martedì 15 gennaio 2019

SPECIALE SU ROSA LUXEMBURG
Berlino, murales con una sua frase: «La libertà è sempre soltanto libertà di chi pensa diversamente»

il manifesto 15.1.19
Una vita intensa e troppo breve
La Rosa rossa 1919-2019. «Socialismo o barbarie», contro il militarismo e i nazionalismi. La biografia di Rosa Luxemburg
di Aldo Garzia


Vita breve, intensa, quella di Rosa Luxemburg.
Con alcune intuizioni teoriche che forniscono una lettura particolare del marxismo e delle conseguenze della rivoluzione russa del 1917. Infatti, prese posizione contro il revisionismo teorico di Eduard Bernstein ma fu anche critica rispetto al modello leninista di organizzazione del partito (troppo elitario, troppo per «quadri» d’avanguardia). Il che non impedì che al Congresso dell’Internazionale di Stuttgart del 1907 fu proprio Lenin a volerla fra i delegati cedendole un posto nella delegazione del Partito bolscevico.
Per Rosa Luxemburg, come per Gramsci, la rivoluzione doveva essere un processo di continua conquista di «casematte», di maturazione collettiva attraverso la strategia consiliare che avrebbe dovuto garantirne la democraticità. Ecco perché Lelio Basso, che studiò a lungo i suoi scritti, la definì esponente di un originale «socialismo libertario».
Rosa nasce a Zamość, Polonia russa, il 5 marzo 1871 da genitori ebrei. Il padre era un commerciante di legname. Quando ha appena due anni, la famiglia va a vivere a Varsavia. Una malattia all’anca la rende claudicante per tutta la vita. Al liceo entra in contatto con il gruppo clandestino Proletariat, di cui diventa militante. Nel 1889 espatria in Svizzera, perché ricercata dalla polizia. Si iscrive alla facoltà di Filosofia di Zurigo per poi passare a quella di Diritto e Scienze politiche. Si laurea nel 1897 con una tesi sullo sviluppo industriale della Polonia, redatta in un soggiorno a Parigi.
Entra in contatto con gli ambienti dei rifugiati politici russi e polacchi. Conosce Leo Jogiches che diventa suo compagno di lotta e poi di vita per un periodo. Gli anni di Zurigo sono quelli della formazione teorica e dell’impegno politico finalizzato soprattutto alla costruzione del Partito socialdemocratico polacco, successivamente trasformatosi in Partito socialdemocratico di Polonia e Lituania. Nel 1898 abbandona la Svizzera e va a vivere in Germania.
Lo stesso anno ottiene la cittadinanza tedesca. Milita da subito nell’ala sinistra della socialdemocrazia guidata da August Bebel, Si reca a Varsavia nel 1905, dove viene arrestata per la sua attività rivoluzionaria insieme a Jogiches. Riesce a tornare in Germania, dove partecipa a tutti i più importanti dibattiti nella Spd (il partito socialdemocratico), in particolare contro il militarismo e il nazionalsciovinismo che portano alla votazione in Parlamento dei crediti di guerra da parte dei deputati socialdemocratici con l’assenza di un’opposizione alla prima guerra mondiale.
Dal 1907 al 1914 insegna economia politica alla scuola di partito di Berlino. Durante la guerra, nonostante lunghi periodi di prigionia, non interruppe gli studi e la stesura dei suoi scritti. Nel 1916 è con Karl Liebknecht tra i fondatori dello Spartakusbund, il movimento spartachista che prendeva il nome dal gladiatore che aveva guidato la ribellione degli schiavi nell’impero romano. Da quel momento, con la fine di fatto della Seconda internazionale e la trasformazione assai moderata della socialdemocrazia tedesca, Luxemburg si impegna per la ricostituzione di una forza marxista rivoluzionaria che vedrà la luce proprio con la fondazione dello Spartakusbund che poi si scioglierà nel Kpd, il Partito comunista tedesco, nel 1918.
Quando scoppia la Rivoluzione russa del 1917, Rosa è convintamente al fianco dei bolscevichi. Ciò non le impedisce di avvertire i pericoli del sistema a partito unico e dall’abbandono della strategia consiliare dei soviet. Critica anche lo scioglimento dell’Assemblea costituente e la firma del trattato di Brest-Litovsk con cui la Russia esce dalla prima guerra mondiale. Lo fa nell’estate del 1918, dal carcere, dove trascorre la maggior parte del periodo tra il 1915 e il 1918. Nel pieno del tentativo della rivoluzione tedesca, viene assassinata il 15 gennaio del 1919 insieme a Karl Liebknecht (Leo Jogiches sarà assassinato nel marzo successivo) dai Freikorps, reparti militari agli ordini del governo di cui facevano parte pure i socialdemocratici: una tragedia. Rosa Luxembug aveva appena 48 anni.
La sua opera fondamentale è considerata L’accumulazione del capitale, apparsa nel 1913, prezioso contributo allo studio della politica imperialistica e coloniale dell’epoca. Il filosofo ungherese György Lukács considerava questo testo insieme a Stato e Rivoluzione di Lenin «le due opere fondamentali con le quali rinasce storicamente il marxismo moderno».
Gruppo di miliziani dei Freikorps che uccisero Rosa e Liebknecht
Bibliografia essenziale/Dall’«Accumulazione del capitale» alle lettere private
«Nel 1986 i riflettori dei cinema si accendono su Rosa Luxemburg con il rigoroso film di Margarethe von Trotta, interpretato da Barbara Sukowa e presentato a Cannes, ora visibile nella versione italiana su youtube, mentre verrà riproposto a Roma alla Casa del cinema il 21 gennaio, presente von Trotta. Dieci anni prima, nel 1976, in Italia veniva rappresentata la monografia teatrale «Rosa Luxemburg» di Luigi Squarzina e Vico Faggi. Ricca è la reperibilità di testi di Rosa Luxemburg: “L’accumulazione del capitale, edizioni Pgreco, 2010 (è il testo più famoso, un’analisi del colonialismo e del moderno capitalismo); “La rivoluzione russa. Un esame critico”, Massari editore, 2004; “Un po’ di compassione”, Adelphi, 2007 (la descrizione delle disumane condizioni carcerarie nel penitenziario di Breslavia); “Socialismo, democrazia, rivoluzione”, Editori Riuniti University press, 2018 ; “Riforma sociale o rivoluzione?” , Editore Prospettiva, 2009; “Lettere 1915-1918”, edizioni Pgreco, 2017; “Lettere di lotta e disperato amore”, Feltrinelli, 2019 (le missive dal carcere); “Scritti politici” (due volumi prefati e curati da Lelio Basso), Editori Riuniti Internazionali, 2012; “La lega spartachista” (il programma del gruppo neocomunista, a cura di Gilbert Badia), Pgrego, 2016. Di Lelio Basso, il socialista italiano che più di altri ha studiato la comunista polacco/tedesca: “Per conoscere Rosa Luxemburg”, Mondadori, 1970. (a. ga.)

il manifesto 15.1.19
Quando Il Manifesto ri-scoprì l’attualità dei Consigli
La Rosa rossa 1919-2019. Riconobbe il valore del partito ma sostenne che per la presa del potere vanno costruiti organismi per assumere la gestione della società, che non poteva essere assorbita solo dal partito o dallo Stato. La sua tematica «consiliare» - come poi quella di Gramsci - è stata tra i fondamenti della nostra storia. E oggi torna all’ordine del giorno
di Luciana Castellina


Che intrecci significativi suggeriscono gli anniversari, in particolare questi centennali, sessantennali, cinquantennali accavallati attorno al ‘68 e ‘69, che furono gli anni di un’insorgenza che induceva a riscoprire un marxismo più vicino alle domande del presente. Solo una settimana fa è stato naturale allacciare il ’59 della rivoluzione cubana e il Che al nostro sessantotto. E ora Rosa Luxemburg, che per noi fu, ancora una volta nel 68, una scoperta determinante. Perché noi non avevamo messo in discussione solo la linea del Pci e dei sindacati, ma lo stesso modo di essere di queste istituzioni della classe ormai largamente burocratizzate; così come la deriva autoritaria dell’Unione sovietica. Tutti temi che avevano spinto la grande Rosa a ricercare nuove soluzioni.
Dico scoperta della martire rivoluzionaria spartachista, perché nella cultura comunista ortodossa di questa marxista sempre un po’ eretica, che si azzardò a criticare Lenin ( che tuttavia continuò a definirla «un’ aquila») avevamo sempre saputo poco.
Ma nei fantastici anni ’60 l’Italia aveva cominciato ad aprirsi alle correnti marxiste maturate fuori dall’alveo ufficiale; e così anche Rosa giunse fra noi. Immediatamente insediandosi, come punto di riferimento essenziale, nel cuore del Sessantotto; e, naturalmente, de Il Manifesto.
A portarcela fu soprattutto Lelio Basso, questo singolare socialista di sinistra, che con la sua rivista «Problemi del socialismo» aveva già e non poco contribuito ad allargarci la testa. Lo fece pubblicando, con una sua introduzione, un illuminante volume di scritti di Rosa Luxemburg, che aiutò la ricerca che i compagni che poi dettero vita al Manifesto, Magri e Rossanda in particolare, erano già andati conducendo sulla tematica consiliare e sul rapporto spontaneismo/partito. Che è poi il tormentato problema della coscienza di classe: se nasca dalla e nella prassi della lotta, o se sia portata, e come, dall’esterno.
A provarlo basti sfogliare i numeri del Manifesto rivista e ritrovare un prezioso volume – «Classe, consigli e partito», quaderno n.2, pubblicato nel giugno 1974 dal nostro editore di riferimento, Alfani – che raccoglie scritti di Magri, Maone, Rossanda e un’intervista a Jean Paul Sartre.
Per Rosa Luxemburg la tematica consiliare era molto importante: costituiva la critica ai limiti del governo dei commissari del popolo in Russia senza tuttavia accettare l‘ipotesi del parlamentarismo borghese. A parte qualche frangia che aveva con qualche faciloneria pensato bastasse affidarsi alla mera spontaneità, noi fummo conquistati dall’ipotesi, delineata da Rosa Luxemburg, di costruire questa terza struttura, esercizio di un potere dal basso, capace di mediare fra partito e movimento e di riappropriarsi della gestione della società: i consigli per l’appunto.
Rosa vi aveva accennato anche nella sua critica al gruppo dirigente bolscevico, facendo notare che la scomparsa delle classi non rende di per sé univoche le opinioni e che dunque la soppressione delle libertà politiche non colpisce solo i nemici, ma si ritorce fatalmente contro la classe che la decide, perché si traduce in isterilimento della ricerca e nella burocratizzazione.
Rosa, in realtà, sebbene proprio di questo sia stata rimproverata dall’Internazionale, spontaneista non è stata mai, né mai ha negato l’importanza di un’avanguardia organizzata, il partito, giacché la classe ha bisogno – ha sempre sostenuto – di una strategia unificante. E però anche di arrivare a prendere il potere avendo costruito organismi capaci di assumersi la gestione della società, che non poteva essere tutta assorbita dal solo partito o dallo stato.
È proprio a questa ipotesi consiliare che anche Gramsci lavorò già ai tempi dell’Ordine Nuovo, assai più esaurientemente nei «Quaderni dal carcere», riprendendo l’idea luxemburghiana di dar vita a forme permanenti di democrazia organizzata, espressione di un potere che via via si sostituisce a quello storicamente espropriato dallo stato. I Consigli di fabbrica (e poi quelli di Zona) che cominciano a sorgere nel ’69, pur con tutti i loro limiti, a questa prospettiva intendevano rispondere: organismi politici e fuori dalla dimensione puramente sindacale, non istituiti per gestire la fabbrica, ma anzi per contestarne il suo modello di produzione.
Il Pci, e il sindacato, non prestarono attenzione alle potenzialità che quell’esperienza aveva sollecitato, così perdendo la grande occasione di fondarvi la propria rivitalizzazione. Noi troppo deboli per andar oltre un pur ricco contributo alla riflessione e a qualche significativa esperienza pratica. Oggi però la sua attualità ci si ripresenta con forza, proprio per affrontare la crisi grave della democrazia rappresentativa che viviamo non solo in Italia.
Per dare una risposta positiva alla richiesta di forme di democrazia diretta che salgono dalla società, ma senza cadere nella demagogia del ricorso ai referendum, o nella democrazia digitale ridotta ad un non meglio identificato «clic», oppure fermandoci ad evocare i meriti della democrazia rappresentativa, che senza adeguate forme di partecipazione, perde sempre più di senso. Né richiudendosi nello sterile confronto su partiti sì partiti no, bensì attrezzandosi a costruire gli strumenti suggeriti da Rosa e poi da Gramsci per impedire la loro involuzione autoreferenziale e dare concretezza all’idea della rivoluzione come un processo che muove dalla società.

il manifesto 15.1.19
Frigga Haug
«Provare a essere realisti e rivoluzionari»
La Rosa rossa 1919-2019. Intervista a Frigga Haug, della Fondazione Rosa Luxemburg: «Lei mostra la crisi e la guerra come catastrofi che contengono anche la possibilità del cambiamento». «Non era femminista, ma ha punti essenziali per un movimento di liberazione delle donne, come l’auto-attivazione degli sfruttati a partire dalla loro esperienza»
di Beppe Caccia


