domenica 13 gennaio 2019

il manifesto 13.1.19
Foucault regola i suoi conti con Marx
Lezioni. Con «Teorie e istituzioni penali», Feltrinelli completa i corsi tenuti al Collège dal filosofo francese
di Pierpaolo Ascari


Nel tardo pomeriggio di un mercoledì di marzo, pochi mesi prima di morire, Michel Foucault si congedò dall’aula in cui aveva appena pronunciato la sua ultima lezione dicendo: «Ascoltate, avevo delle cose da aggiungere sul quadro generale di queste analisi, ma insomma, è troppo tardi». Sono le parole con cui termina Il coraggio della verità e si conclude una vita, ma che in qualche modo potrebbero tornare a farsi sentire ancora oggi con l’uscita di Teorie e istituzioni penali (a cura di Deborah Borca e Pier Aldo Rovatti, pp. 352, euro 35.00) che venti anni dopo la traduzione di Bisogna difendere la società completa l’edizione Feltrinelli dei corsi tenuti da Foucault al Collège de France.
Ora che un bilancio è possibile, capiamo come al lettore di quei corsi venisse data l’opportunità non solo di approfondire la conoscenza di alcuni concetti o della loro incubazione, ma di entrare direttamente in contatto con qualcosa di molto simile alla prossemica di un pensiero in azione, ai gesti che gli consentivano di orientarsi nello spessore antropologico del presente. Le pagine di Teorie e istituzioni penali meritano comunque un’attenzione specifica.
I Piedi scalzi repressi
Siamo nel 1971, Sorvegliare e punire, che di quelle lezioni avrebbe tenuto ampiamente conto nella parte conclusiva, è in cantiere, e Foucault si ritrova impegnato nel lavoro militante del Gruppo di informazione sulle prigioni: la sua risposta alla repressione del Sessantotto. Non a caso, il corso di quell’anno lo avrebbe dedicato allo studio di un’altra repressione, quella voluta da Richelieu nei confronti dei Piedi scalzi, il movimento che nel 1639 era insorto contro l’inasprimento della pressione fiscale in Normandia, quando la grande aristocrazia feudale non fu più in grado di assicurare il controllo del territorio e il re spedì l’esercito a combattere la popolazione, come fosse un nemico esterno. Mentre si assisteva all’esecuzione sommaria di contadini e pezzenti, all’allestimento dei patiboli, ai cadaveri che rimanevano appesi per settimane ai portici delle case, lo spettacolo della guerra cominciava tuttavia ad approfondire le linee di faglia che separavano le varie parti del corpo sociale, dando alla borghesia cittadina l’opportunità di aderire spontaneamente alla resa.
Foucault sottolinea a più riprese questa prospettiva, rendendo plausibile il sospetto che stesse già anticipando la definizione di un potere il cui scopo non si limita al reprimere, bensì fissa al tempo stesso una norma, in quanto forma più desiderabile e dunque naturale di assoggettamento. La regola degli effetti laterali, in altre parole, cioè il fatto che la pena debba produrre conseguenze più decisive proprio presso coloro che non hanno commesso l’errore, potrebbe rappresentare il modo in cui Sorvegliare e punire ci consente di articolare il passaggio dal potere che in Teorie e istituzioni penali ancora reprime, alla dimensione produttiva e disciplinare dei corsi sul potere psichiatrico (1973-1974) e su quegli individui che vennero definìti gli «anormali» (1974-1975).
Con la sedizione dei Piedi scalzi, in ogni caso, apparve evidente qual era il mandato che le forme prestatali di repressione stavano per passare in consegna alle nuove tecnologie di controllo e al disciplinamento della popolazione. L’esercito sarebbe rimasto alle porte di Rouen, infatti, dove la giustizia civile intervenne solo nei primi giorni del 1640, creando l’intervallo necessario alla borghesia per ambientarsi nello spazio politico compreso tra il declino del feudalesimo e l’emergenza delle classi sediziose. Ma mantenere i soldati nelle campagne costava caro, oltre a indebolire i confini, e così le funzioni della guerra interna sarebbero state presto trasferite nell’armamento di una nuova milizia, la polizia, della quale Teorie e istituzioni penali stabilisce la dinastica.
La polizia – dice Foucault – non è tanto una risposta alla delinquenza o un’emanazione diretta della struttura economica, quanto una soluzione militare al problema delle lotte al potere. E sarà sullo stesso terreno presidiato dalla polizia che, in nome della prevenzione, potranno finalmente fiorire tutti i saperi di ordine psicologico, statistico, sanitario e pedagogico che si attivano nella storia dei condizionamenti reciproci tra l’accumulazione degli uomini e l’accumulazione dei capitali. Teorie e istituzioni penali è anche il primo atto di un «grande regolamento dei conti con il marxismo», come lo definisce Étienne Balibar in appendice al volume, che attraverso il confronto con Althusser e una rilettura nietzscheana di Marx, assegna alla morfologia del potere un ruolo creativo nello sviluppo del modo di produzione.
Le forme del potere
Al lettore potrà far comodo tenere a portata di mano l’indicazione data dallo stesso Foucault nel corso di un’intervista del 1975 al Magazine littéraire, dove a proposito delle critiche marxiste a Sorvegliare e punire dichiara: «Io cito Marx senza dirlo, senza mettere le virgolette, e siccome loro non sono capaci di riconoscere i testi di Marx, passo per quello che non lo cita. Ma per caso quando un fisico fa della fisica, sente il bisogno di citare Newton o Einstein?» Proprio come segnalava Marx al termine del primo libro del Capitale, allora, sarà opportuno considerare che anche la creatività del potere descritta in Teorie e istituzioni penali può assumere di volta in volta le forme più diverse, spaziando dalla messa a morte dei Piedi scalzi fino agli effetti laterali della guerra tuttora in atto contro chi non ha un tetto, contro chi sciopera, contro i migranti e i loro figli.

