Repubblica 28.1.19
Il reportage
L’Africa che cambia
Scuole ed energia la scommessa della nuova Etiopia
di Federico Rampini
ADDIS
ABEBA La vera Etiopia la si scopre lasciando la capitale, i suoi
grattacieli in costruzione, i suoi ingorghi e il suo smog. L’Onu ha la
maggiore sede africana a Addis Abeba, ma se i funzionari restano lì
hanno una visione parziale. Prendere un volo fino a Bahir Dar, spingersi
su strade sterrate fino alla regione di Gumuz, uno dei vasti altipiani
etiopi, offre una prospettiva diversa. Una puntata nelle zone rurali
ridimensiona un po’ l’entusiasmo per il "miracolo etiope", pubblicizzato
nel mondo dal premier-celebrity, il 42enne Abiy Ahmed reduce da una
recente tournée internazionale.
Un’ora di strada asfaltata da
Bahir Dar, due di strada sterrata (impraticabile nella stagione delle
piogge), un’ora finale di arrampicata a piedi, e si raggiunge un polo
estremo, l’opposto di Addis Abeba. Lungo il percorso incrocio bambine e
bambini che trasportano sulle spalle taniche d’acqua o canne da zucchero
o cesti pieni di cipolle, camminando per tragitti lunghissimi. Altri
bambini lavorano nei campi coi genitori, la schiena piegata in due. I
contadini usano aratri di legno come mille anni fa; non hanno mai visto
un trattore. Carretti trainati a mano, al massimo da un asinello.
Giovani pastori sorvegliano mandrie di mucche "indiane" (la razza con la
gobba), magre quanto i loro padroni.
Arrivo in cima a una collina abitata da etnìe tribali di origine sudanese, e i segni di una povertà estrema sono evidenti.
Non
la fame, perché la terra è fertile e i contadini non mancano di cibo.
Però nella folla di bambini che accorrono a osservare i visitatori si
notano delle pance gonfie (infezioni da vermi intestinali, mi dice un
esperto), e occhi malati.
La distanza che abbiamo percorso è una
barriera tremenda per chi ha bisogno di raggiungere un ambulatorio; o
una scuola. Né si trovano insegnanti disposti a un simile pendolarismo
per il magro stipendio statale. Perché i bambini non rimangano
analfabeti un vescovo locale ha addestrato due ragazze del posto, uniche
e rudimentali maestre per tutte le classi: centinaia di bambini di età
diverse riuniti in un grande hangar. Il vescovo ha chiesto aiuto al
direttore di un ong americana, Gabriele Delmonaco di "A Chance In Life",
che organizza questo viaggio col progetto di portare una scuola vera
fino a questo luogo remoto. La gente di qui — e in molte altre regioni
rurali — abita ancora nei tradizionali tucùl: muri di terra e sterco,
tetti di paglia. Il bestiame dorme insieme agli umani.
Entrando la
prima impressione è di una camera a gas: il fuoco è perennemente
acceso, per scaldarsi di notte e anche bruciare erbe aromatiche che
scacciano zanzare da malaria, zecche e altri insetti micidiali.
Gli
incendi sono frequenti; anche le malattie polmonari, per chi respira
tanto fumo. Il regalo che i bimbi chiedono più spesso, è una penna biro.
Nella
cittadina di Bahir Dar incontro un medico inglese, David, venuto a
lavorare come volontario nel policlinico "universitario" aperto da poco —
il secondo ospedale in un’area che ha 15 milioni di abitanti — ma
ancora sprovvisto delle attrezzature più essenziali. E’ un ortopedico ma
gli capita di dover operare feriti da armi da fuoco, arrivano da zone
di combattimento, dove le faide etniche non sono sopite.
L’Etiopia
ha una buona fama di questi tempi perché è un’oasi di stabilità
circondata da vicini turbolenti o repressivi: Sudan, Eritrea, Somalia.
Ma il modello etiopico, come mi spiega un esule eritreo consulente
dell’Onu, poggia su un equilibrio fragile. E’ una federazione etnica
dove i ricordi delle oppressioni reciproche sono ancora freschi, ferite
aperte.
Storicamente la minoranza Tigray ha controllato il potere e
le armi, gli Ahmari dominano l’economia, mentre la maggioranza Oromo
solo di recente ha conquistato il governo con Abiy. Ci sono altri 80
gruppi etnici e almeno quattro comunità religiose: ortodossi, musulmani,
protestanti e cattolici. L’idea di Stato è ancora un’astrazione,
esercito e polizie federali sono milizie dei movimenti di liberazione
etnici, riconvertite di recente.
Il contesto internazionale non
aiuta: la Russia "perse" l’Etiopia con la caduta del dittatore comunista
Mengistu (1991); l’Occidente simpatizza con Abyi ma scommette pochi
capitali su di lui; la vera contesa per l’egemonia qui è tra la Cina e
l’Arabia saudita. Pechino costruisce infrastrutture; gli arabi edificano
moschee e attraverso l’importazione di manodopera etiope operano una
islamizzazione strisciante.