BERLINO Nata nel 1937 nel bacino della Ruhr, Frigga Haug è una delle sociologhe e filosofe che, dalla fine degli anni Sessanta in poi, hanno lasciato il segno nei passaggi cruciali del dibattito della sinistra e dei movimenti in Germania. Lo ha fatto nel superamento dell’ortodossia marxista, nel continuo contributo al pensiero e alla pratica del femminismo, nel campo della psicologia critica. Vicina alla Linke e componente del Comitato scientifico della Rosa-Luxemburg-Stiftung, si può dire che la sua elaborazione sia sempre stata in costruttivo dialogo con l’opera della rivoluzionaria ebreo-polacca.
Sei l’autrice che più di chiunque altro ha valorizzato il concetto luxemburghiano di “realismo rivoluzionario”. Puoi riassumerlo qui di nuovo? Come pensi sia possibile evitare che il richiamo al “realismo” diventi cinico adattamento all’esistente e quello alla “rivoluzione” pura fantasia ideologica?
Luxemburg lo definisce come rottura con ogni idea precedente di politica. Dà questo nome alla propria politica, forzando la contraddizione in un solo concetto e mettendola in tensione. Critica, al tempo stesso, i riformatori sociali che si concentrano solo sul miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori e quelli che lottano unilateralmente per la rivoluzione in nome di un’altra, futura società. Se una politica socialista non fa delle condizioni di vita della classe operaia il suo punto di partenza, cioè se la situazione concreta della classe viene scavalcata con utopica esuberanza, la prospettiva socialista rimane una pura illusione. La politica socialista ha quindi bisogno tanto della lotta per migliorare le condizioni di vita, quanto della prospettiva di una società alternativa. Il punto cruciale per la Luxemburg è «come» connettere realpolitik e prospettiva rivoluzionaria. In linea generale, la sua proposta pratica è dare ai lavoratori la possibilità di plasmare la loro società, di governarla. È da qui che il contesto del suo pensiero politico può essere decifrato. La politica diventa «politica dal basso», cioè determinata dall’idea che sono gli stessi lavoratori che devono prendere in mano la società. Questo è il suo incondizionato punto di contatto con i nuovi movimenti sociali, specialmente quelli femministi.
l tuo seminale volume del 2007 non è uno studio sul ruolo di Rosa Luxemburg nella storia del movimento operaio tedesco, né una sua biografia. Ma si concentra su alcuni nodi di quella che qualifichi come “l’arte della politica” della rivoluzionaria ebreo-polacca. Che cosa intendi con questa definizione? In che misura il riferimento all’ “arte” include quello a “poiesis” e “praxis”?
Descrivere la sua politica come arte non significa rinviare alle «belle arti» e contendere un posto in questo campo. Ma intendere la politica come un’opera che ha bisogno di studio, di senso del cambiamento e di fantasia. Un forte investimento intellettuale, capace di comprendere i rapporti di forza, e al tempo stesso di intuire in modo che il potere possa servire al benessere di chi sta in basso, in modo tale che le cose non rimangano tali e quali sono. Rosa Luxemburg pretende una politica che si adoperi per abolire se stessa come attività specialistica, così come i buoni insegnanti non vogliono che gli alunni rimangano tali, ma insegnano imparando essi stessi e trasformando gli alunni in insegnanti. In questo modo la politica deve rivedere criticamente le esperienze della storia umana e anticipare altre possibilità. Deve fondarsi sulla resistenza contro l’ordine dominante, e sull’accordo per l’istituzione di un nuovo ordine. Mostra la crisi e la guerra come catastrofi e, allo stesso tempo, vede come queste immani distruzioni dell’ordine tradizionale contengano anche la possibilità del cambiamento. Questa visione rende necessario individuare quali siano le risposte sbagliate che si danno a domande familiari, ad esempio se si è pro o contro il Parlamento, perché non pensa in termini di semplici opposti.
In questo momento “Ni Una Menos” è forse l’unico movimento globale. Non a caso è un movimento femminista. Sebbene Rosa Luxemburg non abbia prodotto specifici scritti sulla questione, tu hai sempre insistito sulla rilevanza del suo contributo per i movimenti delle donne. Come può il suo pensiero contribuire a questa nuova ondata femminista?
Rosa Luxemburg non ha scritto molto sulle donne. Poco rispetto al contributo della sua amica Clara Zetkin. Certo ha denunciato la «vita familiare filistea» della Germania, e ha descritto le donne proletarie come «le più povere tra i poveri e prive di diritti tra i senza-diritti», ma è difficile pensare a lei come femminista. Vi sono tuttavia, nel suo pensiero politico, punti essenziali di sostegno per un movimento di liberazione delle donne. Luxemburg insiste molto sull’auto-attivazione delle masse sfruttate, sul loro auto-sviluppo a partire dalla propria esperienza, in breve sul loro apprendimento dalla prassi collettiva. Non è forse un’indicazione preziosa per il movimento delle donne? Anche qui si tratta dell’autoemancipazione. Sono sempre stata convinta che sacrificare se stessi sia un atto e non un destino. Perché noi stessi portiamo spesso dentro di noi il dominio che vogliamo eliminare. Le donne devono prendere il loro destino nelle loro mani. La forza di cambiare la società patriarcale sorgerà solo dall’azione delle donne stesse. È questa una lezione ancora valida.
Come si porrebbe infine oggi Rosa Luxemburg di fronte al “ciclo politico reazionario” che sembra sopraffarci?
Lei stessa si è trovata in uno stato di profonda disperazione quando la classe operaia internazionale non si unì contro la guerra, ma ognuno appariva pronto a combattere solo per la propria «patria». Ma – con «ero, sono e sarò» – affermò che la resistenza al dominio avrebbe permesso alle persone di rendere sostenibile la propria società. La crescita delle destre non può che essere contrastata in questo modo ad ogni livello, attraverso un rinnovamento critico e autocritico degli strumenti del pensiero.

il manifesto 15.1.19
La strage degli spartachisti e l’ombra della guerra civile su Weimar
La Rosa rossa 1919-2019. Cento anni fa, colpendo Liebknecht e la Luxemburg i controrivoluzionari tedeschi non colpivano solo le figure fisiche di due prestigiosi capi rivoluzionari, ma il patrimonio ideale e politico che in essi si era incarnato
di Enzo Collotti


A cento anni dall’uccisione di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg ad opera di soldati controrivoluzionari con la connivenza di una parte della socialdemocrazia tedesca, non è spenta la memoria della guerra civile che dilaniò con il movimento operaio tedesco il movimento operaio internazionale. L’ombra di questa guerra civile si allungò sulla repubblica di Weimar fino alle soglie del potere nazista.
Colpendo Liebknecht e la Luxemburg i controrivoluzionari tedeschi non colpivano solo le figure fisiche di due prestigiosi capi rivoluzionari, ma il patrimonio ideale e politico che in essi si era incarnato. Con essi moriva la Seconda Internazionale che era naufragata con la sua impotenza dinnanzi all’esplosione della Prima guerra mondiale, lasciando senza guida e senza orientamento milioni di uomini e donne che negli ideali dell’antimperialismo, dell’antimilitarismo e della solidarietà internazionale avevano dato vita tra la fine dell’Ottocento e la prima decade del Novecento ai grandi movimenti di massa per il suffragio universale e l’affermazione dei diritti socialii.
Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg rappresentavano con la Lega Spartachista il tentativo di resuscitare un movimento rivoluzionario tra le rovine della guerra e le prospettive aperte dalla rivoluzione russa di ottobre. La lunga solitaria battaglia condotta da Liebknecht contro il voto ai crediti di guerra della socialdemocrazia tedesca ne fece il leader naturale dell’opposizione alla guerra e di un’alternativa alla politica della socialdemocrazia.
Liebknecht continuò ad essere un uomo solo anche nei mesi finali della guerra quando il malcontento serpeggiava tra grandi masse popolari, al fronte e dietro il fronte. Ma le grandi masse in rivolta non volevano la rivoluzione, volevano più semplicemente la fine della guerra che aveva isolato la Germania e ne aveva costretto alla fame e all’indigenza la popolazione.
Prima ancora che la loro uccisione ne facesse martiri e simboli della rivoluzione tradita, Liebknecht e la Luxemburg furono incessanti promotori della critica alla subalternità della socialdemocrazia alla politica di classe della borghesia prussiana e delle forme di repressione esercitate contro le minoranze di opposizione. Soprattutto la Luxemburg fu sensibile agli stimoli che provenivano dalla rivoluzione russa del 1917, della quale percepì precocemente la natura di prodromo della rivoluzione mondiale e il germe di una nuova Internazionale.
Fu proprio l’esplosione della rivoluzione in Russia che sollecitò Liebknecht e la Luxemburg ad accelerare la spinta rivoluzionaria in Germania nella duplice ottica di sottolineare la solidarietà con il movimento in Russia ed inserire la Germania in un processo rivoluzionario continentale. In realtà la storia ha dimostrato che mancavano le premesse per un processo di questo tipo; non solo in Germania ma anche altrove in Europa il movimento operaio si mosse in direzioni diverse.
Liebknecht, grande agitatore politico e tenace combattente contro la guerra, e Rosa Luxemburg, tra gli ultimi teorici del marxismo, furono travolti dal loro estremo tentativo di porre la minoranza spartachista alla testa della rivoluzione in Germania.
Karl Liebknecht non fu solo uno straordinario tribuno popolare, era, come la Luxemburg, un grande intellettuale, un grande protagonista del binomio tra lotte parlamentari e lotte di massa, bersaglio preferito per questo dei conservatori prussiani quanto amato e quasi venerato nei ceti popolari, che lo consideravano lo scudo dei loro interessi. Prima ancora che come il fondatore del Partito Comunista tedesco Liebknecht, fu vissuto nella memoria popolare come il vindice delle ingiustizie e dei soprusi.
A cento anni dall’uccisione di queste due straordinarie figure dalla loro eredità discende un patrimonio di idee e un metodo di ricerca che il tempo non ha cancellato e che costituiscono tuttora un obiettivo a cui guardare nella lotta per il raggiungimento di una società più giusta.

il manifesto 15.1.19
Sinistra tedesca, scomode verità
La Rosa rossa 1919-2019. Cento anni dall'uccisione di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht. La Linke ricorda la nascita della Kpd, ma s’infuria la Cdu: «Omaggio ai nemici della democrazia». La Spd ora ammette: «Nella morte di Luxemburg e Liebknecht lo zampino del nostro Noske»
di Jacopo Rosatelli


«Orgogliosamente, ma non acriticamente, ci inseriamo ancora oggi nella tradizione della Kpd». Con un tweet il co-segretario della Linke, Bernd Riexinger, ricordava lo scorso primo gennaio il centenario della nascita del partito che Rosa Luxemburg, la più illustre nel gruppo fondatore insieme a Karl Liebknecht, avrebbe voluto chiamare «socialista» e non «comunista» per non appiattirsi sul modello bolscevico. Proprio Rosa è la figura che il partito tedesco «a sinistra della socialdemocrazia» ha eletto a nume tutelare, dedicandole la propria fondazione culturale.
È dunque innanzitutto il ruolo che ebbe la dirigente spartachista nella sua creazione a consentire alla Linke di riconoscersi nella storia della Kommunistische Partei Deutschlands, difficile e controversa non solo per gli sviluppi del secondo dopoguerra nella Ddr, ma già per gli avvenimenti della Repubblica di Weimar.
L’orgoglio della Linke sta nel richiamarsi a un partito nato per iniziativa di chi aveva lottato contro la guerra e che, una volta concluse le ostilità, mirava a eliminarne le cause strutturali che l’avevano generata, chiedendo l’esproprio delle industrie militari dalle mani dei Krupp e dei Thyssen. La stessa determinazione messa nel combattere il nazismo, prima e dopo la sua presa del potere: l’altro legato positivo della Kpd che rivendicano, oggi, Riexinger e compagni. I quali, tuttavia, si confrontano con questo passato criticamente, come dimostrato nel convegno svoltosi l’8 gennaio proprio nel luogo in cui, cento anni fa, il partito comunista venne fondato: l’antico parlamento prussiano, oggi camera dei deputati del Land di Berlino.
Un’occasione non celebrativa, ma di riflessione, che ha comunque indispettito molto i democristiani della Cdu: «Un omaggio ai nemici della nostra democrazia e della società libera», secondo il capogruppo cittadino Burkard Dregger, che si è lanciato nell’accusa di «infedeltà alla Costituzione» contro i principali esponenti della Linke berlinese, «rei» di volere il ritorno in mano pubblica di molte proprietà immobiliari la cui privatizzazione degli scorsi anni ha fatto impennare gli affitti della capitale.
Ma nell’ex parlamento prussiano non c’è stato alcun «omaggio», con buona pace della Cdu. Relatori come lo storico dell’Università di Amburgo Marcel Bois hanno sottolineato l’involuzione stalinista della Kpd dalla metà degli anni ’20 sotto la direzione autoritaria di Ernst Thälmann (morto poi in un campo di concentramento), che condusse all’errore fatale della linea di scontro frontale con i socialdemocratici della Spd, culminata nella teoria del social-fascismo.
Drammatiche divisioni del passato, non certo imputabili esclusivamente ai comunisti, che possono essere di monito, oggi, di fronte al consolidarsi della destra nazionalista di Alternative für Deutschland. Non poteva non essere evocata anche Rosa Luxemburg, alla quale in questi giorni sono dedicati ulteriori convegni (segnalati al termine dell’articolo), oltre alla annuale marcia commemorativa sino al Memoriale dei socialisti di Lichtenberg: è dalla sua sorgente – è stato ribadito – che la Linke trae «il valore della libera autodeterminazione delle masse».
Una figura, quella della rivoluzionaria e pensatrice spartachista, con cui ha molta più difficoltà a relazionarsi la Spd, e per evidenti ragioni: era socialdemocratico il commissario del popolo Gustav Noske a cui rispondevano i Freikorps che uccisero lei e Liebknecht. Responsabilità a lungo taciuta dalla dirigenza del partito, che solo ora inizia ad essere ammessa: «Che ci sia lo zampino di Noske è probabile», ha riconosciuto di recente la segretaria Andrea Nahles.
Per lo storico Karl Heinz Roth, intellettuale di spicco dell’operaismo tedesco, l’elaborazione autocritica da parte della Spd dovrebbe spingersi molto oltre, arrivando a mettere in discussione Friedrich Ebert, capo del governo provvisorio nel novembre ’18 e poi primo presidente della Repubblica di Weimar. A lui è intitolata la fondazione culturale del partito socialdemocratico. «Ebert – sostiene Roth in un’intervista al magazine storico della Zeit dedicato alla ’rivoluzione tedesca’ – non tolse il potere alle vecchie élite. Agì senza testa, senza strategia, e creò egli stesso le condizioni per la successiva distruzione della democrazia».
Una tesi che non può trovare spazio nell’attuale narrazione ufficiale su quel convulso periodo, anche se comincia a farsi largo un’interpretazione meno unilaterale di un tempo. Un esempio viene dalle parole, prudenti ma significative, pronunciate dal socialdemocratico presidente della Repubblica Frank-Walter Steinmeier nel discorso solenne al Bundestag per il centenario del 9 novembre 1918, nascita del nuovo stato democratico sulle ceneri dell’ordine monachico del Reich sconfitto: «Certo è che contro il tentativo della sinistra radicale di impedire con la violenza le elezioni per l’assemblea costituente i commissari del popolo guidati da Ebert dovettero opporre resistenza.
Tuttavia non c’era in alcun modo ragione di lasciare praticamente mano libera ai Freikorps nazionalisti. Vennero uccisi in molti, fra di loro anche Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht. Oggi vogliamo commemorare anche le molte vittime di quelle giornate». Siamo lontani da un’impossibile sconfessione di un «padre della patria» e icona socialdemocratica come Ebert, ma va registrata una prima, timida e ancora non sufficiente problematizzazione del ruolo che ebbe il suo governo provvisorio, insieme a una sorta di onore delle armi ai caduti della «sinistra radicale». Tutt’altro che pacifico, però, è che, come sostenuto da Steinmeier, i rivoluzionari comunisti volessero (e potessero) davvero impedire con la violenza lo svolgimento delle elezioni, alle quali, come è noto, Luxemburg avrebbe voluto che la Kpd si presentasse. Ma, come altre volte le capitò, rimase in minoranza, e il partito decise per la non partecipazione. Confidando, fra i dubbi di Rosa, in una via diversa che conducesse alla repubblica socialista.
Comizio di Karl Liebknecht a Berlino nel 1918
Quattro iniziative in Germania/«Non piangiamo il suo cadavere, celebriamo la sua vita»
Sono tantissime le iniziative, in tutta la Germania, per ricordare Rosa Luxemburg, il suo assassinio e quello di karl Liebknecht e il bagno di sangue degli spartachisti, insieme al contesto e agli eventi di cento anni fa. «Non piangiamo il suo cadavere, celebriamo la sua vita»: questo lo slogan scelto dalla fondazione che porta il suo nome per designare la serie di incontri dedicati alla dirigente spartachista. Uno dei principali, il convegno di studi sull’attualità del suo pensiero tenutosi a Berlino il 10 gennaio, presenti Paul Mason, autore di Postcapitalismo  (pubblicato in Italia da Il Saggiatore), e la docente della London School of Economics Lea Ypi. Sempre nella capitale, due giorni dopo, un lungo tributo attraverso parole, video, rappresentazioni sceniche nell’evocativa cornice del centro culturale Bethanien di Mariannenplatz, luogo-simbolo per la storia della sinistra alternativa e rivoluzionaria tedesca, a cui hanno preso parte la saggista Daniela Dahn e la co-segretaria della Linke Katja Kipping. A Monaco, sul palco del Teamtheater, varie giornate di letture sulle «Donne nella rivoluzione 1918/19», mentre in diverse città sta facendo tappa uno spettacolo su Luxemburg realizzato dalla compagnia teatrale Portraittheater di Vienna, così come non si contano le proiezioni speciali del film Rosa L. del 1985 di Margarethe von Trotta, che valse alla protagonista Barbara Sukowa il premio come miglior attrice al festival di Cannes. A fine mese, l’inaugurazione della mostra «Rosa Luxemburg – una vita per l’ideale socialista» a Stoccarda, nella sede della confederazione sindacale unitaria Dgb, visitabile sino al 15 marzo. (j.r.)