Corriere 13.1.19
Elzeviro Torna Furio Jesi, con inediti
La Germania e i suoi miti avvelenati
di Donatella Di Cesare


Singolare destino, quello di Furio Jesi, intellettuale poliedrico, egittologo e antichista, germanista e storico delle religioni, così presto dimenticato dopo la sua morte prematura, avvenuta nel 1980, quando non aveva ancora quarant’anni. Eppure a lui si devono libri attualissimi che vale la pena rileggere. Ad esempio la raccolta Cultura di destra, che contiene pagine su Giosue Carducci, Gabriele d’Annunzio, Luigi Pirandello, Julius Evola, sull’antisemitismo e sul neofascismo, uscita qualche anno fa, nel 2011, dalla casa editrice nottetempo, che ora pubblica la nuova edizione (con testi inediti) di un’opera originalissima del 1967: Germania segreta. Miti nella cultura tedesca del ’900 (pagine 384, e 18). L’ha curata Andrea Cavalletti che ha scritto un saggio introduttivo.
Ebreo torinese, esponente di quella intellighenzia di sinistra che sembra oggi scomparsa o messa a tacere, Jesi è stato quasi ossessionato dall’inquietante domanda sulla tradizione tedesca e sulle origini del nazismo. In che modo da quella cultura, che lui amava e ammirava, è scaturita la religione della morte che ha alimentato il dodicennio nero? Jesi interroga scrittori, intellettuali, filosofi.
Emblematiche sono le parti dedicate a Thomas Mann, simbolo della borghesia tedesca e della sua parabola di complicità, autore di quelle Considerazioni di un impolitico, che testimoniavano già nel 1918 l’adesione al germanesimo, la polemica patriottica contro i pacifisti, il rifiuto della democrazia occidentale.
Ma Thomas Mann si fermò, anche se era già troppo tardi, se non altro per denunciare quel che accadeva già nella Repubblica di Weimar e per cercare in quella stessa cultura tedesca le «forze guaritrici». Le cose andarono diversamente per Gottfried Benn, un «grande poeta», e per Martin Heidegger, un «grande filosofo» che, oltre tutto, in quanto sudditi di Hitler, conobbero le mostruosità del nazismo.
È il mito la chiave di volta dell’ermeneutica di Jesi, amico e per molti versi allievo del famoso filologo e storico ungherese Károly Kerényi. Il mito è racconto spontaneo, narrazione condivisa, fino a quell’articolazione dell’inconscio collettivo di cui parlava Gustav Jung; ma proprio per questo può diventare anche strumento di propaganda politica, come avviene nel fascismo europeo. Allora l’irrigidito mito del passato, viene piegato per rivitalizzare il presente: il suo potere coesivo, intensificato dai mezzi di comunicazione, spinge le masse alla sottomissione, fino all’ingresso incauto nel totalitarismo. Così scrive Jesi: «Nella cultura tedesca degli ultimi cent’anni il mito sembra essere di volta in volta medicina e veleno, sorgente di rinnovato umanesimo e strumento di barbarie e di delitto». Sta qui il segreto: nella vicinanza, quasi intimità, tra le forze misteriose dell’arte e gli orrori demonici.
Alla luce di questa ermeneutica Jesi può allora indagare l’esoterismo nazista smascherandolo come «alterazione del mito». Valga per tutti l’esempio della «Società Thule», a cui appartenevano Dietrich Eckart e Alfred Rosenberg, ideologi del Terzo Reich. Si trattava di un gruppo molto attivo in Germania già ai primi del secolo, il cui nome era ripreso dalla mitica Thule, l’isola scomparsa nell’estremo Nord, quella civiltà perduta e rimpianta, da cui un giorno — così nel racconto nazista — sarebbero sorte le potenze capaci di preconizzare l’uomo nuovo hitleriano. Di affascinanti miti segreti e pratiche magico-rituali è pieno il nazismo — spiega Jesi, che è stato tra i primi a indagare anche il mito del sangue.

il manifesto 13.1.19
Il sesso è ribelle all’umo come l’uomo a Dio
Saggi. Esce da Gallimard, "Les aveux de la chair", dove Michel Foucault ripercorre la genesi della confessione nella prospettiva del tema che lo assilla nei primi anni ’80: il rapporto del soggetto con la verità
di Andrea Calzolari

