giovedì 24 gennaio 2019

Repubblica 24.1.19
Landini e la Cgil
Da Ribelle a leader
di Roberto Mania


La Cgil ha un leader, la sinistra no. Eppure Maurizio Landini non era predestinato alla guida del sindacato di Corso d’Italia. Aveva il physique du rôle per fare altro: l’eterno oppositore, il ribelle, il massimalista, il movimentista, l’estremista, l’operaista, l’arringapopolo corteggiato dai radical chic. Era l’anti-Marchionne, Landini. L’uomo delle battaglie identitarie, degli scioperi di testimonianza e delle eroiche sconfitte. Tanta politica ( quella delle piazze piene e delle urne vuote) e poco sindacato. Ma il suo progetto di Coalizione sociale, nel quale avrebbe voluto mischiare la Fiom con l’associazionismo, i precari con gli ambientalisti, il lavoro autonomo con quello dipendente, è rimasto nella culla. L’idea di rompere gli steccati all’insegna della civile partecipazione democratica fuori dai partiti e, in qualche modo, anche dai sindacati, si è rivelato velleitarismo puro. Che però gli ha permesso di modificare rapidamente rotta e di puntare, da una posizione di minoranza, alla scalata della Cgil, il grande sindacato rosso. Un sindacato sì in declino di rappresentatività, imbottito di iscritti- pensionati che parlano del passato più che del futuro, accerchiato dalla profonda frantumazione del lavoro e dalla globalizzazione dei processi di produzione, ma pur sempre la più folta organizzazione sociale del Paese con cinque milioni e mezzo di tessere. Unico luogo ( ancora) di convivenza di tutte le nuove e vecchie anime politiche e culturali (mai abiurate, in questo caso) della sinistra, orfana dei partiti di massa del secolo passato; radicato nel territorio, presente nelle sedi del lavoro tradizionale, dalle fabbriche agli uffici, e in grande affanno, invece, nel rincorrere i lavoratori della gig economy, i contrattisti a tempo, i forzati della logistica, i precari dei centri commerciali, ma pure i disoccupati di lunga durata. Un sindacato declinante, come in tutto il mondo del capitalismo finanziario dove i tassi di sindacalizzazione si comprimono anno dopo anno, accanto al dilagare dei populismi, del rancore sociale coltivato nella solitudine della rete virtuale e non nelle comunità, e delle nuove povertà spesso associate al lavoro.
Landini ha prima firmato, con pragmatismo, il contratto dei metalmeccanici, dopo due tornate nelle quali la Fiom si era tirata indietro. Accordo contrastato dall’interno della stessa Cgil ma approvato dal referendum tra i lavoratori. Poi è stato eletto nella segreteria confederale. E così ha cominciato la sua lunga marcia. Profilo basso, apparizioni televisive centellinate dopo le esagerazioni della stagione fiommina. Ha cercato la connessione sentimentale con tutta la Cgil, non più solo con i metalmeccanici.
Per la sua successione Susanna Camusso avrebbe voluto un ricambio generazionale, un segretario (o segreteria) più giovane. L’operazione non è riuscita per mancanza di candidati all’altezza del ruolo. Così ha ripiegato su quello che era stato il suo più netto oppositore. Ma anche il più carismatico e popolare sindacalista in campo. Mossa coraggiosa che infatti non è piaciuta a una parte della Cgil.
Ora spetta a Landini fare quel che aveva sempre detto: cambiare il sindacato, come ha saputo cambiare se stesso. Rompere l’asfissiante potere delle nomenklature interne, rinnovare le logiche per la selezione dei gruppi dirigenti, riportare in basso la militanza sindacale, contrastare il conservatorismo endemico che è anche della sua organizzazione, accettare la sfida delle nuove tecnologie che bruciano il lavoro ma che nello stesso tempo creano inedite opportunità. Rendere, infine, totalmente trasparenti i meccanismi di finanziamento della confederazione. Nella stagione della disintermediazione la Cgil ha trovato un nuovo leader. È il momento per la sua Bad Godesberg. Servirà anche alla sinistra.