Corriere 15.1.19
«I neri meno intelligenti». Bufera sul Nobel Watson
Lo studioso del Dna parla di «inferiorità genetica». Il Cold Spring Harbor Laboratory chiude i rapporti
di Anna Meldolesi


Vorremmo poter salvare la fulgida bellezza della doppia elica dalla spirale di autodistruzione in cui è caduto chi l’ha scoperta. Ci piacerebbe liquidare l’ultimo scandalo come un incidente o come un’imboscata mediatica, tesa a un uomo anziano e malato.
Ma la triste verità è che nemmeno gli ammiratori più ferventi di James Watson sono riusciti ad abbozzare una linea di difesa dopo che lo scienziato ha ribadito davanti alle telecamere di ritenere che i neri siano geneticamente meno intelligenti dei bianchi.
Il documentario che lo ha messo definitivamente nei guai, spingendo il laboratorio di Cold Spring Harbor a chiudere ogni rapporto, si intitola «Decoding Watson». Sarà in vendita su Amazon a febbraio, ma i resoconti di chi lo ha visto non sembrano lasciare spazio ai dubbi.
Quando gli chiedono se abbia cambiato idea sul legame tra intelligenza e razza, dopo le avventate dichiarazioni del 2007, il premio Nobel risponde prontamente di no. Dice che gli piacerebbe credere che le influenze ambientali contino più delle differenze biologiche, ma il divario di prestazioni intellettuali tra bianchi e neri ha basi genetiche.
Divario
Secondo lo scienziato il divario di prestazioni intellettuali avrebbe basi genetiche
Watson tentenna un attimo prima di chiudere la frase, forse soppesa le conseguenze, ma non si tira indietro. Ripropone le vecchie tesi, senza aggiungere nulla di nuovo. Chissà se Jim l’onesto (gli piace definirsi così) ha letto il lavoro di quell’altro Jim che di cognome fa Flynn. Analizzando i punteggi del QI in giro per il mondo, questo studioso neozelandese ha scoperto che i valori sono andati crescendo col passare del tempo. Segno che lo sviluppo sociale ed economico può liberare il potenziale cognitivo delle persone e delle popolazioni.
Certo, la genetica dell’intelligenza è complessa e ancora in buona parte da decifrare. Ora sappiamo anche che tra il Dna e l’ambiente c’è spazio per un’altra forza, che viene chiamata epigenetica. Ma il mistero più grande forse è umano più che scientifico.
Com’è possibile che il gusto per le provocazioni politicamente scorrette possa far deragliare una mente brillante come quella di Watson? Le tante sparate che ha collezionato nel corso degli anni suggeriscono che la risposta non sia da cercare soltanto nella vecchiaia. La speranza adesso è che la voglia di contrastare certi pregiudizi possa andare oltre le colpe di Watson, perché il razzismo è un problema ben più diffuso. E che le critiche all’uomo non facciano dimenticare i meriti dello scienziato che è stato.

Corriere 15.1.19
Filosofia
Ritratto inatteso di Socrate, sapiente maestro di ribelli
In «Partorire con la testa» (Marsilio) Dorella Cianci ragiona sulla maieutica e fa emergere lati meno noti del pensatore greco, anche al di là della versione platonica
di Franco Manzoni


Mitico parto
L’immagine della verità tirata fuori dalla mente richiama Zeus che genera la dea Atena dalla testa

Una persistente e densa immagine mentale in evoluzione. Mito e raziocinio ruotano fra la tecnica dell’anamnesi e gli aspetti terapeutici della forma dialogica verso la scoperta del sé nascosto nell’inconscio, sorpreso a ragionare con reminiscenze primordiali. Tant’è che oggi si trovano a confluire sulla genesi del pensiero differenti discipline: pedagogia, storia, antropologia, psicoanalisi, filosofia, retorica, teologia. Con analisi accurata delle fonti dall’antichità al Medioevo, un inatteso Socrate, non più esclusivamente «controllato» dalla versione platonica, scopriamo ora nel volume Partorire con la testa. Alle origini della maieutica di Dorella Cianci (Marsilio).
Nata a Cerignola (Foggia) nel 1984, filologa classica, docente universitaria, l’autrice ritiene che Socrate sia passato alla storia come filosofo grazie alla volontà dall’allievo Platone. È sufficiente leggere fra le righe dei documenti. Una di queste prove si trova non a caso in un dialogo platonico, il Menone. Un giovane schiavo, che credeva di non avere dubbi, dopo l’incontro con Socrate non ha più certezze. Anzi, il ragazzo viene indotto a ricercare il sapere, perché si trova in uno stato di fame della conoscenza.
Socrate è davvero un maestro di parto, un’abilissima ostetrica. Da dove arriva l’idea di generare senza utero se non dal mito? È noto come Atena, dea della sapienza, fosse la figlia prediletta di Zeus, nata dalla testa del padre, aiutato da Efesto che gli spaccò il cranio in due. La potenza simbolica dei miti è ineluttabile nella cultura classica. Giulio Guidorizzi, grecista di chiara fama, sottolinea nell’illuminante prefazione: «Nulla nasce senza dolore e rottura. Questa è in definitiva la natura della maieutica socratica; …a poco a poco, una nuova idea viene al mondo e con essa un nuovo modo di essere cresce nella mente di una persona, che alla fine ne viene mutata fondamentalmente». Senza dubbio la teoria socratica parte dall’assunto che la verità esiste già nella mente di una persona. Siamo nel campo dell’inconscio. Tocca al maestro, induttore di idee e non solo levatrice, far emergere la coscienza di sé, quando ancora l’allievo giace in uno stadio d’inconsapevolezza.
Platone attribuisce al comico Aristofane la maggiore responsabilità per la condanna a morte di Socrate nel 399 a. C. È vero, nelle Nuvole, commedia rappresentata nel 423, Socrate viene trasformato in un buffo manichino, maschera ridicola che si arrabbia nel caso qualcuno gli faccia abortire delle idee, un ateo che rigetta la religione olimpica. È il segno che Aristofane testimonia l’opinione dell’uomo della strada, mentre il pubblico ride del «supremo corruttore dei ragazzi». Nessuna colpa, quindi, del comico per la condanna decisa contro il filosofo dopo più di vent’anni dall’allestimento teatrale. La questione maieutica in Socrate nasce dall’esigenza di proporre una pedagogia nuova. Chi esce dalla sua scuola è un ribelle pronto a demolire i valori etici dell’educazione tradizionale. Per questo Socrate deve morire.

Corriere 15.1.19
Un saggio di De Bernardi
Il fantasma perpetuo del fascismo
di Alessandra Tarquini


Perché nel dibattito pubblico ricorre la percezione di un riapparire del fascismo? Alla domanda risponde Alberto De Bernardi nel libro Fascismo e antifascismo (Donzelli, pagine 176, e 17), che offre una grande lezione di storia contemporanea. De Bernardi ricorda che di pericolo risorgente parliamo da tempo: era «ritorno del fascismo» il centrismo di De Gasperi e di Scelba, così come il tintinnar di sciabole del centrosinistra o anche il «fanfascismo» nei primi anni Settanta; furono definiti fascisti Bettino Craxi e Silvio Berlusconi.
Non si è trattato solo di polemiche politiche: sin dalla fine della guerra, intellettuali di diversa provenienza hanno individuato un fascismo persistente contrapposto all’antifascismo. Di fatto, fascismo e antifascismo sono diventate categorie generiche: «due archetipi metastorici del lessico politico». Così queste parole hanno perso il loro senso, come mostrano la discussioni di oggi.
De Bernardi ricorda che il recente sovranismo ha ben pochi punti di contatto con l’idea di nazione della prima metà del Novecento. Lo stesso ritorno della xenofobia è espressione di un’autodifesa identitaria e non certo di teorie sulla superiorità della razza ariana. Il razzismo italiano degli anni Trenta fu il prodotto della volontà di creare un uomo nuovo, non certo del tentativo di difendersi dalle ondate migratorie o da trasformazioni dell’economia.
Ma soprattutto, mentre la crisi degli anni Venti derivò dall’incapacità dello Stato liberale di integrare le classi subalterne, quella attuale sembra il prodotto della sconfitta della politica. Il regime totalitario fascista ha affermato il primato della politica sulle altre espressioni dell’esistenza, producendo una nuova modernità rivoluzionaria, alternativa a quella emersa dalla Rivoluzione francese. Oggi assistiamo alla diffusione di una concezione non mediata dei rapporti tra masse e Stato. In una società aperta e multiculturale che ha eroso i loro redditi, le classi medie mostrano una sfiducia radicale nella possibilità di cambiare il mondo.
La storia non si ripete. Ecco la lezione di questo libro che richiama uno degli storici più importanti del Novecento: l’antifascista Marc Bloch scrisse che la storia è irreversibile. Un invito a capire la specificità del tempo.

Repubblica 16.1.19
La diplomazia del salotto
Salvini a cena con il Giglio magico e i fan del patto contro i 5stelle
Stasera l’evento dell’associazione "Fino a prova contraria" con Boschi e Carrai
di Goffredo De Marchis


La cena per farli conoscere, annusare, vedere se son rose si tiene stasera al ristorante romano La Lanterna. Alla stessa tavola si siederanno Matteo Salvini e un gruppo di renziani del Giglio magico: Maria Elena Boschi, l’amico di gioventù Marco Carrai, Francesco Bonifazi e il presidente della Fondazione Open Alberto Bianchi. C’è dunque un terreno di confronto possibile tra la Lega e il Pd che si riconosce in Renzi?
Da tempo è partito un tam tam che tende a ridurre le distanze, a collegare i puntini che potrebbero far incrociare le strade del ministro dell’Interno ed dell’ex premier. Li ha disegnati, per l’evento di oggi, Annalisa Chirico, presidente dell’associazione Fino a prova contraria, movimento garantista per la giustizia che ha invitato anche un parterre di magistrati di tutte le aree, altri due ministri leghisti (Bongiorno e Fontana), ex Guardasigilli come Paola Severino, gli imprenditori Boccia, Tronchetti Provera, Cairo e Montezemolo, politici di Forza Italia (Giorgiò Mulè) e potenti sempiterni come Gianni Letta.
Insomma, mezzo mondo tranne i 5 stelle. Perché l’obiettivo politico della scuola di pensiero che spera in nuove geometrie è tagliare fuori Di Maio e compagnia.
Il governo del buonsenso, dei Sì riuscirebbe ad amalgamare Salvini e Renzi? Sembra una boutade ma per esempio il Foglio ha contato proprio ieri tutti i punti su cui i due leader sarebbero d’accordo. Il Sì alla Tav, il Sì alla Tap, le grandi opere, il taglio delle tasse, le trivelle, i termovalorizzatori, le politiche per le imprese. Non basta per un governo, ma è la base di un fantascientifico, per ora, programma comune. O meglio, di una convergenza anche temporanea in caso di crisi del governo e di necessità di tenere viva la legislatura prima del ritorno alle urne. Chirico è amica di Renzi, ma adesso anche di Salvini, con cui ha raccontato che «va a cena per farsi compagnia nelle sere solitarie». Chirico sussurra ai due leader: «A Renzi dico che deve uscire dal Pd, perché è il suo più grande nemico. Credo che adesso lo pensi anche lui. A Salvini che deve diventare il leader del buonsenso, lasciarsi alle spalle il sovranismo folcloristico e arruffone e diventare il capo di una grande contenitore riformatore. Questo in carica è il governo del non-senso».
Cosa sappiamo del rapporto tra i due Mattei? Che se le danno di santa ragione sui social, nei comizi, nelle interviste ma poi si scambiano messaggini sui cellulari e spesso si sono consultati sulle mosse nei rispettivi campi. Che il vero grande avversario di Renzi e del renzismo sono i grillini. Certo, anche Salvini ma meno. Il ministro dell’Interno non risparmia mai colpi al Pd renziano, dai migranti all’Europa. Sono molto diversi, forse inconciliabili. Però stasera quei mondi lontani si siedono allo stesso tavolo. Succedeva anche nel salotto di Maria Angiolillo, dove secondo Bruno Vespa qualche governo è nato e qualcuno pure caduto. «Ma io non sono la signora Angiolillo. Non ho niente di salottiero — si ribella la Chirico — .
Sono una radicale che come Pannella dice: fai quel che devi, accada quel che può». Anche che un giorno i nemici di oggi diventino gli alleati di domani?
Fatto sta che questa strana cena capita alla fine di un periodo di enorme tensione tra gli alleati di governo, Carroccio e M5S. Molti pronosticano una vita breve al governo gialloverde. E il dopo è veramente una terra incognita, per i numeri attuali in Parlamento e per la legge elettorale molto proporzionale. Anche il tema portante della serata sembra studiato apposta per dividere Salvini e Di Maio.
Processi più veloci e non una prescrizione infinita, giustizia rapida come strumento per la crescita del Pil. La presenza di Salvini è confermata nella sua agenda ufficiale, quella dei renziani è sicura.

Repubblica 16.1.19
La democrazia e i suoi eversori
di Ezio Mauro


Quasi si portasse addosso l’intera parabola tragica del terrorismo italiano, il caso di Cesare Battisti che è finito ieri in carcere a Oristano dopo 37 anni di latitanza va molto al di là di una vicenda giudiziaria infinita, con le famiglie delle vittime costrette ad attendere l’esito della giustizia per quasi quattro decenni, e lo Stato italiano tenuto in scacco da complicità politiche, criminali e intellettuali di mezzo mondo.
Proviamo a capire.
Battisti, che oggi ha 64 anni, come molti della sua generazione e di quella immediatamente precedente si radicalizza in carcere, dov’è finito per reati di criminalità comune e dove incontra i Pac, i "Proletari armati per il comunismo", una delle sigle minori della galassia eversiva di estrema sinistra, che tra il 1977 e il 1988 firmano numerose azioni terroristiche contro persone collegate al mondo delle fabbriche e delle carceri.
continua a pagina 29
segue dalla prima pagina È un agente di custodia, Antonio Santoro, la prima vittima uccisa a Udine da un commando in cui Cesare Battisti è in prima linea a sparare, mentre partecipa con compiti di copertura all’assassinio del macellaio Lino Sabbadin, "colpevole" di aver usato la pistola contro un rapinatore, così come il gioielliere Pierluigi Torregiani, colpito a morte lo stesso giorno. Due mesi dopo, i Pac ammazzeranno a Milano l’agente di polizia Andrea Campagna, e sarà ancora Battisti a fare fuoco.
Arrestato a giugno del 1979 anche grazie alla confessione di alcuni pentiti, il terrorista è condannato una prima volta a 12 anni per banda armata, ma nel 1981 evade dal carcere di Frosinone e trova rifugio in Francia. Qui lo seguirà la condanna in contumacia per i quattro omicidi: ma la " dottrina Mitterrand" ( che blocca l’estradizione in Paesi con un sistema giudiziario «non corrispondente all’idea che la Francia ha delle libertà») lo protegge, proprio a causa della condanna in contumacia, che Parigi non prevede.
Quando arriverà l’estradizione — chiarendo che la "dottrina Mitterrand" non si applica a fatti di sangue — Battisti che era entrato e uscito dal carcere è già fuggito in Brasile dove nel 2009 ottiene lo status di " rifugiato", e nel 2012 un visto permanente dal presidente Lula.
Poi il rivolgimento politico brasiliano, l’avvento di Bolsonaro e la minaccia di estradizione: quindi la fuga in Bolivia, e ieri la consegna all’Italia, che con un lavoro di intelligence aveva ristretto il cerchio attorno al fuggitivo.
Tutto questo non sarebbe stato possibile se nel mondo occidentale dove ha scorrazzato per 37 anni Battisti, ci fosse a distanza ormai di decenni un giudizio serio, motivato e condiviso sulla stagione italiana degli anni di piombo. Per dire con chiarezza e senza equivoci che allora un’ideologia è impazzita nella metà campo della sinistra, portando centinaia di giovani a praticare la rivoluzione armata nel cuore della libera Europa, uccidendo persone inermi che credevano di vivere in pace in un Paese democratico.
L’ambiguità del giudizio sul terrorismo, unita all’attività di romanziere che Battisti svolgeva a Parigi gli ha consentito di incarnare agli occhi di troppe persone il ruolo dell’intellettuale perseguitato, mentre è stato un assassino, per il quale l’ubriacatura ideologica non può essere un’attenuante.
Va ripetuto oggi che la vicenda si conclude con quel che abbiamo sempre sostenuto: il terrorismo dei Pac, delle Brigate Rosse, di Prima Linea e delle altre sigle di estrema sinistra è stato un fenomeno criminale contro la democrazia e prima di tutto contro uomini e donne che non potevano difendersi. Non vale invocare ( come ha fatto spesso Battisti, senza mai pentirsi) le bombe fasciste e le stragi di Stato, cioè la debolezza e la compromissione della Repubblica di fronte all’eversione di destra, che va giudicata e condannata autonomamente.
Sia pur fragile e a tratti infedele, quella del dopoguerra in Italia è sempre stata una democrazia, e come tale doveva essere difesa e preservata, anche da chi era all’opposizione nella lunga età democristiana, e chiedeva un cambiamento. Le vittime di Battisti, e di tutti gli altri terroristi, sono gli unici " innocenti" di questa guerra combattuta da una sola parte, una guerra che tuttavia lo Stato è riuscito a vincere, con l’aiuto di tutte le forze politiche democratiche, come testimoniano le bandiere bianche e rosse della Dc e del Pci insieme in piazza contro il delitto Moro.
Dovrebbe ricordarlo il ministro dell’Interno che mangia su Facebook il tiramisù «alla faccia di un assassino comunista»: Battisti è certo un assassino e sicuramente è stato parte di quella deviazione comunista che ha preso le armi, e che però il Pci ha combattuto insieme con gli altri partiti.
Ma altrettanto certamente la lotta al terrorismo si combatte tutti insieme e quando si vince è una vittoria della democrazia — quindi di tutti — che non va usata a fini di parte, immiserendola. Così come quando si augura che Battisti «marcisca in carcere», il ministro dovrebbe ricordare la Costituzione, dov’è scritto all’articolo 27 che « le pene devono tendere alla rieducazione del condannato», non alla vendetta.
Perché, come dimostra la lezione degli anni di piombo, di fronte al terrorismo la democrazia ha il diritto di difendersi: ma insieme ha il dovere di farlo restando se stessa.