Da quando Pierre Janet, nel 1903, scrisse che la confessione sembrava inventata da un alienista geniale che intendeva studiare gli ossessi, l’analogia tra il confessore e lo psicoanalista è stata ripetutamente riproposta, diventando un luogo comune. Ma, un secolo prima di Janet, le Liaisons dangereuses avevano mostrato un altro aspetto della confessione nella pagina in cui la Merteuil, protagonista «cattiva» del romanzo, racconta di quando, adolescente, per informarsi sui piaceri proibiti del sesso, aveva dichiarato falsamente al confessore di aver fatto «quel che fanno tutte le donne»; le indagini e le domande del sacerdote, ansioso di salvare l’anima della giovanissima penitente, l’avevano così resa edotta proprio sui seducenti vizi da cui il prete avrebbe voluto distoglierla.
n quell’episodio Laclos inscena la spirale di sapere, potere e godere che Foucault ha messo al centro de La volontà di sapere: «Piacere di esercitare un potere che interroga, sorveglia, indaga, spia, fruga, palpa, porta alla luce; e dall’altra parte, piacere che arde di doversi sottrarre a quel potere, di fuggirlo, ingannarlo o travestirlo. Potere che si lascia invadere dal piacere che perseguita; e di fronte a lui, potere che si afferma nel piacere di mostrarsi, di scandalizzare o di resistere». Chi non ricorda questa pagina superba? Se non si conosce quel libro, si ignora uno dei vertici della coscienza contemporanea, e si resta sordi a domande che non smettono, e a lungo non smetteranno, di farci pensare.
Ma dopo La volontà di sapere (datata 1976), primo volume della Storia della sessualità, il progetto sembrò arenarsi: negli anni seguenti Foucault non pubblicò niente, mentre i corsi al Collège de France e l’intensa attività di conferenziere testimoniano sia lo spostamento dei suoi interessi dall’età moderna all’antichità, sia una rimodulazione dei vettori d’indagine. Nel 1984, lo stesso anno della morte dell’autore, uscirono L’uso dei piaceri e La cura di sé, i due volumi sull’«esperienza greco-latina degli aphrodisia»; da qualche mese, in Francia, è uscito finalmente anche il quarto volume, Les aveux de la chair (Le confessioni della carne, sul cristianesimo delle origini, a cura di Frédéric Gros, Gallimard, pp. 427, € 24,00) nella stesura, che Foucault non considerava definitiva, consegnata a Gallimard nel 1982, e quindi prima dei due precedenti lavori. Se restano tracce della mancata elaborazione finale (quattro frammenti che non si sa dove collocare sono annessi in appendice), il libro è già compiutamente organizzato, splendidamente scritto e talmente concentrato che è persino difficile estrapolarne qualche esemplificazione.
Basti un accenno a due temi cruciali, con cui Foucault sembra rispondere in anticipo alle obiezioni del filosofo medievista Alain de Libera, che nella ponderosa «archeologia del soggetto» a cui stava lavorando da una decina d’anni, criticava sia Foucault sia Heidegger, ai quali peraltro dichiaratamente si ispirava, per aver sostenuto che il soggetto è un’invenzione moderna. In realtà, nel pensiero medievale, secoli prima del cogito cartesiano, la questione del nesso tra la soggettità (il soggetto-sostanza, supporto di attributi: il sostantivo grammaticale) e la soggettività (il soggetto come io pensante e/o agente) fu posta e discussa, anche se per lo più sotto forma di dibattiti teologici o addirittura cristologici (del resto niente affatto alieni da raffinate analisi logiche).
Ora, Les aveux de la chair riconosce il ruolo cruciale del pensiero cristiano delle origini nella costituzione del soggetto cosiddetto moderno, a partire appunto dalla istituzione della confessione: la genesi del sacramento nei primi secoli della chiesa, già a lungo studiata dagli specialisti, è ripercorsa da Foucault nella prospettiva dei temi che lo assillano negli anni in cui scrive il libro, quelli in cui studia il rapporto del soggetto con la verità.
La novità del Cristianesimo
Non a caso il libro insiste nel distinguere concettualmente due modi della confessione, l’exomològesis e l’exagòreusis, che nella pratica si sovrappongono. L’exomològesis è propriamente un «far-vero» (una «veri-ficazione»), in quanto implica non solo ammettere le proprie colpe, ma dimostrare praticamente, ovvero performare il proprio pentimento al cospetto della comunità con digiuni e mortificazioni di ogni genere. Questa penitenza, che finirà per dare il nome al sacramento, ne costituisce però solo un aspetto, complementare all’exagòreusis, il «dire-vero» (o «veri-dizione»), cioè l’impegno a dichiarare i propri peccati nella maniera più esaustiva: ciò che presuppone un «esame ininterrotto di sé», connesso «alla confessione incessante all’altro» in modo tale, nota Foucault, che si può considerare quest’ultima come il «versante esteriore dell’esame, la sua faccia verbale volta verso l’altro».
L’exomològesis, l’exagòreusis e l’esame, veri-ficazione e veri-dizione, sfociano nell’obbedienza assoluta al direttore spirituale: rifacendosi a Cassiano e agli altri teorici del monachesimo, Foucault ricorda che l’ideale monastico comportava persino l’abdicazione a una volontà propria. Nello stesso ambiente monastico viene del resto elaborata la dottrina relativa alla direzione spirituale, descritta da Gregorio Nazianzeno come «l’arte delle arti, la scienza delle scienze», dove si stabilisce che può dirigere solo chi sa a sua volta obbedire.
Si viene così definendo la struttura del complesso apparato istituzionale, consolidatosi nei secoli, in cui il soggetto cristiano plasma se stesso e su cui si è fondato il potere della chiesa. Sta in questo quadro il tema della sessualità, la cui trattazione (focalizzata sull’amore coniugale e sulla verginità) culmina nell’ultimo capitolo di Les aveux de la chair, dedicato alla concezione agostiniana della libido che, sostiene Foucault, segna un passaggio fondamentale nella storia, non solo teologica, del concetto.
Nel fuoco delle polemiche contro manichei e pelagiani, Agostino aveva delineato un quadro destinato, pur con successivi sviluppi, a durare secoli, muovendo da una questione allora assai discussa: esisteva una sessualità nel paradiso terrestre? Per i manichei la sessualità, prodotta dal demiurgo malvagio, era irredimibile; per i pelagiani, essendo stata creata da Dio, non poteva essere in sé peccaminosa (condannabili erano solo gli eccessi, come per i moralisti classici).
Per Agostino nel paradiso terrestre il sesso era docile come qualunque altro organo, svolgeva cioè la sua funzione, come la mano, per esempio, senza alcuna oscenità e immune dalla attuale parossistica violenza. Perversioni, queste, che secondo Agostino, sono l’effetto della caduta: con una sorta di contrappasso, come Adamo si è ribellato a Dio, così il sesso si ribella alla volontà umana, una ribellione che si attesta appunto nella motilità autonoma, positiva o negativa (erezione o impotenza) del sesso maschile. In questa prospettiva, primariamente fallica, il sesso – scrive Foucault in una formula folgorante, «è per l’uomo ciò che l’uomo è per Dio: un ribelle. Uomo dell’uomo, eretto davanti a lui e contro di lui».
Sapere, potere, godere
Che la libido sia ereditata da tutti gli uomini venuti al mondo (tant’è vero che essa caratterizza necessariamente anche la sessualità lecita del matrimonio), non significa tuttavia che il peccato sia dovuto all’azione di una forza esterna all’anima (la carne che sovverte lo spirito) o a un conflitto tra la ragione e la volontà («et veggio ‘l meglio, et al peggior m’appiglio»). La libido, infatti, non è qualcosa di diverso dalla volontà stessa, in quanto non è che la sua forma decaduta. Per quanto forte sia la pulsione della libido, essa non potrebbe mai tradursi in atto, senza il consenso – concetto fondamentale in Agostino – della volontà, che nel peccato «vuole ciò che vuole la concupiscenza»; ed è tale consenso che rende il soggetto di concupiscenza soggetto di diritto, responsabile delle proprie azioni.
Questa la novità del Cristianesimo secondo Foucault: mentre per il pensiero antico non si trattava di analizzare la sessualità, ma «piuttosto di collocarla in un’economia generale dei piaceri e delle forze», il cristianesimo, con Agostino, fonda «l’analitica del soggetto della concupiscenza, dove sono legati, con nodi che la nostra cultura ha piuttosto rafforzato che allentato, il sesso, la verità e il diritto». È in queste parole, le ultime del libro, che andrebbe probabilmente letta la trasformazione, ma anche la continuità, di quel circuito di sapere, potere e godere di cui parlava la Volontà di sapere.

