La Stampa TuttoLibri 26.1.19
La Storia la scrivono i vincitori
Chi conquista gli archivi scrive la Storia (e comanda)
Nel
1809 Napoleone avviò una campagna di confisca di documenti in tutta
Europa Un’impresa titanica e sistematica per trasformare Parigi nella
capitale del mondo
di Alessandro Barbero
La
storia la scrivono i vincitori? Continuamente citato dai revisionisti
più patetici, questo stantio luogo comune è completamente falso oggi,
quando nei paesi democratici chiunque è libero di studiare, scrivere e
pubblicare tutto quello che vuole: e così, ad esempio, dopo il 1945 i
fascisti hanno pubblicato in tutta libertà, per chi la voleva leggere,
la loro versione della storia recente, senza dover aspettare l’arrivo di
un Giampaolo Pansa a battere la grancassa. Il che non vuol dire che la
tentazione di tenere nascosti i documenti, o di lasciarli vedere
soltanto a storici di provata fede, non sia una tentazione ricorrente di
chi sta al potere. Anche nei paesi democratici è normale che certi atti
del governo siano tenuti segreti per qualche decennio; nelle dittature
il limite non c’è, sicché solo la sconfitta del nazismo ha permesso di
disseppellire l’immensa documentazione che prova la pianificazione della
Shoah, ed è stata necessaria la caduta dell’Unione Sovietica perché gli
archivi del KGB rivelassero il destino degli intellettuali e degli
artisti scomparsi sotto Stalin.
Chi controlla gli archivi
controlla, insomma, anche il modo in cui viene scritta la storia; e
nessuno ne era così consapevole come Napoleone. L’imperatore possedeva
in sommo grado quella capacità di vedere in grande che il presidente
George Bush senior, essendone notevolmente privo, chiamò una volta, con
visibile fastidio, «the vision thing». E parte della sua visione era
trasformare Parigi nella capitale del mondo: non soltanto la città più
bella, ammirata e invidiata, ma proprio l’unico luogo in cui fosse
possibile fare politica, arte e scienza al livello più alto.
Le
sistematiche razzie di opere d’arte prodotte da questa visione sono ben
note, e ingrossano da sempre il nutrito dossier degli argomenti contro
la tirannide napoleonica. Molto meno nota, prima di questo studio di
Maria Pia Donato, era l’altrettanto sistematica spoliazione degli
archivi compiuta dagli inviati dell’imperatore nelle capitali
conquistate, da Bruxelles a Torino, da Vienna a Roma, nell’intento
deliberato di sottrarre alle province annesse alla Francia e ai
superstiti governi rivali la materia prima della loro memoria storica e
delle loro eventuali rivendicazioni politiche. Giacché nell’Europa di
allora, molto più di oggi, il passato condizionava il futuro e poter
provare un diritto, un possesso, una consuetudine grazie alle carte
d’archivio era un’arma concreta ed efficace nella competizione tra
paesi. Lasciare alle città italiane i documenti che provavano il loro
libero passato comunale, riferiva nel 1811 l’archivista imperiale
Daunou, inviato a ispezionare gli archivi della Penisola, era
politicamente sconsigliabile: «Se questi pezzi restano negli archivi
municipali, daranno luogo presto o tardi a pretese e reclami per lo meno
scomodi».
Perciò alle conquiste di Napoleone seguiva regolarmente
la confisca degli archivi; a volte, come accadde dopo l’occupazione
della Spagna, l’imperatore la considerava così urgente da ordinare che i
documenti fossero mandati in Francia usando gli stessi cassoni che
avevano trasportato il biscotto per la truppa. Il possesso dei documenti
avrebbe permesso agli storici di regime di scrivere una nuova storia
secondo le convenienze dell’impero: l’archivio del Sant’Uffizio
sequestrato a Roma doveva dimostrare le malefatte del potere papale, e
Napoleone ordinò di indagare fra le carte «per sapere se ci sono esempi
di imperatori che abbiano sospeso o deposto dei papi».
Alla caduta
di Napoleone seguì l’inevitabile controesodo: le potenze vincitrici
sguinzagliarono a Parigi non soltanto cacciatori di opere d’arte rubate,
antesignani dei Monuments Men celebrati da un recente film di George
Clooney, ma cacciatori di documenti. Tutto tornava indietro, tutto
tornava come prima? Non proprio: come in molti altri ambiti toccati dal
terremoto napoleonico, a dispetto dei proclami i vincitori avevano tutto
l’interesse ad approfittare dell’occasione. E così, mentre i fondi del
grande Archivio di Corte torinese sottratti ai Savoia tornavano a Torino
(in attesa che una parte di quei fondi fosse di nuovo rapinata dalla
Francia dopo la sconfitta dell’Italia nella Seconda Guerra Mondiale), i
documenti genovesi recuperati a Parigi non tornarono a Genova, ma
presero anch’essi la via di Torino.
Sacrificata alla Realpolitik
della Santa Alleanza, la millenaria repubblica non era stata restaurata,
anzi, per suprema beffa, Genova era stata regalata ai Savoia, che da
sempre odiava e temeva; puntualmente, il governo sabaudo giudicò
sconveniente «lasciare a Genova certi titoli e carte che sono troppo
importanti». Per quanto il suo nome fosse pubblicamente esecrato,
Napoleone aveva insegnato ai sovrani europei parecchie cose di cui
avrebbero dovuto essergli grati.