Repubblica 24.1.19
La vita segreta delle Sorelle Tempestose
Le
tre Brontë (in ordine di età Charlotte, Emily e Anne) hanno lasciato il
segno nella letteratura dell’Ottocento, non solo inglese. Soprattutto
la secondogenita: come dimostra il suo capolavoro, variazione sul tema
del Male
di Pietro Citati
A fine settembre 1850,
Charlotte Brontë scrisse qualche riga su Cime tempestose (Bompiani,
Rizzoli), il romanzo che la sorella Emily aveva scritto qualche anno
prima, morendo. Charlotte era piena di riserve: «La forza di Cime
tempestose mi colma di rinnovata ammirazione, tuttavia sono oppressa: al
lettore non viene quasi mai concesso di gustare il piacere puro, ogni
raggio di sole si fa largo tra nere sbarre di nubi minacciose, ogni
pagina è sovraccarica di una specie di elettricità morale, o la
scrittrice ne era inconsapevole — nulla poteva fargliene prendere
coscienza».
Dunque, il romanzo più intenso, drammatico e
fantastico dell’ottocento inglese (probabilmente europeo) non dava alcun
piacere alla sorella, che aveva scritto la modesta Jane Eyre. Per
fortuna Chesterton aggiunse « Cime tempestose avrebbe potuto essere
scritto da un’aquila: la sopravvissuta di una specie di uomini-uccelli
completamente scomparsi». La storia di Emily, morta il 19 dicembre 1848,
a trent’anni, è ricchissima di particolari fantastici. Si passa
velocemente dalla malattia alla morte: si attraversa, per così dire, una
serie di morti reali e immaginarie, malattie selvagge, come se
l’esistenza, in quei trent’anni, non potesse sopravvivere. Tutto è sotto
il segno dell’Apocalisse: il grande libro della fantasia e della
visione. Ma non c’è nessuna traccia di Gesù Cristo, sembra che Emily
cancelli tutto ciò che è propriamente evangelico.
Il paesaggio di
Cime tempestose anticipa, con potere molto maggiore, quello di Thomas
Hardy: rispetto a Cime tempestose, Tess dei d’Uberville
impallidisce
e perde qualsiasi rilievo. Chi troverà, in Hardy, questi cani e maiali
barbarici e queste rocce scoscese e queste strade interminabili e queste
furibonde tempeste e queste brughiere, e questa violenza che sembra
emergere, chissà come, dal cuore stesso della terra. Lì Emily visse,
penetrandosi di nevi e piogge e fanghi e ululati e moltitudine di api.
La violenza della natura si lega stranamente alla violenza della
stregoneria, a una moltitudine di fantasmi, che vengono persino incisi
sulle rocce. Tutto è stregoneria, delirio, bestemmia, e servi che
appartengono al mondo dell’odio e dell’inferno. Tutto è morte. I
personaggi umani diventano spettri: minuscoli, inverosimili spettri.
Obbedendo
alla tradizione del tardo settecento, Emily Brontë costruisce un grande
personaggio demoniaco, Heathcliff: freddo, malvagio, odioso,
indifferente, sprezzato e sprezzatore, ironico, vigile, cupo,
vendicativo: fustigatore e fustigato, con gli occhi iniettati di sangue.
«Rimarrò — disse — sporco quanto mi pare, mi piace essere sporco e
sporco voglio essere». Ispirava ripugnanza e amava ispirare questo
istinto di tigre e di serpente. Heathcliff dice: «Sono la sola creatura
che preferisca essere costretto a vivere per sempre nell’inferno,
piuttosto che passare una sola notte sotto il tetto di Cime tempestose
».
Tutto lascia credere che Emily Brontë volesse rappresentare in
Heatchliff il male assoluto, senza limiti e senza misure. «Ho quasi
raggiunto il mio paradiso — egli disse — e quello degli altri non ha
nessun valore per me e non lo desidero affatto». La forza con cui Emily
rappresenta il Male è di una intensità spaventosa. Male. Male.
Nient’altro
che Male. Catherine è il parallelo di Heatchliff: come se, al mondo,
non ci fosse che Tenebra, Tenebra delle Tenebre. Catherine ripete:
«Sposerò Heathcliff così si saprà quanto lo amo. Lui è più me di me
stessa». C’è bellezza: moltissima, affascinante bellezza: ma essa non
cancella né adombra il Male, anzi la bellezza fa crescere il Male, e lo
rende più spaventoso.
