il manifesto 15.1.19
Quando Il Manifesto ri-scoprì l’attualità dei Consigli
La
Rosa rossa 1919-2019. Riconobbe il valore del partito ma sostenne che
per la presa del potere vanno costruiti organismi per assumere la
gestione della società, che non poteva essere assorbita solo dal partito
o dallo Stato. La sua tematica «consiliare» - come poi quella di
Gramsci - è stata tra i fondamenti della nostra storia. E oggi torna
all’ordine del giorno
di Luciana Castellina
Che intrecci
significativi suggeriscono gli anniversari, in particolare questi
centennali, sessantennali, cinquantennali accavallati attorno al ‘68 e
‘69, che furono gli anni di un’insorgenza che induceva a riscoprire un
marxismo più vicino alle domande del presente. Solo una settimana fa è
stato naturale allacciare il ’59 della rivoluzione cubana e il Che al
nostro sessantotto. E ora Rosa Luxemburg, che per noi fu, ancora una
volta nel 68, una scoperta determinante. Perché noi non avevamo messo in
discussione solo la linea del Pci e dei sindacati, ma lo stesso modo di
essere di queste istituzioni della classe ormai largamente
burocratizzate; così come la deriva autoritaria dell’Unione sovietica.
Tutti temi che avevano spinto la grande Rosa a ricercare nuove
soluzioni.
Dico scoperta della martire rivoluzionaria spartachista,
perché nella cultura comunista ortodossa di questa marxista sempre un
po’ eretica, che si azzardò a criticare Lenin ( che tuttavia continuò a
definirla «un’ aquila») avevamo sempre saputo poco.
Ma nei fantastici
anni ’60 l’Italia aveva cominciato ad aprirsi alle correnti marxiste
maturate fuori dall’alveo ufficiale; e così anche Rosa giunse fra noi.
Immediatamente insediandosi, come punto di riferimento essenziale, nel
cuore del Sessantotto; e, naturalmente, de Il Manifesto.
A portarcela
fu soprattutto Lelio Basso, questo singolare socialista di sinistra,
che con la sua rivista «Problemi del socialismo» aveva già e non poco
contribuito ad allargarci la testa. Lo fece pubblicando, con una sua
introduzione, un illuminante volume di scritti di Rosa Luxemburg, che
aiutò la ricerca che i compagni che poi dettero vita al Manifesto, Magri
e Rossanda in particolare, erano già andati conducendo sulla tematica
consiliare e sul rapporto spontaneismo/partito. Che è poi il tormentato
problema della coscienza di classe: se nasca dalla e nella prassi della
lotta, o se sia portata, e come, dall’esterno.
A provarlo basti
sfogliare i numeri del Manifesto rivista e ritrovare un prezioso volume –
«Classe, consigli e partito», quaderno n.2, pubblicato nel giugno 1974
dal nostro editore di riferimento, Alfani – che raccoglie scritti di
Magri, Maone, Rossanda e un’intervista a Jean Paul Sartre.
Per Rosa
Luxemburg la tematica consiliare era molto importante: costituiva la
critica ai limiti del governo dei commissari del popolo in Russia senza
tuttavia accettare l‘ipotesi del parlamentarismo borghese. A parte
qualche frangia che aveva con qualche faciloneria pensato bastasse
affidarsi alla mera spontaneità, noi fummo conquistati dall’ipotesi,
delineata da Rosa Luxemburg, di costruire questa terza struttura,
esercizio di un potere dal basso, capace di mediare fra partito e
movimento e di riappropriarsi della gestione della società: i consigli
per l’appunto.
Rosa vi aveva accennato anche nella sua critica al
gruppo dirigente bolscevico, facendo notare che la scomparsa delle
classi non rende di per sé univoche le opinioni e che dunque la
soppressione delle libertà politiche non colpisce solo i nemici, ma si
ritorce fatalmente contro la classe che la decide, perché si traduce in
isterilimento della ricerca e nella burocratizzazione.
Rosa, in
realtà, sebbene proprio di questo sia stata rimproverata
dall’Internazionale, spontaneista non è stata mai, né mai ha negato
l’importanza di un’avanguardia organizzata, il partito, giacché la
classe ha bisogno – ha sempre sostenuto – di una strategia unificante. E
però anche di arrivare a prendere il potere avendo costruito organismi
capaci di assumersi la gestione della società, che non poteva essere
tutta assorbita dal solo partito o dallo stato.
È proprio a questa
ipotesi consiliare che anche Gramsci lavorò già ai tempi dell’Ordine
Nuovo, assai più esaurientemente nei «Quaderni dal carcere», riprendendo
l’idea luxemburghiana di dar vita a forme permanenti di democrazia
organizzata, espressione di un potere che via via si sostituisce a
quello storicamente espropriato dallo stato. I Consigli di fabbrica (e
poi quelli di Zona) che cominciano a sorgere nel ’69, pur con tutti i
loro limiti, a questa prospettiva intendevano rispondere: organismi
politici e fuori dalla dimensione puramente sindacale, non istituiti per
gestire la fabbrica, ma anzi per contestarne il suo modello di
produzione.
Il Pci, e il sindacato, non prestarono attenzione alle
potenzialità che quell’esperienza aveva sollecitato, così perdendo la
grande occasione di fondarvi la propria rivitalizzazione. Noi troppo
deboli per andar oltre un pur ricco contributo alla riflessione e a
qualche significativa esperienza pratica. Oggi però la sua attualità ci
si ripresenta con forza, proprio per affrontare la crisi grave della
democrazia rappresentativa che viviamo non solo in Italia.
Per dare
una risposta positiva alla richiesta di forme di democrazia diretta che
salgono dalla società, ma senza cadere nella demagogia del ricorso ai
referendum, o nella democrazia digitale ridotta ad un non meglio
identificato «clic», oppure fermandoci ad evocare i meriti della
democrazia rappresentativa, che senza adeguate forme di partecipazione,
perde sempre più di senso. Né richiudendosi nello sterile confronto su
partiti sì partiti no, bensì attrezzandosi a costruire gli strumenti
suggeriti da Rosa e poi da Gramsci per impedire la loro involuzione
autoreferenziale e dare concretezza all’idea della rivoluzione come un
processo che muove dalla società.