938 quando si rifiutò di dirigere a Salisburgo per l’annessione dell’Austria alla Germania, sempre per motivi legati al nazifascismo. La storia meno nota? Nel 1936 volle inaugurare, a spese sue, un’orchestra di musicisti ebrei fuggiti in Palestina. L’attuale Israel Philharmonic Orchestra.
Repubblica 3.2.19
Silvano Tagliagambe
Le lezioni di Geymonat, gli studi a Mosca ("Una caserma"), la "fuga" in Sardegna per amore. Confessioni di un filosofo.
E il presente? "Si vive nella catastrofe: dell’immediatezza"
colloquio con Antonio Gnoli
La cosa che mi sorprende di Silvano Tagliagambe — prestigioso allievo di Ludovico Geymonat — è il modo in cui fa convivere scienza e teologia. Sembra un prestigiatore: qua il cilindro e là il coniglio. Eppure mentre assisto a una sua illusionistica lezione su Pavel Florenskij, così piena di dottrina e passione, penso all’esistenza di quegli uomini unici in cui la vita e le forme sembrano il risultato di un qualcosa che si approssima alla grazia. Ciò che mi sorprende è quando dice: non avevo idea di che cosa fosse la grandezza, in qualunque senso la si voglia intendere, fino a quando non ho incontrato Florenskij. Vi parrà eccessivo? Non lo è, ve lo assicuro, perché ci sono nella vita quei rari momenti in cui l’altro riflette la profondità che non sospettavamo, neppure lontanamente, di poter percepire. Credetemi. Certi incontri hanno proprio questa funzione. Tagliagambe vive da 45 anni in Sardegna. Lui che è nato a Legnano e ha studiato a Milano e ha insegnato a Pisa, dice di aver fatto una scelta di vita: «Mi sono innamorato di un’allieva e dopo la laurea ci siamo sposati. Anni sul "continente" poi la scelta dell’isola che non è solo un’isola ma un modo di sentire il mondo e la vita».
Tu sei stato allievo di Geymonat, grande logico e filosofo della scienza, convinto comunista, quando il comunismo in Italia voleva ancora dire qualcosa, ma anche segnare limiti e incomprensioni. Come ti sei imbattuto in lui?
«Negli ultimi anni del liceo al Parini di Milano ero incerto se iscrivermi a fisica o a filosofia. Il mio professore di filosofia mi consigliò di seguire alla Statale qualche lezione di filosofia della scienza per cominciare a orientarmi. Fu così che incrociai Geymonat».
Ti sei laureato con lui?
«Sì, nel 1968 con una tesi di meccanica quantistica. In un capitolo esposi le obiezioni dei fisici ed epistemologi russi all’interpretazione della scuola di Copenaghen di Heisenberg e Bohr. La cosa piacque particolarmente a Geymonat».
Forse uno dei pochi che si potesse eccitare sull’argomento.
«Lo vidi accarezzare quelle pagine senza zelo accademico, ma come se improvvisamente fossi diventato un suo piccolo prolungamento. Mi propose per una borsa di studio in Unione Sovietica».
E tu andasti?
« Andai, avevo 24 anni. Ero fresco di vita militare. Nel settembre del 1968 arrivai all’università di Mosca. Avevo ignorato la contestazione studentesca perché sotto le armi. Passai dalle piccole caserme del bellunese a quella decisamente più grande di Mosca».
Che città vedesti?
« Misteriosa e affascinante per tanti aspetti ma con un clima di chiusura e controllo che al cospetto i 18 mesi di disciplina militare mi sembravano acqua fresca».
Dove alloggiavi?
« Come tutti i borsisti nella casa dello studente alle " Colline Lenin". Non era poi così male. Il problema degli alloggi a Mosca, e non solo lì, era molto complicato. Vivevo in un piccolo blocco: in una delle due camere comunicanti, ciascuna riservata a un ospite. Doccia e sanitari in comune. Il grado di intimità non era il massimo. Ma ci si poteva adattare. Senza traumi».
E il tuo studio sulla meccanica quantistica?
«Be’, mi aprì alcune porte. Bisognava solo avere il coraggio e la tenacia di discuterne con qualche grande fisico. Per farlo andai a lezione di russo. Oltre a me c’erano tre simpatici cubani. Ero motivato e deciso a non perdere tempo. Mi indirizzarono verso le lezioni di Terletskij. Uno studioso molto critico con chi appoggiava la meccanica quantistica».
«Certo, quella dominante. Ma scoprii che alcuni grandi fisici parteggiavano
per Heisenberg e Bohr».
Chi?
«Uno di cui seguii le lezioni era Vladimir Fok. Insegnava a Leningrado, ma capitava spesso a Mosca. Una testa mirabile».
A parte i fisici chi ti incuriosiva?
