Repubblica 2.1.19
Così il terrorismo nacque nel cuore dell’Occidente
Il saggio dello storico Francesco Benigno su radici e sviluppo di un fenomeno globale
Le foto e i diari della Guerra civile spagnola furono rubate dai sovietici. Sogno di trovarli
di Benedetta Tobagi
Il
terrorismo è uno dei codici fondamentali della modernità, influenza la
nostra esperienza, il nostro modo di pensare. Prevale, oggi, la sua
rappresentazione come "sfida barbara alla civiltà occidentale e alla
democrazia", discrimine di un presunto "scontro di civiltà" o
addirittura male assoluto, quasi un Satana secolarizzato. Una visione
plasmata dalla politica, in particolare dai noecons che hanno
egemonizzato le amministrazioni Bush. Ma la prospettiva storica (forse
per questo la più trascurata, nei terrorism studies recenti) ci dice
tutt’altro. È un libro importante, Terrore e terrorismo dello storico
Francesco Benigno, perché al valore storiografico unisce un forte
afflato etico.
Contro le rimozioni ideologiche o interessate,
infatti, ricompone un quadro in cui il terrorismo torna a mostrarsi come
un figlio, per quanto perverso, dell’Occidente contemporaneo.
Contro
chi — per forzare il legame col radicalismo religioso anziché con la
politica — ne cerca le radici nell’antichità mediorientale, tra sicari
(ebrei) e assassini (musulmani), in «una sorta di teoria esotica della
reincarnazione terroristica», Benigno pone il termine là dove il
vocabolo "terrorismo" nasce: nel grembo della Rivoluzione francese. Data
la natura intrinsecamente valutativa — dunque controversa — del termine
(gli studiosi hanno riconosciuto l’impossibilità di una definizione
univoca e onnicomprensiva), cerca di individuare una tradizione
culturale imperniata sull’uso politico del terrorismo, utilizzando «i
discorsi che si sono succeduti fin da quando i termini terrorista e
terrorismo sono stati coniati». Tradizione che dall’Europa contemporanea
si propaga all’autocrazia zarista, agli Stati Uniti e all’America
Latina, per attecchire poi in Asia e Medio Oriente durante i conflitti
per la decolonizzazione, e che nelle sue diverse manifestazioni
(rivoluzionaria, indipendentista, internazionale, islamista) presenta
forti tratti di continuità lungo due secoli. La genealogia si muove
attraverso un’ampia costellazione di fenomeni, dalle guerre patriottiche
ai tentativi insurrezionali, alle rivoluzioni, seguendo l’idea centrale
del terrorismo rivoluzionario, che sia possibile promuovere azioni
violente «al servizio degli oppressi e in nome della rigenerazione della
società»: non l’alterità assoluta, dunque, semmai il lato oscuro della
purezza. Affonda le radici nel magma di un Risorgimento non sterilizzato
dalla retorica e nella galassia degli anarchici (altra categoria
gemmata dal 1789), che, prima di essere usati come capri espiatori, sono
inventori e interpreti principali della «propaganda del fatto». Col
loro repertorio di azioni, il mito degli "uomini nuovi", l’enunciazione
del principio che "non esistono innocenti", insieme ai terroristi
populisti russi imprimono un segno durevole nell’immaginario.
La
stampa alimenta il mito di "madonne" del terrorismo come Vera Zasulic e
Marija Spiridonova, che rivive in icone come la palestinese Leyla Khaled
le cui foto, giovane e ridente, abbracciata al kalashnikov, hanno fatto
il giro del mondo. A quella stagione Benigno fa risalire una
caratteristica centrale, e spesso misconosciuta, del terrorismo, ieri e
oggi: agire sul gruppo di riferimento quanto, se non più, che
all’uditorio bersaglio, la «comunità di vita e destino» per cui i
martiri, laici o religiosi, rappresentano oggetto di culto.
Sebbene
rinunci a trattare le forme innumerevoli del terrore di Stato, Benigno
include nella ricerca quello che definisce «terrorismo d’intelligence»
finalizzato alla «manipolazione di una sfera pubblica pensata come
plasmabile» da parte del potere, per «fare l’ordine con il disordine».
Si manifesta tra le due guerre mondiali come strumento di provocazione
(l’incendio del Reichstag) o vera e propria azione politica, occulta o
palese (gli omicidi ordinati da Mussolini).
Risorge al tempo della
Guerra fredda, strettamente connesso alle dottrine della "guerra
psicologica" (il campo in cui ricade la nostra "strategia della
tensione") e resta strumento di condizionamento occulto degli equilibri
politici, interni o internazionali. In parallelo alla genealogia del
terrorismo Benigno traccia quella del controterrorismo, dalle strategie
repressive all’uso di provocatori e infiltrati, tecnica già a tal punto
raffinata nel XIX secolo che il segretario di Mazzini, coinvolto nella
fondazione della Prima Internazionale, era un agente sotto copertura
francese.
La capacità di sintesi, unità a chiarezza e agilità di
scrittura, rende la lettura godibile anche ai non addetti ai lavori; per
chi mastica il tema, particolare fascino ha la rete dei collegamenti
che Benigno fa affiorare. Il terrorismo fu un fenomeno precocemente
globale: così, gli indipendentisti indiani divoravano i testi dei
combattenti irlandesi, l’uso del terrore per una "guerra totale" si lega
alle strategie elaborate nella Guerra civile nordamericana e poi nelle
guerre indiane per sterminare i nativi, perché con la guerriglia «50
uomini potevano tenerne in scacco 3000». L’asimmetria — altra costante —
non ha fatto che crescere: gli attentati suicidi costano al massimo
qualche decina di migliaia di dollari, le campagne in Iraq e Afghanistan
4,3 trilioni. Una delle tante ragioni per cui il quadro storico del
terrorismo è un ritratto di Dorian Gray nascosto in soffitta, con cui è
urgente confrontarsi.