La Stampa 15.1.19
Giustizia spettacolo a Ciampino
di Marcello Sorgi


È davvero difficile comprendere quale logica abbia spinto il ministro Salvini a spettacolarizzare in modo impensabile l’arresto e il rientro in Italia del terrorista Cesare Battisti. Se l’obiettivo era quello di mostrare la durezza di cui è capace lo Stato in versione giallo-verde, il risultato ottenuto è l’opposto, davvero si è rischiato di trasformare un assassino condannato all’ergastolo e finalmente assicurato alla giustizia in una specie di eroe.
Incredibile che Salvini e il suo collega Guardasigilli Bonafede, che lo
affiancava giusto per raccogliere un po’ di gloria anche per i 5 Stelle, non se ne siano accorti.
Due ministri all’aeroporto ad accogliere un latitante preso dopo 37 anni. Telecamere autorizzate dal governo a filmare in primo piano ogni mossa del detenuto che sta per essere trasportato nelle patrie galere. E al centro della scena, lui, Battisti, sudicio, stazzonato, con la barba lunga, perché non gli è stato consentito neppure di lavarsi o cambiarsi d’abito (cosa invece abituale per chiunque incorra nell’inconveniente di un arresto). Il «ghigno» descritto dal responsabile del Viminale (ovviamente in divisa della polizia) nella diretta streaming di cui ha vantato «trentamila spettatori», essendone l’instancabile conduttore, è apparso in realtà uno sguardo rassegnato, a tratti stralunato e meravigliato, dato che certamente non s’aspettava un’accoglienza pubblica come quella che gli è toccata.
Ora, che la macchina della sicurezza, quando fa un colpo importante, cerchi ovviamente di valorizzarlo, ci sta pure. Ma neanche a Totò Riina, vale a dire il capo indiscusso della mafia, che tra l’altro fu preso in giacca di cachemire e camicia di seta, era stata riservata un’ostensione del genere. Picchi di crudeltà furono toccati 25 anni fa ai tempi di Tangentopoli, come quando il collaboratore di Forlani, Enzo Carra, venne condotto in tribunale con gli schiavettoni, certe manette pesanti d’altri tempi avvitate sui polsi. Non a caso la più grande inchiesta sulla corruzione fu scandita da suicidi di detenuti eccellenti, in carcere e fuori.
Non è dato sapere che idea abbia di sé Cesare Battisti. Per quanto affetto da delirio narcisistico come tutti i terroristi, è impossibile che si consideri una figura-chiave degli Anni di piombo, avendo avuto un ruolo tutto sommato marginale ed essendo stato condannato, in parte, anche per reati comuni senza alcuna matrice politica. Ma se appunto il latitante catturato sabato si considerava un protagonista minore di un’epoca tragica chiusa da tempo, il modo trionfale con cui è stato ricevuto a Ciampino, la mostrificazione messa in atto da Salvini con il suo solito linguaggio truculento («Dovrà marcire in galera!»), il mancato rispetto di normali diritti, come ripulirsi e rivestirsi prima di entrare in carcere, lo avranno convinto che non è così, e l’Italia ha voluto dargli un posto nella storia - sia pure nella storia criminale - più importante di quello che gli spettava.
Purtroppo non è la prima volta che un governo prende un abbaglio del genere. Quando Silvia Baraldini, la componente delle Black Liberation Army arrestata negli Stati Uniti fu estradata in Italia nel 1999 (per essere poi scarcerata grazie all’indulto nel 2006, malgrado una condanna durissima non scontata per intero), l’allora ministro di Giustizia Diliberto fu a un passo dal recarsi all’aeroporto per accoglierla. Né si era riusciti a trattenere il deputato di Rifondazione comunista Ramon Mantovani, quando un anno prima, nel novembre 1998, aveva accompagnato in Italia il leader del Partito curdo (e armato) dei Lavoratori Ocalan, che causò una delle grane internazionali più complicate al neonato governo D’Alema. Per non dire di Cossiga che voleva nominare senatore a vita Renato Curcio, il fondatore delle Br.
Voglia di apparire, mancanza di senso della misura, un’idea della comunicazione politica ormai vicina al parossismo, ieri e oggi, trascinano ministri di diversa estrazione nel paradosso. Eppure anche Salvini dovrà rendersi conto che Battisti, benché ergastolano e responsabile di delitti efferati, adesso è un detenuto come gli altri. Scontati i sei mesi di isolamento, potrà incontrare i familiari, chiedere, tramite gli avvocati, una revisione dei processi che lo riguardano, collaborare, se vorrà, con le forze di polizia. E soprattutto non potrà essere sottoposto a tortura, dato che il nostro ordinamento non la prevede e in alcuni casi l’ha punita. Pensate come sarebbe stato diverso, se invece di queste quarantott’ore di commedia e tragedia attorno all’arresto di un terrorista di seconda fila, un laconico comunicato, solo quello, avesse annunciato che era già ristretto nella sua cella.

Corriere 15.1.19
Processi, vittime e carnefici: cinici  strumenti di consenso
di Luigi Ferrarella


Già pareva abbastanza, venerdì scorso, l’assedio dei familiari delle vittime al Tribunale di Avellino e le minacce al giudice dopo la sgradita sentenza sui 40 morti nella strage del bus sul viadotto Acqualonga: verdetto «che mi fa incazzare», si era aggiunto a incendiare la situazione un vicepremier, e che «assolve qualcuno che ha la responsabilità dei morti», aveva stabilito senza Appello o Cassazione l’altro vicepremier.
Ma da domenica gli stessi ministri di Giustizia e Interno neppure fanno mancare la capitalizzazione del dividendo politico ricavabile dall’esposizione minuto per minuto della cattura-estradizione-incarcerazione del latitante Cesare Battisti, persino plasticamente tra due ali di vicepremier dichiaranti da bordo aeroporto al pari che da bordo web e tv.
La «passerella», criticata dalle opposizioni, è ancora il meno: contano ben più i messaggi così trasmessi ai cittadini. Il processo? Lo si fa decidere al televoto dei parenti delle vittime, tanto più strumentalizzate nel loro dolore quanto meno aiutate a comprendere il significato di una sentenza che in parte riconosceva proprio anche responsabilità dei gestori autostradali. Il giudice? Se si discosta dalla pretesa volontà popolare lo si può minacciare, senza che ciò desti scandalo come invece si percepiva (giustamente) ai tempi di Berlusconi. Il carcere? Parola di ministro, è un posto dove si «deve fare marcire» le persone. Persone, appunto. E invece la novità è che un assassino smette di restare persona, da sottoporre alla pena inflittagli per aver ucciso altre persone, ma è fatto passare attraverso un sovrappiù di rituale di degradazione, scandito proprio dai titolari della sicurezza pubblica a colpi di «maledetto» e «infame». In nome (profanato) delle vittime, cinicamente strumentalizzate in veicoli di consenso.

Il Fatto 15.1.19
Gli ex compagni di Parigi
Scalzone: “Giornata terribile”. Persichetti: “Esibito come trofeo”


“La prima impressione a caldo è il senso di angoscia rispetto al vedere un uomo, un essere umano preso, catturato, avviarsi verso quella che alcuni vorrebbero fosse la sua tomba anticipata”. Così Oreste Scalzone, già cofondatore di Potere operaio rifugiato a Parigi, oggi libero, ha commentato le immagini dello sbarco a Ciampino di Cesare Battisti, atteso dai ministri Alfredo Bonafede e Matteo Salvini. “È una giornata per certi versi terribile”, ha detto Scalzone all’Ansa. Toni simili usa Paolo Persichetti, ex brigatista delle Ucc, condannato per concorso morale nell’omicidio del generale Licio Giorgieri, riparato anche lui a Parigi ma estradato dalla Francia nel 2002: “C’è una costruzione del mostro, del personaggio – osserva Persichetti, sociologo –. La birra, il ghigno, il sorriso strafottente, la barba finta che finta non è… Lo hanno descritto come uno che si godeva la vita, la bella gente… Ma Battisti viveva in una soffitta e faceva il portiere. Lavorava in un sottoscala dove c’era un computerone su cui scriveva, però nell’immaginario era uno che viveva nei salotti francesi. Ha pensato di salvarsi con la scrittura ed è finito intrappolato nella figura dell’intellettuale da salotto”.

Repubblica 15.1.19
La Rai di governo
Su Tele-Visegrad il Tg2 batte tutti nell’ode al Capitano
A dare il "la" all’orgia mediatica è stato il guru della comunicazione leghista Luca Morisi
di Goffredo De Marchis


Sull’arresto di Cesare Battisti la Rai fa la Rai, ovvero la tv di Stato, ovvero la televisione filo-governativa per eccellenza. Il problema è che i leader di governo alzano un tale polverone che la grancassa gialloverde di Viale Mazzini si adegua, straborda. E suona all’impazzata un inno trionfale all’esecutivo. Per Conte, per il Guardasigilli grillino Bonafede e in particolare per il Capitano. Al secolo Matteo Salvini.
Due minuti e 40 secondi sul Tg2 delle 20,30 domenica sera per un’intervista doppia, alla vittima del terrorista rosso Alberto Torreggiani e al ministro dell’Interno che alla fine si abbracciano soddisfatti. Quasi un record. Sono minuti eterni per i tempi televisivi. Anzi, sono antitelevisivi ma se servono a esaltare le gesta di Salvini vanno bene.
Il Tg2 bissa ieri mattina ospitando per un’ora Salvini nella nuova trasmissione d’informazione "Tg2 Italia".
Accanto a lui il direttore Gennaro Sangiuliano, saggista, critico letterario sulle pagine del Sole 24 ore ma anche salviniano della prima ora. «Sovranismo e populismo, che io rivendico come miei fari, significano mettere insieme culture di destra e di sinistra», dice. Intanto ha trasformato il suo telegiornale in Tele-Visegrad così come Sandro Curzi aveva fatto del Tg3, con orgoglio, Tele-Kabul. Cioè, un prodotto identitario, riconoscibile per chiunque, schieratissimo. Kabul era la capitale dell’Afghanistan allora sotto il controllo dell’Unione sovietica. Visegrad è la città-castello ungherese dove si sono riuniti per la prima volta i Paesi sovranisti europei.
Naturalmente il "la" all’orgia mediatica intorno alla cattura di Battisti lo detta il guru salviniano Luca Morisi. È lui a far capire a tutti che bisogna affondare sul tema, che la notizia va pompata.
Usa Twitter ma lancia un messaggio a quell’informazione "mainstream" che dice di non amare: giornali e televisioni.
Scrive un cinguettio in cui attacca gli intellettualoni di sinistra che avevano firmato un appello per la libertà di Battisti.
Dunque, lo spin è: buttiamola in politica, non è solo un arresto, è sempre campagna elettorale.
Come sui migranti.
Recepiscono i tg governativi Tg1 e Tg2. Capiscono anche i 5 stelle che inondano le bacheche con i loro post: Giuseppe Conte e Alfonso Bonafede i protagonisti.
Parte alle 22,30, arriva alle 12,30 a Ciampino. Chi va all’aeroporto. Salvini sicuro. Allora il ministro della Giustizia lo marca stretto: vengo anch’io. gestisco io l’arresto e il trasferimento in carcere. Vengo e parlo allo scalo.
Le immagini vengono rilanciate dai telegiornali. Decine di minuti dedicati allo sbarco di Battisti, ancora interviste. Il Tg5 non è da meno. Qualcuno su Twitter scrive: «Questa sera per la prima volta non vedrò i telegiornali».
Troppa enfasi, zero misura.
La Rai collabora acriticamente all’operazione mediatica costruita sulla figura’arresto di Battisti.
Ma sono i governanti a dettare la linea, a gonfiare la bolla. Cè anche la conferenza stampa di Conte e Salvini da coprire, nerll’imbarazzante rincorsa ai meriti dell’arresto. A un certo punto l’account della Polizia di Stato twitta: «Grazie a chi ha lavorato silenziosamente per tanti anni a questo risultato». È una risposta garbata alla grancassa?
Va così e andrà allo stesso modo nelle prossime settimane che ci avvicinano alla campagna elettorale per le Europee.
«Abbiamo fatto un buon lavoro», dice Sangiuliano. Poi precisa: «Ma ho anche detto che Battisti paga un’antipatia personale che non è scritta nei codici». E rivendica un servizio sui 90 anni del liberal Noam Chomsky. E il ricordo, ieri sera, di Martin Luther King. Un socialista e un nero. Ma alla fine c’è solo un Capitano.