«Mi parlarono tantissimo di Aleksandr Lurija. Le sue ricerche nel campo delle neuroscienze erano molto avanzate. Andai a trovarlo, nella casa dove viveva, a Mosca. Mi venne incontro un uomo dal portamento aristocratico. Ci accomodammo in una stanza piena di libri. Sedette su una poltrona con accanto un possente cane. Parlava con voce decisa e contemporaneamente accarezzava l’animale. Con pochi tratti disegnò un ritratto molto affascinante delle neuroscienze in Russia. Emanava una grande tranquillità. Il contrario dell’impressione che mi fece Lotman».
Lotman era un linguista e soprattutto un semiologo.
«Prima di tutto era un personaggio incredibile: piccolo, con degli enormi baffoni, sprizzava energia da ogni dove. Era impressionante la vastità delle sue conoscenze. Mi parlò dei seminari di semiologia che teneva a Tartu e poi di Kolmogorov, secondo lui il più grande matematico del ventesimo secolo. E fu sempre Lotman che mi parlò di Pavel Florenskij. Non sapevo chi fosse. Ma avvertii nelle sue parole una spiccata ammirazione. Mi spinse a leggere questo grande filosofo, teologo e matematico».
Figura davvero unica, intendo Florenskij. A lungo ignorato, la sua opera principale — "La colonna e il fondamento della verità" — fu da noi pubblicata da Rusconi.
« Bisogna dare atto a quella casa editrice e soprattutto a Elémire Zolla di avere introdotto con straordinario intuito un filosofo allora del tutto sconosciuto in Italia».
Mi stupisce questo riconoscimento a Zolla, molto inviso ai marxisti degli anni Settanta.
« Non è per me un apprezzamento tardivo. Del resto, non fu soltanto Florenskij l’unica sua scelta editoriale felice. Autori come Marius Schneider, Guido Ceronetti, Simone Weil, Eric Voegelin. Giorgio de Santillana o anche Tolkien, del quale aveva imposto
Il signore degli anelli,
erano totalmente estranei all’egemonia culturale del marxismo».
Florenskij finì in un gulag e poi fucilato nel 1937. Fece in tempo a spedire delle lettere ai suoi familiari e amici. Tu cosa hai provato quando le hai lette?
« Angoscia e ammirazione; la tenerezza nei confronti dei figli, il desiderio di lasciar loro un’eredità spirituale e morale di grande spessore; la serenità e la lucidità con la quale si rivolgeva ai suoi cari nelle tremende condizioni di vita. Ancora oggi tutto questo è per me un insegnamento e un esempio ai quali devo molto».
Per un filosofo della scienza che cos’è la fede?
«Non so cosa sia, astrattamente, per i filosofi della scienza: per me è prima di tutto una forma di amore. Perché, come scrive Florenskij: fra coloro che si amano si squarcia la cortina dell’egoismo e della pretesa di autosufficienza».
Vivi la fede in cosa?
«Credo profondamente nell’integrità della persona, nel duplice significato della parola: nel senso di un intero, risultato dell’unione di materia e psiche, di corpo e spirito; dell’esigenza di aderire ai valori non solo proclamati ed esibiti a parole, ma praticati nella vita quotidiana e insegnati attraverso l’esempio».
Dostoevskij è stato forse il primo scrittore di cultura russa a vedere complicarsi l’immagine integra dell’uomo.
« Dì pure che rimette in discussione alcuni processi encefalici di cui erano assertori certi neurofisiologi. Ci dice che l’uomo non è una finestra aperta sul mondo. Delitto e Castigo ma soprattutto Memorie del sottosuolo sono delle magnifiche riflessioni sul pensiero inconscio. Non è un caso che Nietzsche veda in lui il vero scopritore dell’inconscio. Freud gli darà nobiltà teorica».
A proposito di psicoanalisi hai accostato Jung alla meccanica quantistica. Un fisico sarebbe sorpreso. Allo stesso modo di uno junghiano.
«Perché mai? C’è più di una ragione che rende plausibile l’accostamento. A cominciare dallo scambio di lettere che Jung ebbe con Pauli, il grande fisico che fu tra gli artefici della rivoluzione in ambito quantistico. Era un uomo di lucidità e chiarezza estreme».
Fu Jung a entrare in contatto con Pauli?
« Fu Pauli a rivolgersi a Jung. Grandissimo scienziato ma anche uomo psichicamente fragile. Aveva sposato una ballerina. Frequentava posti equivoci. Spesso finiva coinvolto in qualche rissa. Decise perciò di entrare in analisi. Jung, al di là della terapia, cominciò a interrogarlo sul suo lavoro. Capì che nella meccanica quantistica c’erano degli aspetti che lo affascinavano. Si trovò di fronte a una teoria scientifica nella quale la realtà è profondamente e inestricabilmente legata alla possibilità. In parole più semplici: la teoria quantistica non prevedeva più di determinare i fenomeni stessi, ma soltanto la loro possibilità, ossia la probabilità che succeda qualcosa».