Emily Brontë nacque il 30 luglio 1818, nello Yorkshire. Quando aveva tre anni, la madre morì e la zia si prese cura di lei.
Adorava
Walter Scott, la cui mente fosca dava prova, secondo lei, di una
meravigliosa conoscenza della natura umana. Lesse Shelley e Byron. Da
giovane scrisse duecento poesie. Desiderò aprire una scuola ad Haworth,
poi andò ad insegnare a Bruxelles. Nel 1846 pubblicò insieme alle
sorelle delle poesie, di cui vendette due copie. Nel 1847 uscivano Jane
Eyre di Charlotte Brontë e Cime tempestose di Emily, che molti critici
giudicarono stupido e perverso. La sorella Anne morì a ventinove anni.
Emily viveva chiusa in casa o passeggiava sulle colline o visitava le
chiese, sebbene la sua fede fosse dubbiosa e problematica.
A fine
ottobre 1848, il raffreddore di Emily non accennava a diminuire: le
mancava il respiro ad ogni minimo movimento un po’ brusco. Era
magrissima e pallidissima. Nascose la sua malattia ed evitò ad ogni
costo qualsiasi cura o intervento medico. La sorella, Charlotte, scrisse
a suo nome. «Conosco i miei sentimenti, perché sono legati alla mia
anima, ma le menti del resto degli uomini e delle donne sono, per me,
come valori sigillati e scritti a geroglifico che non riesco a
decifrare». Se le rivolgevano la parola, non rispondeva.
Charlotte cuciva nella sala da pranzo. Al piano di sopra, Emily stirava. La terza sorella, Anne, stava seduta davanti al camino.
Quando
le chiesero se si sentisse a suo agio, rispose gentilmente: «Non sei tu
che puoi sollevarmi, ma presto tutto andrà bene in onore e nome del
nostro Redentore » . Era rassegnata, felice di « liberarsi da questa
vita di sofferenza » . La sua fede e la sua speranza non declinarono
mai. Ma Charlotte protestava: « Io sono ribelle! » « Se potessi fare a
meno del mio letto, non lo cercherei mai » . « Ma che ne è delle
interminabili ore di angosce, quando soffro terribilmente? » L’indole di
Emily non era socievole: stava chiusa nella sua stanza, tra i suoi
libri. Un martedì di dicembre si alzò e si vestì come di consueto,
facendo ogni cosa da sola, tentò di riprendere il proprio lavoro,
parlava con voce rotta, le domestiche non la persero di vista: avevano
compreso cosa annunciasse quel respiro rauco sempre più affannoso e gli
occhi che si facevano vitrei.
« Emily — scrisse Charlotte — si va
indebolendo di giorno in giorno. Ha rifiutato di prendere alcune
medicine. Non ha la minima indulgenza verso se stessa. Non ho mai
conosciuto ore buie come queste » . « È ormai troppo tardi — Emily disse
alla sorella: se vuoi far venire un dottore, ora puoi riceverlo! » Il 2
dicembre Charlotte scrisse: « Emily non soffre più di dolore e di
debolezza, ormai. Non soffrirà mai più in questo mondo. È morta dopo una
breve lotta. Pensavamo che le fosse possibile vivere con noi per
qualche settimana ancora; e poche ore dopo, era già nell’eternità. Sì,
non c’è più Emily nel tempo, sulla terra, ormai. Ieri abbiamo deposto
quietamente le sue povere spoglie terrene sotto il pavimento della
chiesa. Siamo molto calmi. Perché dovrebbe essere altrimenti? L’angoscia
di vederla soffrire è passata.
Lo spettacolo delle pene della morte è finito. Il funerale è alle nostre spalle.
Sentiamo che è in pace. Non è più necessario tremare per il gelo e per il vento pungente.
Emily
non li sente più » . Il cane, Keeper, entrò in chiesa e vi rimase per
tutto il tempo del sermone funebre. Tornato a casa, si accucciò davanti
alla porta della camera di Emily, e per molti giorni ululò lugubremente.
Charlotte aggiunse: « Il giorno della morte di Emily è diventato per me
un’idea fissa, cupa ed ostile » .
« Mi torna alla mente quello
che avevo sentito dire sui morti, come si agitino nelle tombe se i loro
ultimi desideri non sono esauditi » .