Il Fatto 15.1.19
Casimirri, Pietrostefani e gli altri tra la Francia e l’America Latina
Condannati per terrorismo - Rossi e neri. Le storie dei latitanti degli anni di piombo riparati all’estero. L’ex Nar Spadavecchia a Londra
di Gianni Barbacetto


Sono oltre 50 i latitanti italiani ricercati nel mondo. Uno è rientrato in Italia, Cesare Battisti, gli altri aspettano che divenga realtà l’auspicio del presidente della Repubblica: “Siano assicurati alla giustizia italiana anche tutti gli altri latitanti fuggiti all’estero”. Almeno una trentina sono in Francia, gli altri sono fuggiti in mezzo mondo, Svizzera, Regno Unito, Nicaragua, Perù, Argentina, Cuba, Algeria, Libia, Angola.
Il più noto dei fuggitivi è Giorgio Pietrostefani. Tra i fondatori di Lotta continua insieme con Adriano Sofri, è stato condannato in via definitiva a 22 anni per l’omicidio del commissario Luigi Calabresi. È dal 2000 in Francia, protetto dalla cosiddetta “dottrina Mitterrand”, che offre asilo a una nutrita comunità di terroristi e ricercati italiani, nel presupposto che siano accusati ingiustamente e perseguitati dallo Stato. In realtà la giornalista francese Marcelle Padovani ebbe a puntualizzare che il presidente Mitterrand, da lei intervistato, aveva precisato che l’asilo politico in Francia poteva essere concesso ai latitanti italiani a tre condizioni: che non avessero commesso delitti di sangue, che la loro condanna non fosse definitiva e che si fossero impegnati a non commettere reati in Francia. Condizioni che per molti dei ricercati certo non ricorrono.
Tra i terroristi riparati in Francia ci sono Narciso Manenti, militante del gruppo Guerriglia proletaria, che nel 1979 a Bergamo uccise il carabiniere Giuseppe Gurrieri, e i brigatisti rossi Sergio Tornaghi, Enrico Villimburgo, Marina Petrella, Simonetta Giorgieri, Carla Vendetti, Roberta Cappelli. Per Petrella, coinvolta nel rapimento di Aldo Moro, l’estradizione è stata bloccata per motivi umanitari dal presidente Nicolas Sarkozy. Condannato all’ergastolo per il suo coinvolgimento del caso Moro e negli omicidi Bachelet, Minervini e Galvaligi, il br Villimburgo è in Francia dal 1982. Come Simonetta Giorgieri, detta “la primula rossa”, che faceva parte del Comitato rivoluzionario toscano. Tornaghi era un appartenente alla colonna milanese delle Br “Walter Alasia”, è stato condannato all’ergastolo per l’omicidio del maresciallo Francesco Di Cataldo.
Due militanti delle Brigate rosse condannati in via definitiva per il sequestro Moro, ma non più estradabili in Italia, sono Alvaro Lojacono e Alessio Casimirri. Entrambi facevano parte del commando che il 16 marzo 1978 entrò in azione il via Fani uccidendo la scorta dell’ex presidente della Dc. Lojacono, che partecipò anche all’assassinio del giudice Tartaglione, è diventato cittadino svizzero, acquisendo il cognome della madre, Baragiola, cittadina elvetica. Casimirri, condannato in contumacia a sei ergastoli, è dal 1988 in Nicaragua, dove si è sposato acquisendo la cittadinanza di quel Paese. Ha aperto un ristorante a Managua.
È in Nicaragua anche Manlio Grillo, militante di Potere operaio condannato per il rogo di Primavalle in cui persero la vita Virgilio e Stefano Mattei, 22 e 8 anni, figli di Mario Mattei, segretario locale del Msi. Condannato a 18 anni, l’accusa è caduta in prescrizione. Vive a Managua, dove è conosciuto come Christian De Seta.
In Perù si è nascosto Oscar Tagliaferri, militante di Prima linea, ricercato per omicidio, associazione sovversiva, rapina, armi. In Argentina, a Buenos Aires, vive Leonardo Bertulazzi, militante delle Brigate rosse.
Franco Coda, uno dei fondatori di Prima linea, accusato di aver ucciso l’agente di polizia Fausto Dionisi, è scomparso nel nulla e su di lui c’è una dichiarazione di morte presunta. Richiesta (dal nipote che voleva intestarsi il suo appartamento milanese, ma finora respinta) anche per Maurizio Baldesseroni, fuggito in Sudamerica senza più dare notizie di sé.
Vive a Londra da oltre trent’anni Vittorio Spadavecchia, neofascista dei Nar, i Nuclei armati rivoluzionari, e amico di Massimo Carminati che è andato a trovarlo in Inghilterra. È stato condannato a 15 anni nel 1989.
Ci sono poi gli “incondannabili”, che non possono essere toccati anche se vivono in Italia. È il caso del neonazista Franco Freda, che l’ultima sentenza su piazza Fontana indica come l’organizzatore della strage nera del 1969. Non può più essere più processato e condannato, perché è diventata definitiva la sua assoluzione nel primo processo sull’attentato, quando testimoni e prove furono sottratti ai magistrati da apparati dello Stato. Oggi vive ad Avellino e fa, come negli anni Sessanta, l’editore di ultradestra.
È venerato dai suoi camerati, che lo considerano un grande pensatore, padre “preveggente” del “razzismo morfologico” che deve contrastare la “mostruosità della società multietnica”.

Enrico Villimburgo Francia
Ex militante delle Brigate Rosse, è Oltralpe dal 1982. Condannato all’ergastolo nel processo Moro ter e per gli omicidi Bachelet, Minervini, Galvaligi

Alessio Casimirri Nicaragua
Ex brigatista, membro del commando di via Fani che sequestrò Aldo Moro e uccise gli uomini della sua scorta. Condannato in contumacia a 6 ergastoli, a Managua si è sposato e ha aperto un locale

Manlio Grillo Nicaragua
Ex militante di Potere Operaio, condannato a 18 anni per il rogo di Primavalle, nel quale morirono i fratelli Mattei. A Managua si fa chiamare Christian De Seta. L’accusa è caduta in prescrizione

Achille lollo Brasile
Potere Operaio, assieme a Grillo condannato per il rogo di Primavalle. Nel 1993, il Tribunale supremo federale in Brasile ha rigettato la richiesta di estradizione presentata dall’Italia

Giorgio Pietrostefani Francia
Tra i fondatori di Lotta continua, condannato a 22 anni per l’omicidio del commissario Calabresi insieme ad Adriano Sofri, la pena andrà in prescrizione nel 2027. Vive a Parigi

Narciso Manenti Francia
Di Guerriglia proletaria, uccise a Bergamo nel ‘79 l’appuntato Giuseppe Gurrieri

Simonetta Giorgieri Francia
“Primula rossa”, del Comitato rivoluzionario toscano, un ergastolo per il delitto Moro

Carla Vendetti Francia
Irreperibile dal ‘94, condannata nel Moro-ter, si parla di lei per i delitti D’Antona e Biagi

Alvaro Lojacono Svizzera
Partecipò al commando di via Fani e all’uccisione del giudice Tartaglione

Marina Petrella Francia
Coinvolta nel rapimento Moro, l’estradizione venne bloccata da Sarkozy per motivi umanitari

Vittorio Spadavecchia Gran bretagna
Nar, a Londra dal 1982, assaltò con un gruppo di camerati la sede dell’Olp a Roma

Sergio Tornaghi Francia
Colonna milanese delle Br “Walter Alasia”, un ergastolo per l’omicidio di Francesco Di Cataldo

Roberta Cappelli Francia
Colonna romana delle Br, coinvolta nell’ uccisione del generale Calvaligi e nel sequestro Cirillo

Leonardo Bertulazzi Argentina
Militante delle Br, latitante per 22 anni, fu arrestato e rilasciato a Buenos Aires, dove oggi vive

Oscar Tagliaferri Perù
Ex militante di Prima Linea, è ricercato per omicidio, rapina, associazione sovversiva

Il Fatto 15.1.19
Non è colpa di Matteo se la sinistra firmaiola gli ha lasciato la scena
di Antonio Padellaro


Domenica sera, ospite di Non è l’Arena, Matteo Salvini imperversava, gonfio di soddisfatta protervia, senza sosta e senza limiti.
Suo, annunciava, l’esclusivo merito politico della cattura ed estradizione in Italia di Cesare Battisti. Suo il merito “tecnico”, come ministro degli Interni a capo della struttura di polizia che ha reso possibile la difficile operazione. Sua l’amicizia personale con il presidente brasiliano di destra-destra, Jair Bolsonaro, autore del “regalino” all’amico Matteo (come da tweet trionfante). Suo il successo della linea denominata “la pacchia è finita”, applicata all’immigrazione ed estendibile, da Battisti in poi, alla cinquantina di terroristi latitanti all’estero (“assassini comunisti, andiamo a beccarli uno per uno”).
Il tutto condito da espressioni di scherno verso Claudio Baglioni (“pensi a cantare”), colpevole di aver un’opinione diversa da quella del Ku Klux Klan sui disperati lasciati a marcire per settimane a bordo di una barca. In realtà, la gestione politica e l’esito positivo del caso Battisti si deve al governo tutto e dunque anche (e soprattutto) all’attività del premier Giuseppe Conte, del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e di quello degli Esteri Enzo Moavero Milanesi. In realtà, i vertici dell’Aise, l’agenzia di sicurezza esterna protagonista tra Brasile e Bolivia delle indagini più sofisticate, riferiscono in prima battuta non al Viminale ma al presidente del Consiglio.
In realtà, merito del presidente Bolsonaro è di aver sbloccato la situazione ma il “regalino” si deve soprattutto al presidente boliviano, di sinistra, Evo Morales, che ce lo ha rispedito senza passare direttamente dal Brasile (la cui estradizione non prevede la pena dell’ergastolo). Ma Salvini tutto questo non l’ha detto perché nessuno glielo ha chiesto. Anche perché nella comunicazione politica ogni vuoto tende a essere riempito da chi è più svelto (e sveglio).
Non è colpa di Salvini se per 37 lunghissimi anni, Battisti è rimasto un ciarliero uccel di bosco. E se nessuno dei governi precedenti è riuscito a riportarlo in Italia. Non è colpa di Salvini se, grazie alle dottrine de sinistra di Mitterrand e di Lula, l’illustre scrittore condannato in via definitiva per quattro omicidi ha potuto beneficiare della gradita ospitalità di Francia e Brasile. Non è colpa di Salvini se, come ha dichiarato a Repubblica il magistrato Armando Spataro che quarant’anni fa catturò il terrorista del Pac, “rispetto alla Francia, vi è stata una passività incomprensibile, nel senso che non rammento proteste da qualsiasi governo”.
Lo stesso vale per Lula, verso il quale l’atteggiamento dei nostri governi “fu tiepido”. Tanto che, ricorda Spataro, “qualcuno sostenne che non dovevamo fare l’amichevole Italia-Brasile, ma non mi pare sia successo nulla, peraltro giocammo e perdemmo 2 a 0”.
Non è colpa di Salvini se la latitanza del pluriomicida fu sostenuta e celebrata (con qualche apprezzabile ripensamento) dall’intellettualità firmaiola di sinistra.
Non è colpa di Salvini se da quel mondo, impegnatissimo a spaccare il capello in otto quando si trattava di mettere in dubbio le accuse (convergenti) dei pentiti contro Battisti, invece non si udirono parole di rispetto per il dolore delle famiglie delle vittime e di solidarietà per la pena indicibile che quelle cartoline di impunità da spiagge assolate, per 37 anni, hanno provocato.
Non è colpa di Salvini (tantomeno di Bonafede) se ieri a Ciampino un ministro comunicava il senso di una giustizia arrivata finalmente al suo compimento.
Mentre voce, parole e linguaggio del corpo dell’altro ministro erano un rude messaggio alla nazione, dalla nazione assai apprezzato: “il clima è cambiato, chi sbaglia paga”. Oggi lo grida la destra perché ieri non fu capace di dirlo (e di farlo) la sinistra.
Non è colpa di Salvini se lui si è preso tutta la scena. Ma di chi gliel’ha lasciata.

il manifesto 15.1.19
Il «grande gioco» delle basi in Africa
di Manlio Dinucci


I militari italiani in missione a Gibuti hanno donato alcune macchine da cucire all’organizzazione umanitaria che assiste i rifugiati in questo piccolo paese del Corno d’Africa, situato in posizione strategica sulla fondamentale rotta commerciale Asia-Europa all’imboccatura del Mar Rosso, proprio di fronte allo Yemen.
Qui l’Italia ha una propria base militare che, dal 2012, «fornisce supporto logistico alle operazioni militari italiane che si svolgono nell’area del Corno d’Africa, Golfo di Aden, bacino somalo, Oceano Indiano».
A Gibuti i militari italiani non si occupano, quindi, solo di macchine da cucire. Nell’esercitazione Barracuda 2018, svoltasi qui lo scorso novembre, i tiratori scelti delle Forze speciali (il cui comando è a Pisa) si sono addestrati, in diverse condizioni ambientali anche di notte, con i più sofisticati fucili di precisione capaci di centrare l’obiettivo a 1-2 km di distanza.
Non si sa a quali operazioni militari partecipino le Forze speciali, poiché le loro missioni sono segrete; è comunque certo che esse si svolgono prevalentemente in ambito multinazionale sotto comando Usa. A Gibuti c’è Camp Lemonnier, la grande base Usa da cui opera dal 2001 la Task force congiunta-Corno d’Africa, composta da 4000 specialisti in missioni altamente segrete, tra cui uccisioni mirate per mezzo di commandos o droni killer in particolare nello Yemen e in Somalia.
Mentre gli aerei e gli elicotteri per le operazioni speciali decollano da Camp Lemonnier, i droni sono stati concentrati nell’aeroporto Chabelley, a una decina di chilometri dalla capitale. Qui si stanno realizzando altri hangar, la cui costruzione è stata affidata dal Pentagono a una azienda di Catania già impiegata in lavori a Sigonella, principale base dei droni Usa/Nato per operazioni in Africa e Medioriente. A Gibuti ci sono anche una base giapponese e una francese, che ospita truppe tedesche e spagnole. A queste si è aggiunta nel 2017 una base militare cinese, l’unica fuori dal suo territorio nazionale. Pur avendo un fondamentale scopo logistico, quale foresteria degli equipaggi delle navi militari che scortano i mercantili e quale magazzino per i rifornimenti, essa rappresenta un significativo segnale della crescente presenza cinese in Africa.
Presenza essenzialmente economica, a cui gli Stati uniti e le altre potenze occidentali contrappongono una crescente presenza militare. Da qui l’intensificarsi delle operazioni condotte dal Comando Africa, che ha in Italia due importanti comandi subordinati: lo U.S. Army Africa (Esercito Usa per l’Africa), alla caserma Ederle di Vicenza; le U.S. Naval Forces Europe-Africa (Forze navali Usa per l’Europa e l’Africa), il cui quartier generale è nella base di Capodichino a Napoli, formate dalle navi da guerra della Sesta Flotta basata a Gaeta.
Nello stesso quadro strategico rientra un’altra base Usa di droni armati, che si sta costruendo ad Agadez in Niger, dove il Pentagono già usa per i propri droni la base aerea 101 a Niamey.
Essa serve alle operazioni militari che gli Usa conducono da anni, insieme alla Francia, nell’Africa del Sahel, soprattutto in Mali, Niger e Ciad. In questi ultimi due Paesi arriva oggi il presidente del Consiglio Giuseppe Conte: sono tra i più poveri del mondo, ma ricchissimi di materie prime – coltan, uranio, oro, petrolio e molte altre – sfruttate da multinazionali statunitensi e francesi che sempre più temono la concorrenza delle società cinesi le quali offrono ai paesi africani condizioni molto più favorevoli.
Il tentativo di fermare con strumenti militari, in Africa e altrove, l’avanzata economica cinese sta fallendo. Probabilmente anche le macchine da cucire, donate a Gibuti dai militari italiani ai profughi, sono «made in China».

il manifesto 15.1.19
Danzica, ferito a morte il sindaco dei diritti
Polonia. Il primo cittadino accoltellato durante un concerto di beneficenza da un ventisettenne «non affiliato a organizzazioni politiche». Era diventato un bersaglio facile dell’estrema destra polacca
di Giuseppe Sedia