La Stampa 13.1.19
Il dilemma di Rosa Luxemburg
Il suo sì al putsch cambiò la storia della sinistra
di Gian Enrico Rusconi


Il 15 gennaio 1919, Rosa Luxemburg veniva assassinata, insieme con Karl Liebknecht, a Berlino da un gruppo di militari schierati con il governo della neonata repubblica tedesca. Era la conclusione della repressione feroce di quella che fu chiamata «la rivolta di Spartaco». Ma l’assassinio di Rosa fu compiuto a freddo e il suo corpo fatto sparire. L’obiettivo era quello di eliminare una personalità politica fuori dal comune, una studiosa marxista originale, una indomita pacifista. Donna sensibile ed emancipata, grande oratrice, sapeva affascinare la gente comune e intrattenersi polemicamente con eminenti intellettuali professionali. Tenace ma leale critica di Lenin - anche se soltanto nella agiografia successiva sarebbe stata stilizzata come la sua controfigura storica.
La sua grande personalità tuttavia non ci impedisce di porci interrogativi sulle giustezza politica della sua scelta finale. Ma sono interrogativi senza risposta. Soltanto un’audace e inverificabile ipotesi controfattuale può affermare che se Rosa Luxemburg fosse sopravvissuta e avesse valutato più realisticamente la situazione tedesca avrebbe potuto salvare il partito comunista tedesco dalla micidiale subordinazione al leninismo-stalinismo vincente. L’ipotesi però non è del tutto stravagante perché alcuni marxisti di ispirazione luxemburghiana avrebbero tentato invano questa strada. Si sarebbe evitata la smisurata ostilità (reciproca) verso la socialdemocrazia e la sua conseguenza fatale. La divisione tra i due partiti operai infatti è stata una delle ragioni decisive della paralisi della democrazia weimariana e dell’affermazione del nazionalsocialismo.
Invece l’assassinio di Rosa Luxemburg ha fossilizzato per decenni la memoria storica dell’antagonismo, morale prima ancora che politico, tra comunisti e socialdemocratici. Per i comunisti quel delitto era senz’altro il segno tangibile del tradimento della socialdemocrazia, messasi al servizio del capitalismo e decisa ad usare a questo scopo le forze armate «regolari» e quelle «volontarie» ostili alla stessa repubblica.
In realtà il governo socialdemocratico, consapevole dello scarso consenso della borghesia e del potenziale eversivo delle forze reazionarie ostili alla repubblica, puntava tutto sulla rapida costituzione di un sistema democratico con forti garanzie sociali. La repubblica (di Weimar - come si chiamerà) sarà il primo esempio di una democrazia politica strutturalmente saldata con gli istituti dello stato sociale. Specularmente però la socialdemocrazia condannava assolutamente l’esperimento sovietico leninista di cui erano evidenti gli aspetti totalitari, violenti e il caos economico. E quindi respingeva le sue imitazioni tedesche.
Nel giro di poche settimane dalla proclamazione della repubblica (9 novembre 1918) il movimento operaio, protagonista della rivoluzione, si era disarticolato in due partiti socialdemocratici (maggioritario e indipendente) con forti tensioni interne e in altri raggruppamenti minori. La formazione più significativa era lo Spartakusbund guidato da Karl Liebknecht. Quest’ultimo già nel pomeriggio del 9 novembre aveva proclamato la «libera repubblica socialista di Germania» esigendo che tutto il potere esecutivo, legislativo e giudiziario fosse affidato ai Consigli degli operai e dei soldati. Era appunto il modello dei «soviet» nettamente contrapposto al modello costituzionale proposto dal governo socialdemocratico.
Ma il contrasto politico diventa guerra civile quando per affermarsi le parti in conflitto ricorrono alle minacce delle armi o al loro uso effettivo, anche su questioni che si potrebbero affrontare diversamente. È quanto accade in grave misura in dicembre, culminante nel cosiddetto «Natale di sangue». Il Paese pullula di formazioni armate, alcune sotto il diretto controllo del governo, altre gestite dai vertici militari che godono o «contrattano» con il governo una ambigua autonomia, politicamente disposta a combattere esclusivamente i rivoluzionari comunisti.
Di questa complicata vicenda meritano di essere messe a fuoco due questioni cruciali, che qui mi limito a segnalare. (1) Il conflitto tra spartachisti (poi comunisti) e socialdemocratici ha il suo punto politico discriminante nella elezione della Assemblea costituente (se, come e quando convocarla). (2) Rosa Luxemburg non solo disapprova la Costituente, ma si fa coinvolgere in un tentativo di colpo di Stato comunista (5-10 gennaio), che non ha prospettive.
Per noi oggi è scontato che dopo una serie di fatti rivoluzionari si debba costituire e formalizzare un nuovo ordine politico e sociale. In termini istituzionali si tratta di eleggere un ’Assemblea costituente. È esattamente quanto decide il Congresso nazionale dei Consigli tra il 16 e il 21 dicembre a Berlino, respingendo a larga maggioranza (344 voti contro 98) la proposta dei sostenitori di un «puro sistema consiliare» (o dei soviet) di trasferire immediatamente il potere legislativo, esecutivo e giudiziario ai consigli operai esistenti - esattamente come sta accadendo nella Russia di Lenin. Per tragica ironia l’elezione per la Costituente è fissata per il 19 gennaio quando a Mosca per ordine di Lenin è dissolta la Costituente a favore esclusivo dei soviet esistenti dominati dai bolscevichi.
Siamo così alla seconda questione. Rosa Luxemburg aveva scritto nel Programma che «lo Spartakusbund non prenderà mai il potere di governo se non attraverso la chiara e inequivocabile volontà della grande maggioranza della massa proletaria della Germania» . Di fatto però aderisce (non senza qualche iniziale perplessità) alla sollevazione comunista di gennaio, che era un tentativo mal organizzato e mal diretto di putsch contro il governo da parte di una esigua minoranza radicale. Nulla di simile a quanto stava accadendo in Russia. Lenin non aveva davanti forze politiche storicamente forti, popolari e organizzate come la socialdemocrazia tedesca, che al momento poteva disporre - sia pure pericolosamente - di un «legittimo sostegno militare».
Le storiografie di ieri e di oggi danno varie spiegazioni di quanto è accaduto. Arthur Rosenberg, egli stesso membro del partito comunista sino al 1927, nella sua classica Storia della repubblica tedesca (1935) parla di un’azione dettata da «spirito di un fanatico utopismo». Intanto rimane il mito, ormai oggi sottilmente depoliticizzato, di Rosa Luxemburg.