Viene meno quello che nella meccanica classica è il rapporto causa ed effetto?
«Più o meno è così. Rispetto alla fisica classica fondata sull’ontologia dei fenomeni, la fisica quantistica si fonda sull’ontologia delle relazioni ».
E questo cosa comporta?
«Per quel che riguarda la meccanica quantistica, che il mondo della possibilità si intreccia col mondo della realtà, con il qui e ora».
E cosa c’entra Jung?
«Per Jung l’inconscio è il mondo del possibile che influenza la coscienza, cioè il mondo del reale. Grazie al lungo dialogo con Pauli, scrissero anche un libro insieme, Jung trasferì alcune intuizioni della meccanica quantistica alla relazione tra l’Io e il Sé».
Hai mai praticato analisi?
« No, mai. Ho un fratello, Fulvio, che è psicoanalista freudiano e credo che la sua attività abbia riempito del tutto ed esaurito il contributo della famiglia Tagliagambe all’analisi».
Sono più forti gli interessi scientifici o quelli religiosi?
«Sono molto attratto dal rapporto visibile-invisibile e questo vale tanto per la scienza quanto per la religione. Per molto tempo la logica ha equiparato l’illusione alla falsa credenza. I più avanzati studi odierni, occupandosi del rapporto tra logica e linguaggio quotidiano, hanno smentito una tale equiparazione».
Facci capire meglio.
« Nell’Otello di Shakespeare la proposizione che Otello credeva falsamente che Desdemona lo tradisse è vera. Ma se dico che Otello si illudeva che Desdemona lo tradisse, voglio significare non solo che tradiva ma che egli desiderava che lo tradisse. Le due proposizioni hanno un valore di verità diverso e non possono essere equiparate».
L’illusione ha un valore superiore alla falsa credenza?
« La prima è molto più ricca e conoscitivamente più feconda dell’altra».
Florenskij ha mirabilmente spiegato cosa sia un’icona. Una parola da tempo diventata di moda. Che sta a significare il successo di un personaggio pubblico. Le parole si possono stravolgere o mutare di significato. Ma conservano qualche tratto comune?
«No, le icone alle quali ci riferiamo oggi sono immagini vuote, pure finzioni, apparenze gonfiate dalla propaganda e da una retorica sempre più insulsa e insopportabile. Niente a che vedere con l’icona di cui parla Florenskij: vera e propria "teologia in immagine", "finestra sull’assoluto", che va ascoltata perché vi si manifesti l’infinito e che va quindi intesa come una rivelazione, grazie alla quale possiamo intraprendere un’ascesa verso l’invisibile, arricchendo così il nostro universo interiore».
Hai dedicato un libro a "Tempo e sincronicità" (Mimesis). Il presente sembra essere il solo verbo che conosciamo.
«Si vive sempre più nella catastrofe dell’immediatezza, cioè in un tempo senza memoria e progetto e dunque privo di spessore e prospettiva. Ed è un peccato perché il tempo non è solo lo svolgersi degli eventi, ma anche la capacità di dar loro un significato».
Forse il significato più recondito, come pensava lo stesso Jung, è nel senso da attribuire alla morte. Per te cosa rappresenta? La temi?
«Mentirei se dicessi di non temerla, ma cerco di smorzare questa paura pensando che di noi continua a vivere ciò che riusciamo a lasciare in eredità, in termini di affetti, sentimenti, ideali e anche pensieri e conoscenza, a chi rimane dopo di noi. Per questo cerco di rendere il più possibile produttiva questa mia terza età».
Si associa la " terza età" a una vecchiaia in cui la saggezza prevalga sull’intemperanza. È così per te?
« Quella saggezza cui alludi è rara da realizzare. Di solito l’attri-buiamo alla figura del maestro. Geymonat, che per me lo è stato, mi ha lasciato una bellissima e commovente descrizione: " Per quanto un individuo si ribelli contro la comunità, lo Stato, la famiglia, è difficile pensare che egli possa fare a meno di cercare fra il suo prossimo qualcuno da cui attendere una conferma al proprio giudizio. Questo qualcuno è il Maestro, che egli sceglie a sé medesimo e circonda di profondo rispetto e di sincera devozione". So che è difficile, soprattutto oggi imbattersi in una figura del genere. Ma se accade riteniamoci fortunati. Un Maestro scuote le nostre certezze e rompe i nostri limiti. In una società di commedianti è ancora il possibile che si intreccia con il reale».
https://spogli.blogspot.com/2019/02/il-manifesto-3.html
https://spogli.blogspot.com/2019/02/il-manifesto-3.html