il manifesto 29.1.19
La vocazione globale del capitalismo
Percorsi.
Un sentiero di lettura per orientarsi sui processi in corso della
globalizzazione e sulle nuove necessità degli stati-nazione
di Benedetto Vecchi
La
globalizzazione è un fenomeno irreversibile nonostante le forti
tendenze di un ritorno alla dimensione nazionale nel governo dello
sviluppo economico. Ma anche se tali tendenze prevalessero non ci
sarebbe nessun ritorno al passato perché è stata proprio l’azione di
alcuni stati-nazione a favorire la costituzione di una economia
mondiale. Assistiamo, dunque, alla nota polarità tra la vocazione
globale del capitalismo e una dimensione locale, nazionale del governo
politico di tale processo.
SIGNIFICATIVO a questo proposito è il
ruolo svolto da organismi sovranazionali, come la Banca Mondiale, il
Fondo monetario internazionale il Wto, nel radicalizzare la dimensione
globale dell’economia capitalistica, determinando le condizioni di una
«iperglobalizzazione» che manifesta l’ostilità verso la dimensione
politica locale, cioè nazionale dalla quale la globalizzazione ha pur
preso le mosse.
In questa situazione, emergono sulla scena
pubblica identità collettive che sfoggiano con disinvoltura una critica
corrosiva verso le cristallizzazioni conservatrici, talvolta
reazionarie, delle identità collettive del passato. A manifestare questi
punti di vista non sono apologeti della globalizzazione capitalistica,
bensì studiosi – come Colin Crouch o Dani Rodrik – che hanno espresso
una documentata critica alla dimensione neoliberista che l’ha
contraddistinta.
LA CRISI FINANZIARIA del 2008 ha però reso
manifesto l’esaurirsi della spinta propulsiva dell’economia mondiale e
la necessità di una rinnovata analisi proprio sulla irreversibilità
della globalizzazione, partendo dal ritorno sulla scena di quel
protagonista dello sviluppo capitalista che si è soliti chiamare
stato-nazione.
Infine, diviene urgente affermare che il
capitalismo non prevede, come i sostenitori della «iperglobalizzazione»
sostengono, un solo modello sociale e politico fondato sul lento
ritirarsi dello stato nazione dalla scena pubblica. Il crescente potere
politico, economico, militare acquisito dalla Cina, ma anche dalla Corea
del Sud e dall’India, segnala semmai che la globalizzazione più che
sull’omogeneità fa leva su una dinamica pluralità di modelli sociali e
politici, attivamente promossa dai governi nazionali come valore
aggiunto di una economia che aspira a diventare globale.
A
dipanare questa matassa aiutano due recenti libri di Dani Rodrik e Colin
Crouch. Il primo, economista di origine turche, formatosi alla scuola
di Albert Hirschman e autore, alla fine degli anni Novanta, del
fortunato Il Paradosso della globalizzazione (Laterza), torna in
libreria con una raccolta di scritti pubblicata da Einaudi con il titolo
Dirla tutta sul mercato globale (pp. 312, euro 19), una meditata
riflessione su come gli ultimi decenni siano da considerare un punto di
svolta irreversibile nelle relazioni economiche, sociali e politiche del
capitalismo. Il secondo saggio è Identità perdute (Laterza, pp. 130,
euro 15) di Colin Crouch. Sono inoltre rilevanti i riferimenti alla
cultura politica «sviluppista» di Cina e India, dove lo stato nazione è
stato ed è l’indiscusso protagonista nell’organizzare e gestire le
risorse finanziarie e «comunitarie» (cioè la cooperazione sociale del
lavoro vivo) dei rispettivi paesi per favorire lo sviluppo economico.
Per
entrambi gli autori, il vero arcano da svelare è però come il
capitalismo abbia usato la leva del lavoro – i suoi diritti, il suo
sfruttamento, la capacità di innovazione e di cooperazione del lavoro
vivo – per favorire quella vocazione globale dello sviluppo economico
che richiede una gestione nazionale, locale, cioè limitata nel tempo e
nello spazio da parte dei governi, sia se è segregato negli sweatshop
presenti nella periferia o al centro dell’«impero», oppure regolamentato
(ma sarebbe meglio dire deregolamentato) secondo le normative vigenti
giuslavoriste nazionali o internazionali.
È SULLA ETEROGENEA
composizione del lavoro vivo, sulla sua capacità di innovazione
produttiva o nel dare forma ai diritti sociali che si misura la tenuta
della globalizzazione, al di là della rappresentazione che ne danno il
Fondo monetario internazionale o la Ue, diventati i cani da guardia di
una austerità che viene elevata a metafisica dello sviluppo economico,
nonostante la realtà abbia ampiamente smentito tale fede salvifica e
anche indipendentemente dal fatto che viene periodicamente riproposta
come monito verso chi persegue supposti e improbabili egoismi nazionali.