Corriere 13.1.19
Il caso Orlandi, l’abbaglio delle ossa e i misteri della Nunziatura apostolica
Lo scheletro di un uomo a Villa Giorgina, donata al Vaticano dall’industriale ebreo Isaia Levi
di Goffredo Buccini


Tra le palme e i pini dei tre ettari di parco, la storia ha giocato a nascondino con la cronaca. Qui, dalle finestre della Sala Rossa, oltre i capitelli del II e III secolo, s’intravedono in fondo la rete di recinzione verde e il cartello di divieto d’accesso per lavori: le ossa del mistero le hanno trovate laggiù, l’autunno scorso, quasi alla fontana d’ingresso su via Po, restaurando la vecchia casupola del custode. Si narra che giusto 148 anni prima, i bersaglieri che restituirono Roma all’Italia strappandola al Papa Re a partire dalla breccia di Porta Pia fossero acquartierati su questa collinetta che guarda le mura aureliane, a preparare l’attacco. E siccome la storia sorride di noi, questa meraviglia dell’architettura contemporanea, Villa Giorgina, creata da Clemente Busiri Vici per l’industriale ebreo Isaia Levi, è diventata dal 1959 proprio la sede della Nunziatura apostolica, l’ambasciata del Vaticano nella capitale italiana.
Una luce dal passato
Via Po, civico 27, quartiere Pinciano, villa Borghese a due passi: davanti al maestoso portale trapiantato da Villa Pamphili una camionetta della brigata Sassari sta di guardia e, attorno, Roma sta a cavallo tra antiche nobiltà e moderne miserie, traffico mefitico, buche e spazzatura della nostra decrescita infelice. Al civico 25, palazzina borghese dall’ocra incantevole, stava in affitto trentacinque anni fa un balordo legato alla banda della Magliana: anni di trame e sangue, quelli, di cronaca e fantacronaca persino attorno a pontefici e prelati. Si spiega anche con questa prossimità l’abbaglio giornalistico che per qualche giorno ha trasformato povere ossa innominate nientemeno che nei resti di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori, svanite poco più che bambine a fine primavera dell’83 in quella Roma avvelenata di enigmi, tra il Freddo e il Libanese, gli immancabili servizi deviati e il sempiterno Ali Agca, rivelazioni zoppe e deliri complottardi. Giusto il tempo di riempire i tg di fole e i cuori delle povere famiglie di inutili sgomenti. Le ossa, ha dovuto spiegare la Scientifica prima ancora del deposito delle perizie, sono antecedenti al 1964, lo scheletro è di un uomo, i piccoli frammenti accanto non si sa, le condizioni dei reperti sono pessime, nessuno può neppure escludere che questa fosse addirittura una sepoltura della Roma imperiale.
«Certo che mette amarezza finire sui giornali così. Vede, in una zona come questa, basta smuovere un po’ la terra ed esce di tutto...», dice senza malanimo monsignor Giorgio Chezza, primo consigliere della sede diplomatica, che ha curato uno straordinario volume («La Nunziatura apostolica in Italia», Libreria editrice vaticana) in cui è narrata la vicenda di questa tenuta da ventimila metri quadrati che taglia la nostra storia collettiva come un fascio di luce: sarcofagi, lapidi, epigrafi, vestigia romane, un’antica necropoli dei pretoriani, secoli stratificati sotto quest’erba sino all’epoca della nobiltà papalina (coi Sacchetti fu casino di caccia) ed infine sino all’avvento degli uomini nuovi, della borghesia mercantile di cui a inizio Novecento è campione Isaia Levi.
Il tempio del dolore
Sa cosa vuole e come ottenerlo questo giovanotto torinese che eredita l’azienda tessile di famiglia e la trasforma in ciò che oggi chiameremmo una holding, perché si spinge dall’editoria fino al cinema. È veloce, Isaia, forse troppo (a cavallo della Prima guerra mondiale sarà tre volte inquisito per disinvoltura negli affari e tre volte sarà scagionato). È prensile nei rapporti. Lui, ebreo per quattro quarti, marito dell’ebrea fiorentina Nella Coen, abbraccia il fascismo, è amico del quadrumviro De Vecchi, intimo di Marcello Petacci (fratello di Claretta) che non poco contribuirà ad aiutarlo, senatore del Regno. La tenuta di via Po è il tempio della sua vita: «Questa villa è quanto di più caro io possegga... oasi di calmo riposo e prezioso cenacolo d’arte». Uno scrigno neoclassico stipato di arazzi e dipinti e circondato di piante rare (Moravia contemplandole da una villetta non lontana in via Donizetti concepirà i suoi «Indifferenti»). Ma è anche un tempio del dolore. Villa Giorgina è dedicata a Giorgina Levi, l’amatissima figlia, morta diciottenne a Parigi forse di leucemia, dopo mille consulti e inutili cure. E un dolore sottile attraversa queste stanze magnifiche, come attraversa la nostra storia.
Lontano da chi
È il dolore vergognoso delle leggi razziali, contro il quale Isaia si batte come sa. «Sapeva districarsi molto bene», dice Orietta De Filippis, che sulla villa ha scritto un bel saggio. Districandosi, e pagando, Isaia riesce a ottenere la «arianizzazione» nel 1940 (Marcello Petacci è già da tempo ospite di Villa Giorgina e non è certo estraneo alla pratica). Salva le ditte (la Aurora e la Zanichelli su tutte), protegge un patrimonio che dopo la guerra varrà quattro miliardi, ma si allontana da ciò che è. Non avrà più rapporti con i suoi fratelli. Quando i nazisti occupano Roma, non c’è però trucco burocratico che tenga. Lui si rifugia in Vaticano con Nella, alla quale attribuirà poi l’ultimo passo, «l’ausilio e l’appoggio datomi nel dispormi ad abbracciare la religione cattolica». Andreotti ricorderà come nel ‘43 fosse aperta una mensa solidale sostenuta dalla Santa Sede nei vasti sotterranei del palazzo. Il lascito testamentario della villa a Pio XII, con l’esplicita richiesta di farne Nunziatura, assieme alla donazione del patrimonio in opere di beneficienza, sarà l’esito finale d’una vita burrascosa, perché «un uomo si conosce veramente alla fine», ammoniscono le Sacre Scritture. E noi, dunque, alla fine proviamo a specchiarci in Isaia e nel suo tempio privato. A cercare qui, negli eroismi e nelle paure, nei cedimenti e nei riscatti d’un italiano d’allora, la nostra storia d’italiani d’oggi. Sino ai misteri della cronaca che, fuori dalle mura poderose della villa, ancora si mescolano maleolenti al traffico di via Po.