VARSAVIA «Danzica è generosa, Danzica condivide il bene, Danzica vuole essere una città di solidarietà», sono queste le ultime parole pronunciate dal sindaco della città polacca sul Mar Baltico Pawel Adamowicz accoltellato a morte nella serata di domenica su un palco durante l’evento clou della Grande Orchestra di Solidarietà Natalizia (Osw).
La parola «solidarietà» in polacco rimanda anche a Solidarnosc, il primo sindacato libero dei paesi del blocco sovietico guidato da Lech Walesa e nato dagli scioperi dell’agosto 1980 proprio tra i cantieri navali di Danzica. Ogni anno l’Osw organizza una raccolta di fondi tra i cittadini in Polonia e all’estero per l’acquisto di attrezzature mediche per la cura dei bambini e delle persone anziane.
Ieri Walesa ha ammonito: «Il livello del dibattito pubblico deve cambiare per evitare di incoraggiare le persone a compiere tali gesti».
È una morte che lascia un segno indelebile quella del primo cittadino di Danzica, deceduto in ospedale nella tarda mattinata, anche perché avvenuta durante uno di quei pochi eventi nazionali in grado di unire i cittadini polacchi al di là della cosiddetta «guerra polsko-polska» tra i sostenitori e gli oppositori del governo della destra populista di Diritto e giustizia (PiS), attualmente al potere in Polonia.
VERSO LE ORE 20 di domenica il ventisettenne Stefan W. (in Polonia i cognomi degli indagati non possono essere diffusi in assenza di una condanna o dell’assenso da parte della persona indagata), era riuscito a intrufolarsi nel locale e a salire sul palco dopo aver mostrato agli addetti alla sicurezza, una tessera della Pap, la principale agenzia di stampa polacca. Dopo aver colpito ripetutamente Adamowicz al torace con un coltello a serramanico di 15 centimetri, l’aggressore è stato disarmato non senza riuscire a prendere la parola sul palco: «Mi chiamo Stefan W., sono stato incarcerato per un ingiustizia. Piattaforma civica mi ha torturato. E per questo che Adamowicz è morto».
Piattaforma civica (Po) è una formazione liberale di centro-destra a cui appartiene anche l’attuale presidente del Consiglio europeo Donald Tusk ma è soprattutto il principale antagonista politico del PiS a livello nazionale. Secondo le prime informazioni l’omicida affetto da disturbi psichiatrici era stato condannato in precedenza per una rapina in banca ma non risulterebbe affiliato ad alcuna organizzazione politica.
DUE ESTATI FA l’organizzazione para-fascista della Gioventù polacca (Mw) aveva rilasciato 11 certificati di «decesso politico» con tanto di fotografia per undici sindaci polacchi rei, secondo gli organizzatori dell’happening, di aver sottoscritto un patto di collaborazione tra le amministrazioni locali in materia di immigrazione. Tra i destinatari del certificato l’ex-sindaca di Varsavia Hanna Gronkiewicz-Waltz (Po) ma anche lo stesso Adamowicz. In Polonia le varie forme di incitamento all’odio costituiscono un reato ai sensi degli articoli 256 e 257 del codice penale. I dati della procura nazionale sulle indagini hanno registrato un aumento di questi fenomeni negli ultimi anni. All’inizio del 2017 il ministro dell’interno polacco Mariusz Blaszczak aveva parlato di «sporadicità» dei casi di incitamento all’odio sottolineando quanto fosse inutile intraprendere azioni specifiche per arginare il problema.
È INDUBBIO che la vittima fosse diventata un bersaglio facile dell’estremismo. In carica come sindaco dal 1998, Adamowicz è stato un membro del Po fino al 2016. Alle elezioni amministrative di ottobre scorso, che hanno visto la debacle del PiS nei grandi centri del paese, si era presentato come candidato indipendente sconfiggendo alle urne proprio il figlio di Walesa, Jaroslaw del Po, e successivamente al ballottaggio, anche il candidato del PiS Kacper Plazynski.
Nell’amministrazione cittadina Adamowicz si è sempre distinto per le sue posizioni progressiste, a sostegno dei diritti delle minoranze, degli immigrati e della comunità lgbt. Alcuni già si chiedono chi prenderà il posto dell’indimenticato Adamowicz alla guida di Danzica. Secondo le normative in vigore, l’esecutivo è chiamato a designare un successore ad interim per la carica di sindaco, in attesa di nuove elezioni cittadine che dovrebbero avere luogo non oltre il mese di aprile 2019.

il manifesto 15.1.19
Nuova dottrina Trump: la guerra all’Iran per procura
Tutti contro Teheran. Ora Trump vorrebbe ritirarsi dalla Siria per affidarsi al gendarme israeliano e sperando che siano altri, come l’Arabia Saudita, a pagare il conto
di Alberto Negri


Mentre gli Usa preparano un ritiro sempre più caotico e confuso dalla Siria e Trump scambia tweet al fulmicotone con Ankara sul destino dei curdi – «devasteremo l’economia turca», «creeremo una zona di sicurezza per proteggerli» (come non si sa) – Pompeo in un discorso al Cairo ha affermato che «il vero nemico in Medio Oriente è l’Iran».
L’UNIONE EUROPEA assiste a queste schermaglie muta come una tomba per non irritare troppo Erdogan, custode, ben pagato, di tre milioni di rifugiati siriani. E lui il nostro Muro orientale mentre Israele costruisce il suo, di concreto cemento, sulla Blue Line in Libano che si aggiunge a quello in Cisgiordania. A combattere questa guerra contro Teheran e i suoi alleati siriani e Hezbollah non sarà infatti direttamente Washington: ci pensa Israele, il gendarme Usa della regione, con i soldi dei sauditi e tanti saluti ai diritti umani.
Per la prima volta il premier Netanyahu ha rivendicato i raid sulla Siria e sempre per la prima volta i sauditi hanno criticato Trump per lasciare spazio a Iran e Russia. Secondo il capo di stato maggiore israeliano uscente, Gadi Eizenkot, Israele solo nel 2018 ha riversato in Siria più di 2mila tra bombe e razzi sui pasdaran iraniani e le milizie sciite. Lo ha fatto anche tra venerdì e sabato colpendo vicino all’aereoporto di Damasco: «Abbiamo la totale superiorità aerea e dell’intelligence, ha detto il generale al New York Times.
Dopo avere distrutto l’Iraq di Saddam nel 2003 e contribuito ad affondare la Libia di Ghedddafi e la Siria, a destabilizzare l’intero Medio Oriente e il Mediterraneo, a bombardare insieme ai sauditi i civili in Yemen, lavandosi ora velocemente le mani sporche di sangue, il segretario di Stato Usa Pompeo, in visita ieri a Riyadh, dice che il nemico è l’Iran.
Ma agli Stati uniti che dovremmo fare per avere provocato in questo ultimo decennio centinaia di migliaia di morti e qualche dozzina di milioni di profughi? In Siria, proprio grazie all’Iran, alleato di Assad, agli Hezbollah libanesi e, soprattutto, all’intervento della Russia di Putin, agli Stati uniti non è riuscito l’ennesimo disastroso cambio di regime che come quelli precedenti in Iraq e in Libia – qui con l’attivismo decisivo della Francia e della Gran Bretagna – hanno sprofondato nel marasma un’intera regione e aperto il vaso di Pandora a migrazioni incontrollabili.
Agli Usa ogni tanto bisogna rinfrescare la memoria soprattutto quando si scagliano contro Teheran – pronta a riprendere l’arricchimento dell’uranio al 20% – con cui Obama aveva firmato nel 2015 un trattato che Trump ha stracciato imponendo nuove sanzioni.
Se l’Iran sciita è divenjtato in Iraq un paese chiave questo è stato dovuto proprio all’iniziativa di Bush junior di far fuori il sunnita Saddam Hussein. E meno male che dopo il ritiro americano dall’Iraq del 2011 deciso da Obama, erano rimaste sul terreno le formazioni iraniane dei pasdaran comandate dal generale Qassem Soleimani: quando nel giugno 2014 l’Isis di Al Baghdadi ha conquistato Mosul l’esercitò iracheno sbandò completamente e furono gli iraniani con le milizie sciite a impedire che il Califfato arrivasse alle porte di Baghdad mentre l’America non muoveva un dito.
QUESTA È LA CRONACA DEI FATTI. Pompeo non ha neppure citato il caso di Jamal Khashoggi, il giornalista saudita ammazzato a Istanbul su ordine dall’erede al trono di Riad Mohammed bin Salman, a conferma del sostegno al regno wahabita, il più retrogrado e conservatore del Medio Oriente, e del fatto che democrazia e diritti umani non sono più discriminanti, anche se solo in apparenza, della politica americana.
Se c’è uno stato contro il quale puntare il dito per avere favorito l’estremismo e la destabilizzazione quello è proprio l’Arabia saudita che sta facendo di tutto per distruggere anche lo Yemen. E proprio lì, a Riyadh, che Juventus e Milan andranno a giocare domani la finale di Supercoppa, è a questa monarchia assoluta che arrivano le bombe che massacrano i civili yemeniti fabbricate in sardegna dalla tedesca Rvm.
Così, in questo groviglio di contraddizioni americane e occidentali, Washington punta tutto sull’isolamento dell’Iran, avversario dei sauditi e di Israele incolpando Teheran dei disastri americani in Medio Oriente. L’ossessione anti-iraniana è tale che Pompeo ha annunciato per febbraio un vertice in Polonia centrato sulla minaccia rappresenta da Teheran. L’Unione europea intanto non è ancora riuscita a varare un meccanismo per aggirare le nuove sanzioni Usa contro Teheran che costeranno a un paese come l’Italia 1,7 miliardi di euro di esportazioni l’anno. In poche parole anche noi paghiamo di tasca nostra le scelte Usa.
Non che il regime della repubblica islamica sia diretto da mammolette ma gli iraniani sono stati abbastanza astuti da sfruttare gli errori degli Stati uniti che in questa regione di guerre non ne hanno vinta neppure una, a partire dall’Afghanistan che dopo l’11 settembre 2001 e gli attentati di al Qaeda a New York e Washington è diventato il più lungo conflitto dell’intera storia dell’America. A proposito: Osama bin Laden era saudita e pure alleato degli americani quando c’era da fare la guerra negli anni Ottanta contro l’Armata rossa in Afghanistan.
DEGLI AMICI DEGLI STATI UNITI forse c’è da fidarsi ancora meno che dei loro nemici.
Trump se ne vuole andare dalla Siria e dall’Afghanistan, dove intende ridurre di metà le truppe, perché sono guerre perse ma lasciando il campo apre al nuovo conflitto contro l’Iran. Per la verità gli Stati uniti mantengono truppe in Iraq e Qatar, la Sesta flotta in Barhein, le basi Nato in Turchia e continuano a controllare i flussi energetici della regione. Ma adesso la nuova dottrina americana è affidarsi al gendarme israeliano sperando che siano altri come l’Arabia Saudita a pagare le loro future guerre per procura. Abboccheremo all’amo della propaganda Usa anche questa volta?

Il Fatto 15.1.19
Pelosi vs AOC: la sfida nei Dem
La speaker e la ribelle. La leader del Congresso contro l’icona del socialismo made in Usa. Due volti per due politiche alternative
Pelosi vs AOC: la sfida nei Dem
di Salvatore Cannavò

\
Due leader. Una anziana borghese, ancora in forma e capace di manovrare il potere. L’altra giovane, spumeggiante, nata nella working class come ama dire di sé e che deve farsi ancora le ossa.
Nancy Pelosi, appena eletta presidente del Congresso Usa, bestia nera di Donald Trump nella dura trattativa sul budget che ha portato allo shutdown: 1,94 milioni di follower su Twitter. Alexandra Ocasio-Ortez, (AOC) 29enne di origine portoricana che rappresenta il nuovo socialismo americano: 2,38 milioni di follower. I social dicono molto della forza simbolica di queste figure che rappresentano due possibili strade per i democratici, con le corporation e quindi l’establishment dalla parte della prima, e la moltitudine di americani che sperano nel futuro con la seconda.
Il costume e il colore descrivono i fatti molto meglio delle analisi politiche. E così Nancy Pelosi ha guadagnato articoli e spazio su media e social grazie a un cappotto rosso. Uscendo da un incontro con Trump, infatti, la presidente del Congresso indossava una cappotto di Max Mara che le è valso una valanga di complimenti fino a descriverla come un “simbolo elegante di rivolta” secondo Vanessa Friedman sul New York Times. E il successo è stato così ampio che Max Mara, che nel 2013 aveva smesso di distribuire il modello Glamis, ha annunciato che lo riporterà nei negozi il prossimo anno.
La scena offerta da Alexandra Ocasio-Ortez è un po’ più movimentata. Per replicare ai Repubblicani che hanno diffuso un video di lei studente universitaria, che ballava sui tetti dell’università, con il chiaro obiettivo di infangarla, la giovane newyorchese non solo ha rivendicato il diritto a ballare, ma poi si è fatta filmare nei pomposi locali del Congresso americano mentre replicava quei passi di danza. Entrambi i video sono divenuti virali tanto che la scena si è ripetuta nel corso dell’incontro con il reverendo Al Sharpton, attivista dei diritti sociali, ministro battista e già consigliere di Barack Obama. Il cappotto borghese contro la danza ribelle, si potrebbe riassumere.
Appena eletta alla Camera dei Rappresentanti, in realtà, AOC ha subito annunciato di sostenere la presidenza di Nancy Pelosi votando per lei nonostante una fronda di circa 20 deputati all’interno del gruppo democratico. Ma lo scontro tra le due è decollato quando si è trattato di approvare il pacchetto di misure economiche e sociali approntato dalla Pelosi per affrontare la trattativa con Trump sul budget.
Ocasio-Ortez si è schierata contro per il tasso di austerity che quel provvedimento conteneva, lanciando una serie di proposte esplosive. La tassazione al 70% dei redditi sopra i 10 milioni di dollari, i super-ricchi, quelli presi di mira da Occupay Wall Street quando invocava politiche per il 99% contro l’1% della popolazione. E poi l’investimento in un New Green Deal, un massiccio piano di investimenti pubblici ad alto tasso ecologico a partire dalla scomparsa del carbon fossile in 10 anni.
Ha anche proposto ai Democratici di creare un comitato ad hoc alla Camera, ma la sua iniziativa è stata fatta fuori bruscamente proprio da Pelosi che le ha preferito un più soft Comitato sulla Crisi climatica il cui compito è stato limitato a delle raccomandazioni sul cambiamento climatico.
A capo del Comitato, Pelosi ha piazzato Kathy Castor, deputata della Florida, che ha subito inviato le più ampie rassicurazioni all’industria del carbon fossile. Niente a che vedere con le proposte “scandalose” di AOC che, in tempi di shutdown, ipotizzano che i congressisti congelassero il proprio stipendio esattamente al pari dei dipendenti pubblici. “Chiamatemi pure estremista. Anche Lincoln e Roosevelt lo erano” dice AOC: “Lo sono state tutte le grandi figure storiche che hanno generato enormi cambiamenti: dall’abolizione della schiavitù al New Deal”
La coerenza, del resto, ha fatto la forza finora della giovane deputata che ha battuto alle primarie newyorchesi l’ala liberale (e non liberal, nel senso statunitense) del partito democratico. Lei preferisce ancora essere aderente all’immagine offerta nel video della sua campagna elettorale, prodotto dalla Means of production (Mezzi di produzione, un rimando a Marx) e che la vede immersa nella realtà della working class, cambiarsi le scarpe mentre va al lavoro, credere che un futuro “per i molti” sia possibile, stare in mezzo alla sua gente. Il volto ideale per tirare la volata al candidato socialista Bernie Sanders contro la leadership dal cappotto rosso. O, chissà, per essere proprio lei a correre per la presidenza.

il manifesto 15.1.19
Sul confine invisibile tra le due Irlande si agitano i fantasmi
Brexit. Un ritorno alla frontiera sarebbe un enorme colpo anche all’economia di entrambi i paesi, oltre a riproporre lo spettro degli attentati
di Enrico Terrinoni