C’è
tuttavia una assenza macroscopica nei saggi di Rodrik e Crouch.
Riguarda i modelli organizzativi emergenti in questa tensione tra
stato-nazione e globalizzazione. È su questo crinale che assume
rilevanza la provocazione teorica rappresentata dal volume di Paolo
Gerbaudo The Digital Party (Pluto press, pp. 323).
IL LIBRO MUOVE i
passi dall’antico adagio del pensiero critico che invitava a sovvertire
le forme più avanzate dell’organizzazione produttiva per costruire
partiti finalizzati all’abolizione dello stato di cose presenti. Il
politico più temerario in questa operazione è stato sicuramente Lenin,
che propose di modellare il partito bolscevico secondo le logiche
dell’organizzazione scientifica del lavoro.
Il modello del partito
bolscevico leninista aveva alle spalle le esperienze maturate nella
socialdemocrazia tedesca di inizio Novecento, quando i dirigenti di quel
partito operaio plasmarono il loro partito sulla falsariga del modello
bismarckiano: la conquista dello stato era l’obiettivo prioritario per
la trasformazione della realtà capitalistica. E tuttavia la suggestione
leninista si proponeva di superare quei limiti facendo leva sulla
capacità di una avvertita e «colta» avanguardia intellettuale che
offrisse una coscienza di classe dall’esterno dell’organizzazione
politica. Gerbaudo evoca, invece, le tesi dei filosofi conservatori
della politica (Robert Michels, Vilfredo Pareto) per sottolineare il
fatto che il modello del partito di massa e operaio era funzionale più
che al cambiamento dei rapporti sociali allo sviluppo di un potere
oligarchico nella società. L’unico riferimento al marxismo eterodosso è,
infatti, quello riservato a Antonio Gramsci, laddove il dirigente
comunista italiano sottolineava i rischi di sclerosi burocratica del
partito di massa dovuta proprio alla crescita senza controllo della
burocrazia di partito preposta alla mediazione tra i militanti e la
leadership.
La critica di Gerbaudo alla burocrazia di partito è
indubbiamente debitrice nei confronti delle tesi dell’antropologo
libertario David Graeber contro la burocrazia, responsabile del «deficit
democratico» che caratterizza la democrazia rappresentativa. Gerbaudo
si dilunga quindi sull’evoluzione del partito di massa attraverso il
partito televisivo e l’attuale partito digitale, forme politiche che
hanno provato a rimuovere o ridimensionare il ruolo della burocrazia nel
limitare lo sviluppo di meccanismi «realmente democratici» per quanto
riguarda il meccanismo decisionale.
Il digital party non sarebbe
dunque altro che l’adattamento delle piattaforme digitali e dei modelli
organizzati di Google, Facebook, Twitter a una dimensione politica.
Cogliendo inoltre l’omologia tra precarietà e riduzione del numero dei
funzionari, ormai un gruppo di lavoratori part time o free lancers,
Gerbaudo invita a considerare le sperimentazione di democrazia radicale
portata avanti da forze politiche come Podemos, France Insoumise di
Melanchon e il gruppo raccolto attorno al laburista Jeremy Corbin e,
soprattutto, al movimento cinque stelle.
LA PARTE PIÙ INTERESSANTE
del volume di Gerbaudo non sta tuttavia negli elogi, spesso sopra le
righe, rispetto il supposto superamento del deficit democratico da parte
dei gruppi politici citati, bensì nel fatto che tali sperimentazioni –
più che essere espressione di una democrazia diretta – sono tentativi di
trovare una soluzione alla crisi della democrazia rappresentativa. I
populismi digitali elencati da Gerbaudo più che rompere il monopolio
della decisione politica danno forma a una «democrazia agonistica», che
come scrive Chantal Mouffe coniuga il concetto di rappresentanza e la
possibilità di modificare in tempo reale i meccanismi di decisione
politica delle istituzioni rappresentative. Il partito digitale, dunque,
più che costituire una alternativa alla democrazia rappresentativa
altro non è che l’ultima incarnazione di quei tentativi oligarchici
analizzati da Michels che stavano dietro alla trasformazione
dell’organizzazione politica del movimento operaio in appendice allo
stato-nazione.