il manifesto 13.1.19
Decreto sicurezza, noi stiamo con le Antigoni
Manifesto disobbediente dell’Officina dei Saperi


Si ripropone, da secoli, ogni volta che insorge lo «stato di eccezione» – ovvero ogni volta che il potere politico esubera non solo rispetto all’ordine giuridico ma alle norme etiche o alla percezione di valori non scritti della civiltà – lo storico conflitto fra Creonte e Antigone, fra la Legge storica e la Legge naturale e umana della compassione e della pietà. Il conflitto è noto e gli dà voce l’immensa tragedia di Sofocle: da una parte le ragioni di Creonte, il tiranno di Tebe che, interpretando le leggi della città che impediscono sepoltura ai traditori, proibisce l’inumazione del ribelle Polinice; dall’altra le ragioni di Antigone, la giovane fanciulla sorella di Polinice che, vedendo il cadavere esposto al martirio dei corvi, disobbedendo alla legge, con rischio personale, sacrificando la sua felicità (è promessa ad Emone, figlio di Creonte), porta il corpo del fratello nella città e lo seppellisce.
Sofocle, i Greci cioè, non prendono posizione per una delle due parti (anche se la tragedia si chiama Antigone). Sono tragici appunto e sanno che non ci può essere società e giustizia senza il rispetto della legge, così come non può esserci umanità senza la pietà e l’inumazione dei morti. Da tragici, cavalcano entrambe le ragioni (anche se, appunto, la tragedia continua a chiamarsi Antigone).
Noi invece, qui ed ora, stiamo dalla parte di Antigone e di tutte le Antigoni. Perché sono molte, dopo quella dell’alba greca. In nome di Antigone, per esempio, si schierarono gli avvocati che accusarono i criminali nazisti durante il processo di Norimberga: processo che in nome di Creonte non avrebbe mai potuto essere celebrato in quanto quei capi nazisti non avevano fatto altro che obbedire alla legge scritta, storica, del loro Stato. Così come fu in nome di Antigone che i soldati americani strapparono la loro carta di identità per disobbedire alla scelta scellerata della guerra del Vietnam, ed è in nome di Antigone che in ogni paese, tanti e tanti disobbedienti, si ribellano alla violazione dei diritti umani pur sancita dalla legge di quei Paesi.
Stiamo dunque con le Antigoni , disobbedienti per far andare avanti la vita, perché è falsa la separazione, perché è falso che possa esistere una Legge che sia contro la Vita.
La vita, la sua dignità, la cura della sua fragilità, è il fondamento della legge, senza del quale la legge non è che esercizio retorico o peggio, brutale esercizio del potere: uno «sterile e colpevole legalismo», come denunciò nel ’46 Piero Calamandrei, appellandosi invece alle «leggi superiori di Antigone», leggi dell’umanità che poi improntarono lo spirito e i principi della nostra Costituzione.
Stiamo con le Antigoni e dunque con quei Sindaci, che, mettendo a rischio la sicurezza del loro mandato, in questi giorni disobbediscono ad un Decreto contro l’immigrazione, una vera e propria legge razziale che fomenta la violenza e la paura, sentimento non ammissibile nello Stato, ma appunto foriero a legittimare solo uno «stato di eccezione». Stiamo con le Antigoni e con i Sindaci anche perché la civiltà che più amiamo è figlia di un mare di terre e di mari, come diceva un suo grande cantore, che non può essere pensato se non come una koinè ospitale, dove le voci, le storie degli uomini e delle donne, si intrecciano, si scambiano e si danno rifugio e reciproco soccorso.
In questo mare, nel basso Mediterraneo, si sta compiendo un crimine che ci rinfacceranno tutti i libri di storia. E fossimo stati più giovani, molti di noi avrebbero prestato i loro corpi per fermare questo massacro, magari andando su quelle navi dove la meglio gioventù europea oggi va all’aiuto dei naufraghi.
Possiamo però oggi mettere a disposizione le nostre parole, i nostri libri, gli spazi nei giornali, i nostri insegnamenti a scuola e all’università, per sostenere un grande movimento di disobbedienza e resistenza civile che restituisca all’Italia la pietà (la pietas). In nome di Antigone.
Per Officina dei Saperi:
Laura Marchetti, Ilaria Agostini, Lucinia Speciale, Maria Pia Guermandi, Cristina Lavinio, Tiziana Drago, Renata Puleo, Lidia Decandia, Rossella Latempa, Amalia Collisani, Francesca Leder, Piero Bevilacqua, Enzo Scandurra, Tonino Perna, Giuseppe Aragno, Vittorio Boarini, Dino Vitali, Roberto Budini Gattai, Francesco Trane, Alessandro Bianchi, Luigi Vavalà, Velio Abati, Battista Borghi, Alfonso Gambardella, Francesco Santopaolo, Rossano Pazzagli, Battista Sangineto, Giuseppe Saponaro, Romeo Salvatore Bufalo, Paolo Favilli, Piero Caprari, Gianni Vacchelli, Franco Blandi, Franco Novelli, Piero Totaro, Carmelo Albanese, Giovanni Attili. Andrea Battinelli, Alberto Ziparo, Franco Toscani, Ugo M.Olivieri.