Il confine odierno tra le due Irlande, divenuto un tema assai caldo se non la questione cruciale nel dibattito in corso su Brexit, risale alla divisione dell’isola a seguito del trattato di pace del 1921 che pose fine alla guerra d’indipendenza o guerra anglo-irlandese, che dir si voglia. Da allora, su questa linea frastagliata che separa il Nord dal Sud – ma anche l’Ulster britannico da quello irlandese – corre una tensione politico-sociale difficile da controllare.
Durante i Troubles, ossia nel periodo dell’intensificazione del conflitto nordirlandese a fine anni sessanta, la frontiera, con le sue postazioni militari e i suoi check-point, era oggetto di continui attacchi da parte dell’Ira. Già prima, tra il 1956 e il 1962, l’Ira aveva condotto lì la famosa border campaign, con attacchi volti proprio a smantellare ogni idea di confine tra le due parti dell’isola. Gli attentati si intensificarono anche alla fine di quella campagna, e uno dei più simbolici avvenne nel dicembre del 1989 a Derryard, nella contea di Fermanagh.
Il ricordo di tali eventi di sangue ha supportato di recente, durante una cena ufficiale, l’argomentazione del premier irlandese Varadkar atta a promuovere l’accordo tra Unione Europea e Regno Unito, quando ha mostrato ai colleghi negoziatori una foto dell’attentato del 1972 alla dogana di Newry, che causò la morte di quattro agenti doganali, di due camionisti e di tre volontari dell’Ira.
Il cosiddetto “confine invisibile”, oggi riconoscibile da chiunque lo valichi soltanto grazie alla differenza tra i cartelli stradali – bilingui quelli della Repubblica, solo in inglese quelli del Nord – non è per i repubblicani soltanto un simbolo dell’occupazione britannica, ma è anche una fascia di territorio difficilissima da controllare.
Le mappe geografiche parlano di più di duecento stradine secondarie che attraversano il confine. Sono le cosiddette unapproved roads, ossia quei sentieri che durante gli anni più bui venivano chiusi da filo spinato per evitare che merci, ma soprattutto persone ritenute pericolose passassero incontrastate.
Computi di diverso tipo, tuttavia, parlano di quasi trecento passaggi, al di là delle strade maestre, mentre calcoli operati sulla base dello studio delle cellule telefoniche ci raccontano di più di cento milioni di attraversamenti di persone l’anno. Questo proprio grazie all’assenza di un vero e proprio confine, che ha chiaramente incoraggiato di recente gli scambi commerciali e migliorato la qualità di vita di migliaia di persone.
Un ritorno alla frontiera sarebbe dunque un enorme colpo anche all’economia di entrambi i paesi, oltre a riproporre lo spettro di attentati lungo la linea di confine come quello di Warrenpoint del 1979 in cui persero la vita diciotto soldati inglesi. Quest’ultima località è emblematica di un altro problema, perché trovandosi su un braccio di mare che divide la Repubblica dal Nord, è un esempio di confine liquido; e non è il solo nell’isola.
Pensare di poter controllare, oltre a tutte le stradine di campagna, anche i passaggi via acqua, non è soltanto impensabile, ma comporterebbe un dispiego di forze, risorse e uomini che né l’Irlanda né il Regno Unito sono oggi pronti o preparati a sostenere.

il manifesto 15.1.19
Tsipras verso la fiducia, per scongiurare il voto
Grecia. Mercoledì il parlamento deciderà sul governo, a innescare lo scontro il leader di Anel, e ministro della difesa, sull’accordo per il nome della Macedonia
di Teodoro Andreadis Synghellakis e Fabio Veronica Forcella


Domani sera la Grecia saprà se il governo di Alexis Tsipras otterrà il voto di fiducia dal parlamento di Atene, o dovrà dimettersi. La crisi è scoppiata domenica mattina, quando il partito nazionalista di destra di Anel dei Greci Indipendenti, ha deciso di ritirare il proprio appoggio al governo. O meglio, la decisione è stata presa dal leader di Anel e ministro della difesa Panos Kammenos. Ma almeno una ministra e un viceministro della stessa formazione, hanno già fatto sapere che intendono continuare a sostenere l’esecutivo di Tsipras.
Motivo dello scontro, continua ad essere l’accordo sul nuovo nome dell’Ex Repubblica Jugoslava di Macedonia, che in base al compromesso raggiunto dovrà chiamarsi Macedonia del Nord. Compromesso firmato da Alexis Tsipras e dal primo ministro di Skopje Zoran Zaev, ma che non è mai stato accettato da Kammenos. Il quale cerca di intercettare parte del voto di chi ritiene che nessuno, oltre i greci, possa usare il nome Macedonia, neanche con una denominazione “diplomaticamente” composita.
Detto ciò, molti osservatori pensano che il governo di Syriza rimarrà in sella, perché al voto di alcuni deputati dei Greci Indipendenti potrebbe aggiungersi anche quello di almeno un esponente del piccolo partito centrista il Fiume e forse qualche nome della galassia socialista.
Sino ad oggi l’esecutivo di Atene ha potuto contare su una maggioranza di 153 deputati su 300 e se tutto dovesse andare come filtra nelle ultime ore, Tsipras dovrebbe riuscire ad aggiudicarsi almeno 151 voti di sostegno in parlamento.
Gli esponenti della Coalizione della Sinistra Radicale Ellenica e anche parte di quelli di Anel sanno bene che i mesi a venire potrebbero essere molto preziosi, per cercare di mettere in campo una più completa politica sociale, dopo le enormi limitazioni dei memorandum.
Andare al voto oggi, vorrebbe dire regalare, probabilmente, il paese al centrodestra di Nuova Democrazia, in vantaggio nei sondaggi. Un’opzione di compromesso potrebbe essere quella di far coincidere le elezioni politiche con quelle europee e amministrative, tra quattro mesi.
È vero che la maggioranza dei greci non sostiene l’accordo con Skopje. Ma sul piano sociale, il leader della sinistra ellenica è riuscito a scongiurare l’ultimo taglio delle pensioni ed ha già detto di voler aumentare gli aiuti per chi è in affitto ed ha un reddito basso, facilitare il pagamento delle cartelle esattoriali ed aumentare lo stipendio base.
Tutto questo, certo, richiede una maggioranza chiara, ed è per questo che Tsipras è voluto andare alla conta finale, anche se la Costituzione greca non lo obbligava a fare ricorso alla fiducia.
Se la maggioranza dovesse reggersi su un solo voto in più, le cose non saranno certo facili, ma l’esecutivo continuerebbe comunque a guidare il paese, cercando di allargare l’appoggio parlamentare, specie su leggi di particolare sensibilità sociale.
Il centrodestra, nel frattempo, accusa Syriza e Anel di aver organizzato una messa in scena politica, per cercare di soddisfare le esigenze dei rispettivi elettorati di riferimento. Secondo Kyriakos Mitsotakis, presidente dei conservatori di Nuova Democrazia, il governo sa bene di non rischiare di andare sotto in parlamento, ma alza comunque il livello dello scontro politico in previsione dei vari appuntamenti elettorali.
Tsipras, però, in questo momento è più interessato a parlare al centrosinistra, piuttosto che a rispondere alle critiche della destra. In una manifestazione organizzata al Palazzo della Musica di Atene, il leader di Syriza ha indirizzato un appello per la creazione «di un fronte vasto, democratico e progressista». Ad ascoltarlo erano presenti anche ex ministri ed esponenti dei socialisti del Pasok. In vista delle elezioni, insomma, i giocatori stanno rimescolando per bene le carte. E la partita, ovviamente, è ancora tutta aperta.

La Stampa 15.1.19
Praga ’69, il grido di fuoco
Il rogo di Jan Palach per protesta contro l’invasione dei tank russi
di Cesare Martinetti


Non sopportava le ingiustizie, nemmeno la più piccola. Poco prima dell’invasione sovietica di Praga (21 agosto 1968), Jan aveva passato un mese in un campo di lavoro vicino a Leningrado. Era una consuetudine, tra «partiti fratelli». E là con calore e passione aveva sostenuto le buone ragioni della «Primavera» che declinava inesorabilmente sotto le pressioni di Mosca. «C’erano studenti cechi e russi - ha raccontato suo fratello Jiri -, il capo era naturalmente un russo e diceva loro quando si doveva giocare a carte e quando lavorare. Ogni giorno mangiavamo minestra, una volta d’avena, un’altra di semolino. Era terribile e Jan organizzò la protesta: “Vogliamo della carne!”. I cechi erano d’accordo, i russi avevano paura, l’unico che si unì alla protesta fu minacciato. Jan prese le sue difese dicendo che se gli fosse successo qualcosa, l’avrebbe fatto sapere a tutto il mondo…».
Il numero 1
Neanche sei mesi dopo, il 16 gennaio ’69, Jan Palach ha davvero fatto sapere qualcosa a tutto il mondo immolandosi nel cuore di Praga, in piazza San Venceslao. Era la «torcia numero 1» di un gruppo di ragazzi che avevamo deciso di fare come i bonzi a Saigon in un gesto - come scrisse Arthur Miller - di «affermazione e disperazione». Non amava «l’acquetta tiepida della convenienza», avrebbe detto più tardi il grande ceco Bohumil Hrabal. Accanto al suo corpo, rannicchiato come un mucchietto di carbone ancora fumante, un breve scritto, subito chiamato «il testamento» di Jan Palach.
Ecco il testo: «Poiché i nostri popoli sono sull’orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la nostra causa. Dato che ho avuto l’onore di estrarre il numero 1, è mio diritto scrivere la prima lettera ed essere la prima torcia umana. Noi vogliamo l’abolizione della censura e la proibizione di Zpravy [il notiziario delle forze d’occupazione sovietiche, ndr]. Se le nostre richieste non saranno esaudite entro cinque giorni e se il nostro popolo non darà un sostegno sufficiente a quelle richieste, con uno sciopero generale e illimitato, il 21 gennaio una nuova torcia s’infiammerà».
Jan Palach aveva compiuto vent’anni l’11 agosto 1968, era al secondo anno di Storia ed Economia politica della Facoltà di Filosofia. Il professor Kasik ha ricordato di quando tentò di raggiungere il Castello (la sede del potere che domina la capitale) per protesta contro l’invasione e fu duramente fermato dai sovietici. Un’esperienza che ebbe forti ripercussioni emotive su di lui, definito da Kasik, fino ad allora, «un tipo tranquillo e razionale».
Le altre torce umane
L’agonia di Jan Palach è durata tre giorni. Il suo gesto, così estremo, sembrò a molti sconcertante. Lui e il suo gruppo di «torce» avevano preso ispirazione dai bonzi che in Vietnam si davamo fuoco contro la guerra americana. Il primo era stato Thích Quang Ðuc, l’11 giugno 1963, a Saigon. Nella lettera che scrisse al capo dell’assemblea degli studenti di Lettere Lubomir Holecek qualche giorno prima di immolarsi, Jan proponeva un’azione di massa: che «occupiamo la radio di Stato e chiamiamo a raccolta tutti», evocando in questo modo il ’68 parigino. La censura sovietica era la sua vera ossessione. Per questo l’auto-immolazione era gesto disperato che appariva individuale, sopportabile da un animo temprato da una forte fede religiosa: e Jan - sappiamo dal fratello Jiri - aveva studiato la Bibbia e ogni sera recitava una preghiera.
Nei tre giorni di agonia, prima del collasso in quel corpo quasi interamente combusto, come accade talvolta ai grandi ustionati, Jan Palach è rimasto lucido. «Ero in servizio quando venne portato in ospedale e sottoposto al primo intervento chirurgico. Sapeva che stava per morire e tutto ciò che voleva era che la gente capisse il suo gesto. Credeva nella Primavera di Dubcek e quel che ha fatto lo aveva fatto perché nel periodo della demoralizzazione, paradossalmente definito della “normalizzazione”, non vi era nessun modo per rendere pubblico il proprio pensiero e il proprio punto di vista». È la testimonianza di Jaroslava Moserova, medico di guardia all’ospedale, raccolta come quella di Jiri nel volume Dubcek-Palach edito da Rubbettino.
Il 25 gennaio, ai funerali solenni, parteciparono 600 mila persone: «Il suono delle sirene a mezzogiorno e il rintocco delle campane - scrisse Enzo Bettiza - trasformarono l’intera città in un paesaggio pietrificato dove tutti rimasero fermi e silenziosi per cinque minuti». Almeno altre tre «torce» si accesero e vennero subito spente nei giorni seguenti, nel silenzio imposto dalla censura del regime. Scriviamo a memoria i nomi dei martiri: Josef Hlavaty, 26 anni, operaio; Jan Zajic, 19 anni, studente; Evcen Plocek, 39 anni, operaio.
Il 25 ottobre 1978, dieci anni dopo, le autorità hanno convocato la famiglia e rimosso la tomba di Jan Palach dal cimitero perché «la gente portava troppi fiori che marcivano presto e questo non rispondeva alle norme igieniche» della città. L’inverno di Praga era ancora lungo.

La Stampa 15.1.19
Il paradosso dell’estremo gesto eroico
di Maurizio Assalto


Ma alla fine c’è sempre qualche cosa di misterioso, insondabile, dietro un gesto come quello di Jan Palach, e di chi lo ripete con finalità simili ai quattro angoli del mondo. Coraggio? Eroismo? Il coraggio dell’eroe è l’ethos di chi affronta rischi anche estremi, per il proprio o per l’altrui vantaggio, ma con la speranza di uscirne indenne, onde poterne godere i frutti. Semmai siamo più vicini all’abnegazione, che è la disposizione di chi sacrifica la propria vita per salvare quelle altrui (i tecnici che nel 2011 intervennero sul reattore danneggiato della centrale nucleare di Fukushima). Ma resta qualcosa che sfugge. Qui non si tratta di scambiare una vita per una o più altre vite concrete, ma del puro sacrificio dimostrativo in vista di un fine più generale e generico, e assolutamente incerto. Un gesto che non si ripromette una ricompensa in un qualunque aldilà, ma un futuro problematico miglioramento nell’aldiquà. Un fine terreno. A cui però non parteciperà chi compie il gesto. Estremo, vertiginoso paradosso.

il manifesto 15.1.19
Quell’elenco insensato delle ruberie ai danni dei cittadini ebrei
Shoah. Il nuovo libro di Fabio Isman, edito da il Mulino, sull'Italia razzista
di Lia Tagliacozzo


Prende le mosse dal 1998 il libro di Fabio Isman che pure racconta del 1938, l’Italia razzista (Il Mulino, pp.275, euro 22). Lo scorso anno si sono ricordati gli ottant’anni dalla promulgazione di quella legislazione antiebraica il cui processo di rimozione dall’ordinamento repubblicano è stato lungo e tormentato e si è concluso – sorprendentemente – solo alla fine del secolo scorso. E fu, appunto, nel 1998 che una commissione governativa ebbe l’incarico di indagare su «l’acquisizione dei beni dei cittadini ebrei da parte di organismi pubblici e privati».
Presieduta da Tina Anselmi la commissione lavorò tre anni e produsse i due corposi volumi da cui Isman snoda il filo centrale del suo racconto. Nel 1938 viene istituito un ente apposito «per la gestione e liquidazione immobiliare», l’Egeli, che chiuderà nel 1997. Ma che il processo abrogativo abbia avuto vie per alcuni aspetti surreali è testimoniato dalla legge 2139 del 1939 che vietava agli ebrei di «allevare piccioni viaggiatori» e che viene cancellata nel 2008.
È INFATTI NEGLI ANGOLI più riposti della documentazione pubblica e della memoria condivisa che è finita una delle pagine meno analizzate della persecuzione antiebraica: quella della spoliazione dei beni in cui il fascismo si mosse in assoluta autonomia dall’alleato nazista. Anche per la «seconda fase» – quella successiva all’8 settembre del 1943 – la Repubblica sociale si muove autonoma e parallela ai tedeschi nei sequestri e nelle confische.
Il volume di Isman – con prefazione della senatrice Liliana Segre, ex deportata ad Auschwitz e sopravvissuta della Shoah – descrive «una Italia razzista» ed emerge l’assurdo: la cacciata di professori e studenti ebrei dagli atenei e dalle scuole di ogni ordine e grado accanto alla revoca delle licenze ai venditori ambulanti. Desolanti i verbali di sequestro – redatti spesso in forma approssimativa e che lasciavano ampio spazio a ruberie – grandi patrimoni oppure «due paia di calze usate, una bandiera nazionale, un enteroclisma, 3 mutandine usate sporche, 1 bidè».
UN CALENDARIO insensato in cui le date delle ruberie legalizzate sono successive alla sparizione dei proprietari oramai in fuga, nascosti, o già catturati, deportati, a volte già uccisi nei campi di sterminio. Ma la burocrazia non si ferma: «Per Egeli – scrive Isman – il costo di queste pratiche era nettamente superiore alla loro consistenza (…) perfino i fogli di carta bollata degli atti che, da soli, superavano talora l’entità dei beni confiscati». E riporta le osservazioni della commissione Aselmi: «Denari, gioielli, beni di fortuna in generale non furono più la misura di un tenore di vita, ma il confine stesso tra la vita e la morte».
Isman racconta destini, in alcuni casi riesce a ricostruire storie di famiglia fino al dopoguerra: dà conto delle peripezie, dei lutti, della richiesta di essere riammessi al lavoro, dei processi per ottenere la restituzione del maltolto. Dalle carte però emerge un nodo ancora tutto da indagare non solo nelle carte della burocrazia ma nella politica, nella cultura, nel sentire diffuso: quello di una sostanziale indifferenza dell’Italia democratica verso i misfatti dell’Italia fascista. E non solo verso i cittadini ebrei allora estromessi, allontanati, condotti sul baratro delle deportazioni. Una noncuranza motivata, forse, dalla fretta di lasciarsi alle spalle lutti e tragedie. Una freddezza le cui ombre si allungano fino al presente di altri emarginati.
LA PRESENTAZIONE del libro 1938, l’Italia razzista si terrà al Museo nazionale dell’ebraismo italiano e della Shoah – Meishop (via Piangipane 81, Ferrara) il prossimo 22 gennaio, alle ore 16, mentre nella stessa mattinata (ore 10) verrà proposto il volume Piccola autobiografia di mio padre (Giuntina), in cui l’autore Daniel Vogelmann parla del suo genitore, quello Schulim che fu il falsario di Schindler.