ANCHE QUI, come nella globalizzazione, emerge
l’opacità del conflitto che oppone i teorici della democrazia diretta
edi quella rappresentativa, dove il primo polo altro non è che una
versione mimetica del potere statale. Manca cioè ogni possibile idea di
controproposte, di autonomia, di superamento delle dipendenza dal
pensiero dominante. Il partito digitale, come lo stato- nazione, è parte
integrante delle forme di potere contemporanee. Per rompere tale
meccanismo manca ancora quel movimento auspicato proprio da Lenin che
voleva ribaltare in senso radicale e antagonista le forme produttive
dominanti nel capitalismo contemporaneo.
SCHEDA, I LIBRI
1) La cloud mimetica del partito
Paolo
Gerbaudo è un «cervello in circolazione» che ha trovato radici in
Inghilterra ( Kings College di Londra), dove hanno preso forma le sue
ricerche sui movimenti sociali. Nel 2012 esce Tweets and the Streets
(Pluto press) sugli indignados, Occupy Wall Street e le primavere arabe
seguito da The Mask and the Flag (Hurst&Company). The Digital
Party (Pluto press) è’epilogo dei precedenti saggi. L’autore si misura
con le organizzazioni politiche che nascono come espressione dei
movimenti sociali. Passa in rassegna forze politiche entrate nella
stanza dei bottoni (i 5stelle), che intrattengono relazioni di non
ostilità con partiti al potere (Podemos) o sono in attesa di elezioni
dove i sondaggi le danno per vincenti. Per Gerbaudo il «partito
digitale» è una evoluzione di quello televisivo, con il quale condivide
la produzione di opinione pubblica attraverso la riduzione della
comunicazione ad aggregato ragionato di informazioni. Il digital party
non è l’ultima versione del partito politico, bensì solo una tappa di un
fenomeno che continuerà a macinare sperimentazioni delle quali il
movimento sociale ne è solo un povero simulacro.
2) Globalizzazione e identità multiple
Colin
Crouch è ritenuto il miglior teorico socialdemocratico europeo. E lo
studioso più avvertito riguardo la necessità che la sinistra debba
innovare il suo bagaglio teorico. È l’intellettuale che ha indicato la
cosiddetta «postdemocrazia» come il rovello su cui applicare
l’intelligenza collettiva dato che è un regime politico che non vede lo
spostamento della decisione politica dai parlamenti nei circoli di élite
che sfuggono a qualsiasi forma di controllo popolare. Per Crouch non
c’è nessuna sospensione di elezioni, i diritti civili e sociali: semmai
questi elementi sono subalterni ai vincoli e compatibilità definite
dalle élite globali al riparo dai media e dell’opinione pubblica. In
questo volume sulle Identità Perdute (pp. 130, Laterza, euro 15), Crouch
assume la provocazione di Zygmunt Bauman sulle identità liquide come
una chance per immaginare un mondo dove l’identità smette di essere una
camicia di forza per assumere le vesti di una pluralità e eterogeneità
di appartenenze e relazioni sociali.
3) L’ospite inatteso, tra luci e zone d’ombra
Dani
Rodrik è una delle figure di economista che, dopo una formazione
mainstream, ha cominciato a esercitare una critica verso la
globalizzazione neoliberista. Di origine turca, formatosi con Albert O.
Hirschman, docente ad Harvard, ha messo a fuoco la necessità di alcune
istituzioni nazionali e internazionali nel dare regole allo sviluppo
economico. Convinto che il capitalismo manifesta una vocazionale
globale, ha messo l’accento sul ruolo progressivo svolto dallo
stato-nazionale tanto nel sviluppo economico che nella globalizzazione.
Solo quando quest’ultima prende congedo dall’urgenza di un suo governo
politico entra in quella fase che Rodrik chiama di «iperglobalizzazione»
(limitata nel tempo). Sostenitore della pluralità delle forme di
capitalismo ha visto nello sviluppo cinese e indiano uno degli esempi di
modello capitalista che fonda le sue radici nella dimensione nazionale e
nel ruolo propulsore dello stato. Da qui il titolo del suo libro più
noto (Il paradosso della globalizzazione, Laterza), dove analizza
proprio la vocazione globale dell’economia e le sue radici statali e
nazionali. In Dirla tutta sul mercato mondiale (Einaudi, pp. 312, euro
19) riprende molti dei temi dei suoi precedenti saggi unendoli a una
dettagliata cronaca degli ultimi decenni di globalizzazione, spaziando
dall’Europa (e i conflitti attorno all’austerità, manifestando critiche
ai comportamento dell’Unione europea nei confronti della Grecia) alla
Cina, alla Turchia, all’India. Ne esce fuori un affresco dove le zone
d’ombra prevalgono sulle luci di un periodo storico basato sulla
cancellazione dei diritto sociali di cittadinanza e del lavoro.