Corriere 13.1.19
Una legge già pronta educazione civica:
proviamoci
di Ferruccio de Bortoli


La democrazia diretta è necessaria. Giusto rafforzarla. Ma va maneggiata con cura. La Rete dà risposte immediate, partecipazioni istantanee. Ma spesso disinformate ed emotive. Si scambia l’opinione di minoranze organizzate, non raramente su posizioni estreme, per il sentimento medio degli elettori. I leader politici che misurano costantemente il proprio gradimento sui social network — e si comportano di conseguenza — dovrebbero tenerne conto. E una riflessione dovrebbe farla anche chi è affascinato dall’idea di introdurre, nella nostra Costituzione, un referendum propositivo e ha già formato la propria classe dirigente con discutibili selezioni digitali. La discussione fra i partiti della maggioranza ha già portato, fortunatamente, a ipotizzare un quorum del 25 per cento del corpo elettorale. Ma non basta. Non sono escluse le leggi di spesa e penali. Si ipotizza uno sciagurato ballottaggio fra proposte referendarie e parlamentari. La democrazia rappresentativa così muore. Sotto i nostri occhi. Socchiusi.
Il «governo del cambiamento» ha, per la prima volta, un dicastero per la democrazia diretta, affidato al Cinque Stelle Riccardo Fraccaro. La maggioranza ha a disposizione un’ottima occasione per dimostrare sensibilità e attenzione alle proposte popolari. Il 5 gennaio scorso sono state depositate alla Camera le 50 mila firme necessarie per promuovere una legge di iniziativa popolare.
T ema: la reintroduzione dell’Educazione civica come materia «con voto autonomo nei curricula scolastici di ogni ordine e grado». In realtà, in sei mesi di raccolta, i firmatari sono stati 83.326, di cui 27.261 in Lombardia, 15.508 in Toscana e 10.261 in Emilia e Romagna. Si sono mobilitati circa duemila Comuni, con amministrazioni di tutti gli orientamenti; 27 associazioni, dalle Acli alla Legambiente a Sant’Egidio; 24 testimonial, da Gigi Proietti a Liliana Segre.
La maggioranza gialloverde ha l’opportunità di dimostrarsi sensibile alle istanze del territorio e delle associazioni. Insomma, del popolo. E sarebbe un indiscutibile cambiamento se, cosa mai accaduta, fosse approvata una legge di iniziativa popolare in questa materia. Si applicherebbe l’articolo 71 della Costituzione, in un suo comma un po’ sterile. Una medaglia per il «governo del cambiamento». «Noi l’abbiamo fatto e voi in tanti anni no». Slogan efficace. E poi su un tema così centrale per la qualità della democrazia del nostro Paese come l’educazione alla cittadinanza. Se si continua a dire, anche a sproposito, «prima gli italiani», bene preoccupiamoci anche della loro formazione, della coscienza civica, del senso della legalità. E del grado di cittadinanza degli immigrati di seconda generazione.
La proposta dei Comuni, sostenuta fortemente dall’Anci, l’Associazione che li riunisce, mette insieme per la verità un po’ troppe cose. Dalla conoscenza della nostra Costituzione alla cultura della memoria, alla lotta contro il cyberbullismo, la volgarità in Rete e gli sprechi alimentari, alla tutela dell’ambiente. Ma le intenzioni sono lodevoli e colpisce che se ne parli così poco. Dobbiamo stupirci? Forse no, visto il degrado del nostro discorso pubblico e le immagini di ordinaria e popolare inciviltà.
In materia di educazione civica, sono state già presentate in Parlamento dieci proposte, da gruppi di vario orientamento. Tra queste, anche quella (primo firmatario Massimiliano Capitanio) della Lega per la reintroduzione dell’insegnamento, dalla scuola materna alla secondaria di secondo grado. Fu Aldo Moro, ministro della Pubblica istruzione, a introdurre l’Educazione civica come materia nel 1958. Le lezioni venivano impartite dagli insegnanti di Italiano, Storia e Geografia alle medie. Negli anni 90 la materia era già sparita. Con la legge 169 del 2008, l’allora ministra Mariastella Gelmini, raccomandava l’insegnamento trasversale di Cittadinanza e Costituzione. Una materia un po’ di tutti e di nessuno. Presidi e professori si sono arrangiati, con tante autonome e originali iniziative. «Ma un tema così rilevante — spiega Fulvio Cortese, docente di Istituzioni di diritto pubblico a Trento, università nella quale ha studiato lo stesso Fraccaro — non può essere lasciato alla sola buona volontà del corpo insegnante. Esistono casi virtuosi, ma in generale più che istruire si sensibilizza. E la Costituzione magari si difende ma non si insegna. L’Educazione civica non deve però diventare un contenitore ibrido, con dentro tutto, dalla disciplina alimentare all’uso delle tecnologie. Né presentarla agli studenti come qualcosa di noioso e obbligato, con banalizzazioni e inutili nozionismi. E poi, parliamoci chiaro, bene l’Educazione civica a scuola, ma poi contano gli esempi nella vita di ogni giorno». E i pessimi esempi — scarso rispetto delle regole, del bene comune — abbondano. Così i cattivi maestri. Soprattutto in Rete. La proposta di legge di iniziativa popolare sull’Educazione civica — che ci auguriamo venga discussa e approvata dalle Camere — ha un solo grande difetto. Non riguarda gli adulti.

Corriere 13.1.19
La scelta della consulta sui diritti del parlamento
Democrazia La decisione dei giudici rende la dialettica tra maggioranza e opposizione più visibile
Conflitto L’equilibrio questa volta era stato rotto, ma non in una maniera manifesta e grave
di Sabino Cassese


