il manifesto 15.1.19
Frigga Haug
«Provare a essere realisti e rivoluzionari»
La
Rosa rossa 1919-2019. Intervista a Frigga Haug, della Fondazione Rosa
Luxemburg: «Lei mostra la crisi e la guerra come catastrofi che
contengono anche la possibilità del cambiamento». «Non era femminista,
ma ha punti essenziali per un movimento di liberazione delle donne, come
l’auto-attivazione degli sfruttati a partire dalla loro esperienza»
di Beppe Caccia
BERLINO
Nata nel 1937 nel bacino della Ruhr, Frigga Haug è una delle sociologhe
e filosofe che, dalla fine degli anni Sessanta in poi, hanno lasciato
il segno nei passaggi cruciali del dibattito della sinistra e dei
movimenti in Germania. Lo ha fatto nel superamento dell’ortodossia
marxista, nel continuo contributo al pensiero e alla pratica del
femminismo, nel campo della psicologia critica. Vicina alla Linke e
componente del Comitato scientifico della Rosa-Luxemburg-Stiftung, si
può dire che la sua elaborazione sia sempre stata in costruttivo dialogo
con l’opera della rivoluzionaria ebreo-polacca.
Sei l’autrice che
più di chiunque altro ha valorizzato il concetto luxemburghiano di
“realismo rivoluzionario”. Puoi riassumerlo qui di nuovo? Come pensi sia
possibile evitare che il richiamo al “realismo” diventi cinico
adattamento all’esistente e quello alla “rivoluzione” pura fantasia
ideologica?
Luxemburg lo definisce come rottura con ogni idea
precedente di politica. Dà questo nome alla propria politica, forzando
la contraddizione in un solo concetto e mettendola in tensione. Critica,
al tempo stesso, i riformatori sociali che si concentrano solo sul
miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori e quelli che
lottano unilateralmente per la rivoluzione in nome di un’altra, futura
società. Se una politica socialista non fa delle condizioni di vita
della classe operaia il suo punto di partenza, cioè se la situazione
concreta della classe viene scavalcata con utopica esuberanza, la
prospettiva socialista rimane una pura illusione. La politica socialista
ha quindi bisogno tanto della lotta per migliorare le condizioni di
vita, quanto della prospettiva di una società alternativa. Il punto
cruciale per la Luxemburg è «come» connettere realpolitik e prospettiva
rivoluzionaria. In linea generale, la sua proposta pratica è dare ai
lavoratori la possibilità di plasmare la loro società, di governarla. È
da qui che il contesto del suo pensiero politico può essere decifrato.
La politica diventa «politica dal basso», cioè determinata dall’idea che
sono gli stessi lavoratori che devono prendere in mano la società.
Questo è il suo incondizionato punto di contatto con i nuovi movimenti
sociali, specialmente quelli femministi.
l tuo seminale volume del
2007 non è uno studio sul ruolo di Rosa Luxemburg nella storia del
movimento operaio tedesco, né una sua biografia. Ma si concentra su
alcuni nodi di quella che qualifichi come “l’arte della politica” della
rivoluzionaria ebreo-polacca. Che cosa intendi con questa definizione?
In che misura il riferimento all’ “arte” include quello a “poiesis” e
“praxis”?
Descrivere la sua politica come arte non significa rinviare
alle «belle arti» e contendere un posto in questo campo. Ma intendere
la politica come un’opera che ha bisogno di studio, di senso del
cambiamento e di fantasia. Un forte investimento intellettuale, capace
di comprendere i rapporti di forza, e al tempo stesso di intuire in modo
che il potere possa servire al benessere di chi sta in basso, in modo
tale che le cose non rimangano tali e quali sono. Rosa Luxemburg
pretende una politica che si adoperi per abolire se stessa come attività
specialistica, così come i buoni insegnanti non vogliono che gli alunni
rimangano tali, ma insegnano imparando essi stessi e trasformando gli
alunni in insegnanti. In questo modo la politica deve rivedere
criticamente le esperienze della storia umana e anticipare altre
possibilità. Deve fondarsi sulla resistenza contro l’ordine dominante, e
sull’accordo per l’istituzione di un nuovo ordine. Mostra la crisi e la
guerra come catastrofi e, allo stesso tempo, vede come queste immani
distruzioni dell’ordine tradizionale contengano anche la possibilità del
cambiamento. Questa visione rende necessario individuare quali siano le
risposte sbagliate che si danno a domande familiari, ad esempio se si è
pro o contro il Parlamento, perché non pensa in termini di semplici
opposti.
In questo momento “Ni Una Menos” è forse l’unico movimento
globale. Non a caso è un movimento femminista. Sebbene Rosa Luxemburg
non abbia prodotto specifici scritti sulla questione, tu hai sempre
insistito sulla rilevanza del suo contributo per i movimenti delle
donne. Come può il suo pensiero contribuire a questa nuova ondata
femminista?
Rosa Luxemburg non ha scritto molto sulle donne. Poco
rispetto al contributo della sua amica Clara Zetkin. Certo ha denunciato
la «vita familiare filistea» della Germania, e ha descritto le donne
proletarie come «le più povere tra i poveri e prive di diritti tra i
senza-diritti», ma è difficile pensare a lei come femminista. Vi sono
tuttavia, nel suo pensiero politico, punti essenziali di sostegno per un
movimento di liberazione delle donne. Luxemburg insiste molto
sull’auto-attivazione delle masse sfruttate, sul loro auto-sviluppo a
partire dalla propria esperienza, in breve sul loro apprendimento dalla
prassi collettiva. Non è forse un’indicazione preziosa per il movimento
delle donne? Anche qui si tratta dell’autoemancipazione. Sono sempre
stata convinta che sacrificare se stessi sia un atto e non un destino.
Perché noi stessi portiamo spesso dentro di noi il dominio che vogliamo
eliminare. Le donne devono prendere il loro destino nelle loro mani. La
forza di cambiare la società patriarcale sorgerà solo dall’azione delle
donne stesse. È questa una lezione ancora valida.
Come si porrebbe infine oggi Rosa Luxemburg di fronte al “ciclo politico reazionario” che sembra sopraffarci?
Lei
stessa si è trovata in uno stato di profonda disperazione quando la
classe operaia internazionale non si unì contro la guerra, ma ognuno
appariva pronto a combattere solo per la propria «patria». Ma – con
«ero, sono e sarò» – affermò che la resistenza al dominio avrebbe
permesso alle persone di rendere sostenibile la propria società. La
crescita delle destre non può che essere contrastata in questo modo ad
ogni livello, attraverso un rinnovamento critico e autocritico degli
strumenti del pensiero.