Se confrontata con la maggioranza dei
Paesi subsahariani l’Etiopia è un modello avanzato per varie ragioni.
Tutte precarie. E’ il granaio d’Africa, una vera potenza agricola col
più grande patrimonio di bestiame di tutto il continente, di che sfamare
i suoi 105 milioni di abitanti ed anche esportare. Ma fu teatro di
carestie storiche, due delle quali contribuirono alla caduta dei due
ultimi regimi (Haile Selassie, Mengistu). Quella del 1973, che fece
duecentomila morti finché Selassie riuscì a nasconderla, contribuì alla
nascita della "cultura degli aiuti" in Occidente, i cui errori sono
stati analizzati con severità dall’economista Dambisa Moyo dello Zambia
("La carità che uccide", Rizzoli 2011). Com’è possibile morire di fame
in una nazione così fertile, con tanti laghi e fiumi? L’eccessivo
sviluppo degli allevamenti ha contribuito all’erosione dei terreni. La
parcellizzazione delle terre non incentiva gli investimenti in
tecnologie.
L’industria agroalimentare è quasi inesistente: rara
eccezione è Illycaffè che ha costruito un rapporto con contadini e
imprenditori locali, la famiglia di Ali e Ahmed Legesse a Sidamo. La
mancanza di infrastrutture e la politica — il prestigio dei dittatori,
le contese etniche — hanno rallentato l’arrivo di aiuti quando alcune
regioni erano colpite da siccità.
L’altitudine di gran parte del
suo territorio la protegge anche da molti flagelli
tropicali-equatoriali; ma solo in parte. C’è meno malaria, febbre gialla
e tifo, che in altri Paesi africani. Ma queste malattie non sono del
tutto debellate. Altre sono endemiche per la mancanza di acqua potabile,
le fognature a cielo aperto. Perfino i medici locali, i volontari di
lungo corso, è impossibile che non si siano presi almeno una volta
malaria o febbre tifoide o dissenteria. La mortalità infantile elevata
(che riduce la longevità media poco sopra i cinquant’anni) si spiega con
l’assenza di un’igiene basilare.
L’acqua pulita resta un bene irraggiungibile in campagna.
«Hai
un bell’insegnare che bisogna lavarsi le mani — mi dice la suora
indiana che dirige un ambulatorio nella zona Gurage — ma scavare un
pozzo artesiano costa 70.000 euro, l’acqua per lavarsi qui non c’è».
Risorsa
preziosa, l’acqua non serve solo per bere e lavarsi: è la più grande
fonte d’energia. La Salini-Impregilo sta costruendo la quarta grande
diga nazionale, e sta ultimando quella che viene definita la Diga della
Rinascita.
Egitto e Sudan seguono con preoccupazione questi progetti con cui l’Etiopia controlla a monte il flusso del Nilo Azzurro.
L’astuto
Abiy è andato al Cairo a garantire che esporterà energia anche ai Paesi
vicini. Eppure l’elettricità non basta nemmeno all’Etiopia: i blackout
sono continui.
La dottoressa tedesca che da trent’anni dirige
l’ospedale Attat, a Welkite nella regione dei Gurage, confessa qual è il
sogno della sua vita: «Poter lasciare tutto in mano a loro, a medici e
personale etiope, senza più bisogno di una supervisione o di volontari
stranieri». Ma proprio il personale medico è un serbatoio di talenti
apprezzati all’estero, che vanno ad aumentare i ranghi della diaspora.
C’è una singolare triangolazione con l’India: molti medici indiani
emigrano in America e in Inghilterra, gli ospedali di Mumbai, Delhi e
Bangalore ora reclutano etiopi. Alla mia partenza, l’aeroporto
internazionale di Addis Abeba mi consegna un’ultima immagine di questo
Paese: il terminal è invaso da cinesi.
Dambisa Moyo sostiene che
dagli anni Sessanta ogni decennio ha visto una nuova "teoria" su come
innescare uno sviluppo durevole dell’Africa.
Stiamo vivendo nel decennio della teoria cinese. Finirà meglio delle precedenti? Non è una domanda retorica né ironica.
Avendoli
visti al lavoro per asfaltare le strade verso Awassa, in una regione
del caffè, ho rivalutato l’importanza dei loro investimenti: non sono
solo predatori; anche se nella popolazione locale cresce la diffidenza.
Sul
volo da Addis, la mia vicina di sedile è diretta a San Francisco. E’
un’infermiera etiope qualificata, assiste chirurghi in sala operatoria.
Ha lasciato il suo Paese sei anni fa: assunta dal policlinico di
Stanford nella Silicon Valley.