martedì 12 febbraio 2019

Il Fatto 10.2.19
Dietro al Muro di Trump anche la star di Cuarón
Messico - Alla notte degli Oscar il 24 febbraio potrebbe non arrivare Jorge Guerrero, protagonista di “Roma”, uno dei tanti “straccioni” a cui gli Usa hanno rifiutato il visto
Jorge Guerrero: “Se si riuscisse a far leggere a qualcuno dell’ambasciata le lettere di invito agli Oscar, forse capirebbe la mia figura artistica e lo scambio culturale che è in atto tra le due nazioni”
di Alessia Grossi


Non ci sono soltanto le migliaia di centroamericani della carovana dei migranti a spingere alla frontiera del Messico con gli Stati Uniti. Pericolosi perché “trafficanti di droga”, secondo l’ultima campagna del Presidente Donald Trump. A chiedere di scavalcare il muro, quello che già c’è a Tijuana e quello che The Donald vorrebbe costruire, c’è anche Jorge Antonio Guerrero, Fermin, uno dei protagonisti del film Roma di Alfonso Cuarón, candidato agli Oscar 2019 con 10 nomination. L’attore messicano, classe ‘93, infatti, pare non sia persona gradita negli States, essendosi visto rifiutare per tre volte il visto di ingresso. Motivo per il quale Cuarón dovrà accontentarsi di portare – come già per i Golden Globes – al Dolby Theatre di Los Angeles il 24 febbraio un cast ridotto rispetto alle statuette che potrebbero essergli assegnate. Paradosso nel paradosso, visto che il lavoro racconta proprio il Messico col quartiere Roma di Città del Messico, con la sua miseria, le sue violenze e la sua disperazione.
Ma Guerrero non è certo l’unico “discriminato” della pellicola già vincitrice del Leone d’Oro alla 75esima Mostra del Cinema di Venezia. Ad essere diventata quasi più famosa di Trump – per le sue doti attoriali e per la sua storia – è la candidata agli Oscar come miglior attrice protagonista di Roma,Yalitza Aparicio, prima donna messicana dopo 17 anni, cioè dopo la nomination di Salma Hayek nei panni di Frida (Khalo), a contendersi la statuetta d’oro con volti del calibro di Lady Gaga o Melissa McCarthy. Ah, povero Donald: aivoglia a ripetere “America First”.
Di origine mixteca, Yalitza è passata dalle aule di campagna di Oaxaca, regione messicana attraverso cui proprio in questi giorni transita la seconda carovana di migranti e dove lei insegnava ai bambini della materna alla copertina di Vogue Messico. Come nelle migliori tradizioni dei provini, infatti, sua sorella maggiore, nel vederla afflitta dalle lotte sindacali per ottenere una cattedra fissa, le suggerisce di presentarsi a un casting segreto. Così, lei che per Cuaron è “una donna impressionante. Senza aver mai calcato un set cinematografico, il secondo giorno di riprese aveva già interiorizzato tutto il processo ed era entrata nel personaggio di Cleo”, ha raccontato il regista, ora è in odore di Oscar. Pensare che solo tre anni fa, Aparicio era una delle centinaia di abitanti a rischio povertà del municipio di Tlaxiaco: 40 mila residenti, 4 su 10 senza rendita fissa e un sindaco assassinato pochi minuti dopo aver giurato. Yalitza d’altronde conosce bene la violenza. Sua madre, Margarita, è un’indigena triqui originaria di San Juan Copala, una comunità stravolta dalle faide politiche. Lei e i suoi tre fratelli vivono in una colonia di Tlaxiaco, una ex pista d’atterraggio clandestina. Per tirare avanti nel tempo libero dopo le lezioni aiuta la famiglia a costruire pignatte. Ma un altro destino l’attende e non è quello della tratta di donne, come lei teme al sentir parlare di provino segreto. Yalitza supera le selezioni in città e parte per Città del Messico accompagnata dalla sua traduttrice Nancy Garcia, che nel film di Cuaron sarà Adela.
È tutto così assurdo che neanche lei ci crede: quando le dicono il nome del regista con cui avrebbe girato lo cerca su Google, non ha idea di chi sia, ma le foto che trova sono vecchie e allora torna a temere che l’uomo che ha davanti la stia ingannando: che si tratti di reclutamento di cammelli per il traffico di droga. Prova a scappare dal set, ma Cuaron la bracca: somiglia troppo alla donna che diventò la sua tata nella casa del quartiere Roma Sur, anche detto “La Roña”, dove il regista è tornato in questi giorni, per lasciarsela scappare. Perché è proprio qui che è iniziato tutto: nel sogno residenziale della borghesia messicana dei primi del 900, convertitosi – 18 anni dopo – nel quartiere bohemien della Rivoluzione, fino a diventare – dopo i crolli e l’abbandono post-sisma dell’‘85 la periferia degradata per antonomasia. Quella che Trump vuole cancellare dalla coscienza collettiva o far passare come fonte di ogni male, aizzandone l’ombra sul muro divisorio. Ma Jorge e Yalitza sono l’incarnazione della risposta alla domanda: “Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente? ”.