Il Fatto 1.15.19
Nel ghetto la Storia la scrivono i vinti
La vicenda vera di un gruppo di studiosi di Varsavia che cercò di contrastare la supremazia della memoria nazista
Nel 1999 l’Unesco ha incluso l’archivio “Oyneg Shabes” (nome della compagnia dei 60 studiosi) nella “Memoria del Mondo”
di Federico Pontiggia


“Saranno i tedeschi a scrivere la nostra storia, o saremo noi ebrei?”. Lo studioso Samuel D. Kassow ha disseppellito la risposta e l’ha affidata a un libro, Chi scriverà la nostra Storia? L’archivio ritrovato nel ghetto di Varsavia (Mondadori), che poi è diventato il docufilm Chi scriverà la nostra Storia (Who Will Write Our History).
Sceneggiato e diretto da Roberta Grossman, prodotto dalla sorella di Steven Spielberg, Nancy, con Kassow consulente scientifico, è stato presentato in anteprima al San Francisco Jewish Film Festival lo scorso luglio, quindi è meritoriamente ma nascostamente transitato alla Festa di Roma e il 27 gennaio arriverà in sala con Wanted e Feltrinelli Real Cinema per la Giornata della Memoria. Non dovete perderlo, ha una qualità cinematografica importante, un valore storico preminente, un lascito esistenziale incommensurabile.
Narrato da Adrien Brody e Joan Allen, propala una, forse la, storia non raccontata della Shoah: quando nel novembre del 1940 i nazisti rinchiudono oltre 450mila ebrei nel ghetto di Varsavia, c’è chi s’oppone, non con le armi bensì con carta e penna. Perché se è vero che la storia la scrivono i vincitori, si può accostarne un’altra, che non si consegni alla prospettiva dei vinti: “I tedeschi mandano troupe cinematografiche nel ghetto – dice Kassow nel film – per mostrare quanto siamo sporchi e disgustosi. Stanno dicendo al mondo che siamo la feccia della terra, e a meno che non assembliamo la nostra documentazione i posteri ci ricorderanno sulla base delle fonti tedesche e non di quelle ebraiche”.
Denominata Oyneg Shabes, “La gioia del Sabato” in yiddish, una compagnia segreta guidata dallo storico Emanuel Ringelblum e formata da sessanta tra ricercatori e giornalisti, rabbini e sionisti cerca di contrastare la supremazia della memoria nazista, raccogliendo decine di migliaia di documenti e artefatti, diari, interviste e ritratti per dare contezza della vita e della morte nel ghetto. E non solo, basti pensare ai primi report dello sterminio provenienti da Chelmo e fatti rimbalzare sulle onde corte della Bbc Radio. Un’impresa rischiosa e vieppiù coraggiosa, nata quale forma di resistenza non convenzionale e cresciuta, quando i destini personali volgono al termine, quale trasmissione di sapere, non dei filosofi e dei rabbini ma della gente comune, secondo le coordinate apprese dal sionista di sinistra Ringelblum all’Istituto per la Ricerca Ebraica.
Dei sessanta della Oyneg Shabes, con proporzioni estendibili all’intero ghetto dato alle fiamme nel ‘43, non sopravvivranno che tre membri, di cui solo uno, Hersch Wasser, conosce la localizzazione dell’archivio. Assistito da un’altra compagna, Rachel Auerbach, Wasser porta all’individuazione di scatole metalliche seppellite sotto una scuola: è il settembre del 1946. Nel dicembre del ’50 alcuni muratori porteranno casualmente alla luce una seconda porzione del “tesoro”, custodita in due contenitori d’alluminio per il latte.
Regista solida ed esperta, la Grossman lega estratti degli archivi e interviste inedite, raro materiale di repertorio e drammatizzazioni storicamente accurate e ben recitate. Brividi e occhi lucidi accompagnano ineludibilmente la visione, che nel ghetto ritrova un bivio atroce – “Che cosa significa passare davanti a persone che muoiono per strada. Per alcuni mostra quanto siamo diventati insensibili, altri hanno detto di no, invece. Mostra quanto siamo diventati forti” – e un “tragico dilemma: dobbiamo servire la zuppa col contagocce a tutti? O dobbiamo darne una porzione intera ad alcuni così che pochi abbiano abbastanza per sopravvivere?”. Scriveva la Auerbach, che vi fu addetta, “le mense pubbliche ebraiche non hanno mai salvato nessuno dalla fame”, tra impotenza diffusa e crepuscolo degli uomini ci si chiede solo se “morirà prima la mia o la tua famiglia” e a quel punto “si può parlare di etica?”. Chi scriverà la nostra Storia non elude nulla, nemmeno i membri della polizia ebraica che si trasformavano “in segugi per salvare la pelle” e, prima di finire nell’omissis post-bellico, facevano interrogare su “chi ha cresciuto queste mele marce tra noi?”, ma non abdica alla speranza: è “il trionfo dell’umano sull’inumano” di Ringelblum e soci, “ché la nostra volontà di vivere è più forte della volontà di distruggere”.
Nel 1999 il programma Memoria del Mondo dell’Unesco ha incluso tre collezioni polacche: le composizioni di Frédéric Chopin, i lavori scientifici di Copernico, e l’archivio Oyneg Shabes.

Corriere 15.1.19
I libri sulla Shoah tanti e necessari
di Paolo Di Stefano


Ieri mattina ho incontrato in via Solferino un gruppo di ragazzi di prima media piuttosto vivace con cui si parlava della funzione dei giornali, della necessità di saper distinguere il grano dal loglio, dunque di formarsi una mentalità critica. Poi si è parlato di libri e della lettura in un clima qua e là un po’ distratto, ma l’attenzione si è fatta immediatamente tesa e palpabile quando una ragazza ha detto che ama leggere racconti sull’Olocausto. Ecco che allora anche gli allievi tendenzialmente più chiassosi hanno aguzzato l’udito. Sarà forse merito delle due prof di italiano, ma ho avuto l’impressione che il tema della Shoah riuscisse a sollecitare la sensibilità anche presso quel gruppo di giovanissimi non provenienti dalle zone della cosiddetta «eccellenza» scolastica. È stato un momento di sollievo in cui ho pensato al dovere, per le generazioni che verranno e che non avranno più memoria diretta di quei fatti, di tener vivo il racconto delle persecuzioni hitleriane. Quando avremo finito di raccontare la Shoah, sarà arrivato il momento di allarmarci davvero, ma intanto, nell’approssimarsi del giorno della memoria, non si contano i nuovi libri sull’argomento come se non bastasse (e non basta mai) l’immensa letteratura di cui già disponiamo. Inimmaginabile resta il magazzino di storie a cui ancora si può attingere: come quella di Susanne Raweh, la bambina deportata che si nascondeva in una buca scavata nel terreno e si copriva con un sacco di patate: da qui prende avvio il bel romanzo per ragazzi Susanna e gli orchi di Mariella Ottino e Silvio Conte (Albe edizioni). Qualche giorno fa sul Corriere Liliana Segre ha presentato un memoriale di Daniel Vogelmann intitolato Piccola autobiografia di mio padre (Giuntina): in poco più di 30 pagine l’autore racconta la storia di suo padre Shulim sopravvissuto ad Auschwitz e unico italiano salvato da Oskar Schindler. Colpisce, in questo libro fatto di silenzi, scrive Liliana Segre, «il linguaggio posato, preciso e asciutto, percorso da una mesta aura di poesia». La poesia: N ell’abisso del lager è il titolo di una antologia poetica curata da Giovanni Tesio per Interlinea. Alla giovane lettrice di prima media consiglierei di tenersi accanto, come un breviario, anche la poesia: «E quando saremo tornati / L’erba pazza sarà nei cortili / E il fiato dei morti nell’aria».

Corriere 15.1.19
Non lasciate l’ortografia ai correttori
Telefonini
Soprattutto tra i giovani l’ortografia sul digitale non rappresenta una preoccupazione
di Paolo Di Stefano


Sull’ultimo numero della «Lettura», il linguista Giuseppe Antonelli discute dell’annosa questione dell’accento (o no) sul «sé» di «se stesso», passando in rassegna le opinioni dei grammatici e i controversi usi: Manzoni scriveva «sé stesso», mentre Leopardi prediligeva la grafia senza accento, come imponevano i severi manuali ottocenteschi. Oggi ci si orienta verso la forma accentata e i correttori digitali si adeguano. «Qualcuno, — conclude Antonelli — finalmente, ha corretto i correttori: ognuno, adesso, può serenamente accettare sé stesso».
Anche il correttore automatico si è evoluto ed è diventato più còlto. C’era un tempo in cui correggeva Pasolini in «pisolini», Gadda in «gatta» e Vittorini in «vittoriani». In un articolo del 2000, un altro linguista, Matteo Motolese, diede conto sul «Sole 24 ore» dei curiosi commenti del software Word 7.0 a proposito dei testi di tanti Venerati Maestri, da Sciascia a Eco: per esempio, sconsigliava «fortemente» l’uso di «realizzare» nel senso di capire e censurava come «parola logora» l’aggettivo «macroscopico».
Questione di gusto o di opinione verrebbe da dire, se non si trattasse dell’«opinione» o del «gusto» di una macchina. Del resto, il «conclude» che ho scritto alla fine del primo paragrafo viene emendato anche dal mio Guardiano automatico, che preferirebbe forme «più semplici e comuni» come «finisce» o «termina». Ma mi suggerisce anche di mettere una virgola dopo il «preferirebbe» della frase precedente e di evitare il «Ma» all’inizio della frase. Vecchia regola che impediva di iniziare una frase con la congiunzione. Il che segnala che il mio programma di videoscrittura non è aggiornatissimo. D’altro canto neanche il francesismo «saltare agli occhi» era ammesso dalle vecchie generazioni di Word. E oggi, come avverte Luca Serianni, il correttore automatico si preoccupa (giustamente?) di sottolineare in rosso l’assenza della «i» nella prima persona plurale dei verbi con nasale palatale («gn»), nei casi «bagnamo» o «sognamo» ormai alquanto diffusi.
Si sarà anche evoluto il gentile signor e-Correttore ortografico o stilistico ma non c’è comunque da fidarsi troppo (mi segnala, per esempio, che il troncamento di «signor» non è accettabile) e sarebbe sempre bene, per sicurezza, rileggere il testo corretto dal Correttore per ricorreggerlo se necessario. Tanto più che gli è impossibile cogliere quello che il saggista-enigmista Stefano Bartezzaghi definisce il perfido «refuso creativo»: tipo le «alici dissolute» o lo zar Alessandro II che «orinava» lo champagne. Resta il fatto che bisogna distinguere tra i vari dispositivi: i telefonini tendono ad essere più «interventisti», avverte Antonelli. A volte procurano strafalcioni irripetibili e purtroppo ripetuti. Provate a digitare distrattamente «ce n’è» in un messaggino e non di rado si paleseranno (magari a cose fatte) obbrobri vergognosi come «c’è ne» o «c’è n’è». Mai essere distratti, è il consiglio.
Il senatore dei linguisti Francesco Sabatini vede giustamente nel correttore automatico un pericolo conoscitivo: «Rischia di disattivare l’attenzione e il controllo personale sull’ortografia: le correzioni bisognerebbe saperle fare da soli. I neurologi avvertono che le competenze devono prima essere interiorizzate e poi possono eventualmente essere delegate a una macchina. Per questo è necessario innanzitutto esercitare la scrittura a mano». Attivare il correttore manuale.
Sacrosanto. Ma se un dodicenne vi concede il privilegio di accedere al suo WhatsApp, troverete messaggi confidenziali con accenti messi a capocchia su «sé» ed «è» congiunzioni e su forme verbali come «sò», «fà», «và», ma anche hacca improprie («dai genitori hai figli»), e viceversa un risparmio insensato di apostrofi e di accenti («ce ginnastica»). In tutta evidenza, per molti preadolescenti l’ortografia, nello spazio digitale, non è una preoccupazione. Dunque, al diavolo il signor e-Correttore. Lo sarà mai su un foglio di carta?

Repubblica 15.1.19
Oltre ogni limite
La crociera dei terrapiattisti in vacanza alla fine del mondo
"Il nostro pianeta non è sferico" Un gruppo Usa per dimostrare la sua tesi assurda farà rotta verso sud su una nave extralusso
di Elena Dusi


ROMA Per dimostrare le loro assurde idee andranno fino alla fine del mondo.
Salperanno su una nave (da crociera ed extralusso) senza contare sul gps.
Quanti marinai lo hanno fatto in passato, sostengono. E punteranno dritti al cuore del "mistero": quell’Antartide che, nella loro bizzarra visione del mondo, circonda il disco piatto della Terra, impedendoci con il suo muro di ghiaccio di cadere giù. La crociera della Terra Piatta è in programma nel 2020. L’ha ideata la Flat Earth International Conference, un gruppo che su Facebook negli Stati Uniti conta 700 aderenti. L’organizzatore Robbie Davidson, contattato, sceglie per ora di non fornire dettagli. Sul sito del gruppo l’iniziativa viene presentata come la "più grande, più audace, più bella avventura tentata finora", con piscine e scivoli da aquapark sui ponti di una scintillante nave da crociera. «Se arrivassero davvero in Antartide, si scoprirebbero tutte le magagne di chi ci propina l’idea che la Terra sia sferica» commenta dall’Italia Albino Galuppini, autore di Quaderni dalla Terra Piatta, libro edito con il self-publishing.
Galuppini è stato fra gli organizzatori, lo scorso agosto ad Agerola, del terzo convegno nazionale dei terrapiattisti italiani. «Perché ai privati è proibito superare il 60esimo parallelo sud?» si chiede insinuando una teoria del complotto di dimensioni astronomiche. «Solo spedizioni governative possono spingersi in Antartide. Ma noi siamo sicuri che abbiano qualcosa da nascondere.
Il capitano Cook riferì di un muro di ghiaccio assai più lungo del periplo dell’Antartide e l’esploratore Richard Bird raccontò di aver visto, sorvolando quelle terre, zone libere dai ghiacci e con un clima temperato». In quelle aree inesplorate, arrivano a dire i terrapiattisti, potrebbero ancora vivere i dinosauri. Idee alle quali, informa un sondaggio di aprile condotto da YouGov su 8mila persone, crede il 2% degli americani. Percentuale che cresce in modo inquietante al diminuire dell’età: arriva al 4% nella fascia 18-24 anni. A rinfocolare un’idea che era stata messa abbondantemente alle spalle già nel medioevo, contribuiscono oggi vagonate di video su YouTube, alcune associazioni, spesso in polemica fra loro, e una manciata di sportivi e star dei reality Usa. E poi c’è Mike Hughes, californiano, che a 61 anni, raccogliendo fondi fra chi la pensa come lui, ha costruito un razzo e si è lanciato nel cielo nel tentativo di smentire un paio di millenni di pensiero filosofico e scientifico, dimostrando che la curvatura dell’orizzonte esiste solo nelle immagini manipolate della Nasa. A marzo Hughes ha raggiunto i 600 metri di altezza e rimediato una botta alla schiena in atterraggio, con la promessa di ritentare. In crociera almeno i tuffi si faranno solo in piscina.


https://spogli.blogspot.com/2019/01/speciale-su-rosa-luxemburg-berlino.html