Si è andati ben oltre la prassi in vigore da più di un quindicennio, perché in precedenza il Parlamento votava un testo esaminato dalla commissione Bilancio, sul quale il governo poneva la questione di fiducia. Anche il presidente della Repubblica ha parlato di «grande compressione dell’esame parlamentare». È sorto un conflitto paragonabile a quello che oppose Bismarck al Parlamento prussiano nel 1859-1866. Trentasette senatori hanno sollevato conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte costituzionale, lamentando che il Senato (sia opposizione, sia maggioranza) non aveva avuto neppure il tempo di esaminare il disegno di legge. La Corte costituzionale ha deciso che il ricorso è inammissibile perché il conflitto non era grave e manifesto, ma ha contemporaneamente stabilito che singoli parlamentari possono rivolgersi alla Corte per violazioni gravi e manifeste delle loro prerogative e che in futuro «simili modalità decisionali dovranno essere abbandonate».
È stato opportuno rivolgersi alla Corte, «giurisdizionalizzando» un conflitto politico? La Corte avrebbe potuto dichiarare ammissibile il ricorso e poi entrare nel merito? Essa è stata debole o coraggiosa?
Il conflitto non era solo politico. Riguardava sia i rapporti tra governo e Parlamento, sia quelli tra maggioranza e opposizione, sia quelli tra singolo parlamentare e assemblea. Questi sono parte dell’equilibrio costituzionale stabilito nella Costituzione, che attribuisce al Parlamento e alla sua maggioranza il potere di approvare le proposte del governo, all’opposizione il compito di controllare la maggioranza, ai singoli parlamentari la funzione di conoscere e deliberare. L’equilibrio, questa volta, è stato rotto — ha detto la Corte — ma non in maniera manifesta e grave.
Se la Corte avesse dichiarato ammissibile il ricorso (che apriva la via a più risposte, ma era anche carente nell’individuare il vizio della procedura), si sarebbero dischiuse due strade. Il governo avrebbe potuto subito ripresentare il disegno di legge di Bilancio al Senato, facendolo approvare nelle forme rituali: il vizio era infatti solo di procedura, sanabile. Oppure, si sarebbe potuto aspettare la decisione della Corte nel merito, che avrebbe richiesto due o tre mesi, lasciando il Bilancio 2019 «sub judice», con le conseguenze politiche che si possono immaginare per il Paese e per la Corte. Quest’ultima ha quindi saggiamente e arditamente preso un’altra strada, quella di mettere insieme una decisione di inammissibilità per l’oggi e di fondatezza per il futuro, affermando chiaramente che il disegno di legge di Bilancio, a partire dall’anno prossimo, deve essere approvato con le procedure indicate dall’articolo 72 della Costituzione.
La Corte, in terzo luogo, ha colto l’occasione per porre coraggiosamente un argine alle aberrazioni di alcune procedure parlamentari, ristabilendo l’equilibrio costituzionale tra singolo parlamentare e assemblea, e tra maggioranza e opposizione. L’ha fatto con una decisione che ha importanti effetti di sistema, perché ha stabilito che il funzionamento interno delle assemblee parlamentari (i cosiddetti «interna corporis») non sono sottratti al controllo della Corte quando vi siano manifeste e gravi violazioni della Costituzione (questa volta non vi erano, per diversi motivi). Lo strumento per assicurare il controllo è l’apertura del ricorso ai singoli parlamentari (infatti, in questo caso, sono stati privati della possibilità di esaminare il disegno di legge non solo i senatori dell’opposizione, ma anche quelli della maggioranza).
Finora, la Corte costituzionale aveva detto che le Camere debbono trovare i correttivi nel loro interno. D’ora in poi, mille parlamentari possono rivolgersi alla Corte se vi sono gravi e manifeste violazioni delle loro prerogative. Viene così ristabilito l’equilibrio dei poteri, sia impedendo al governo di sfruttare la questione di fiducia con i cosiddetti maxiemendamenti che bloccano o strozzano l’esame parlamentare (è quindi rafforzato il Parlamento), sia impedendo alla maggioranza parlamentare e alle stesse opposizioni di ridurre l’area delle prerogative dei singoli parlamentari, e quindi ridando voce ai «peones» e limitando la «tirannide della maggioranza» lamentata fin dai tempi di Madison e di Tocqueville. Non ci sono più aree immuni dal sindacato costituzionale.
Uno dei maggiori costituzionalisti tedeschi, nel paragonare la Corte costituzionale italiana a quella tedesca, in un saggio recente, non ancora pubblicato, ha fatto l’elogio dell’approccio minimalista della nostra Corte citando la seconda lettera ai Corinzi di Paolo di Tarso, dove è scritto che «la forza si manifesta pienamente nella debolezza». Con la decisione raggiunta il 10 gennaio scorso, la Corte fa un grande passo avanti, dando l’impressione di restare ferma. Riporta quello che appariva come un conflitto politico nell’alveo del diritto. Amplia il proprio sindacato all’attività interna del Parlamento, quando vi siano violazioni gravi e manifeste della Costituzione. Mette le basi per il riconoscimento di uno statuto dell’opposizione. Rende più visibile la dialettica tra maggioranza e opposizione, e tra singolo parlamentare e assemblea. Fa fare un passo avanti alla incerta democrazia italiana.

Il Fatto 13.1.19
Orrore al centro riabilitazione: nove bambini autistici legati alle sedie e presi a schiaffi
di Rosanna Volpe

In trenta giorni di indagini, almeno cento episodi di violenza documentati. Una violenza che si manifestava ogni giorno con comportamenti vessatori e punitivi. L’incubo per nove bambini autistici è finito ieri mattina, quando le loro carnefici, tre educatrici e un’insegnante, tra i 28 e i 42 anni, sono state arrestate dai carabinieri. Nel centro riabilitativo Sant’Agostino di Noicattaro, a pochi passi da Bari, i piccoli ospiti, tra i 7 e i 15 anni, che seguivano un programma in convenzione con la Asl, subivano ogni forma di violenza fisica e psicologica: venivano legati alle sedie con le braccia bloccate dietro la schiena, messi a tacere con fazzoletti sulla bocca quando urlavano e piangevano, fin quasi a non poter respirare. Secondo gli investigatori, le vittime frequentavano il centro da più di due anni e per la gravità del loro disturbo non sono stati in grado di comunicare quanto hanno subito.
Gli inquirenti hanno immortalato episodi di pazienti spinti contro il muro o tra il muro e il banco. Altri piccoli, invece, erano immobilizzati con la testa pressata sul pavimento. Le intercettazioni audio nei bagni della struttura hanno documentato il suono degli schiaffi e i pianti dei piccoli.
L’indagine, coordinata dalla Procura di Bari, è stata avviata a novembre 2018 quando una dipendente del centro, ha riferito alle forze dell’ordine di aver assistito a comportamenti violenti nei confronti di alcuni ospiti da parte di colleghe. Gli investigatori hanno raccolto altre testimonianze e hanno avviato indagini lampo che hanno portato agli arresti di ieri. Secondo quanto emerso dalla consulenza di uno psichiatra, richiesta dagli inquirenti, le violenze che i bambini hanno condiviso nel centro, hanno determinato ulteriori danni alle già gravi patologie di cui le vittime soffrono.

Il Fatto 13.1.19
Il sovranismo è un nodo scorsoio
di Furio Colombo

Di Maio ha ragione, perché non indossare tutti (tutti loro) i Gilet gialli dei francesi casseurs, visto che tutti, nel governo Lega-5Stelle sono impegnati in un serio lavoro di distruzione? Infatti basta un po’ di attenzione per capire che il fatto nuovo (le leggendarie nuove leggi del reddito e di quota 100) conta niente, si può congelare, fermare, mettere in lista d’attesa, rinviare a un altro gennaio.
L’importante è distruggere certe cose che c’erano prima e ci sono ancora (buone o cattive non importa, sono “di prima”), allontanare certe persone che non devono più ingombrare le istituzioni, esibire un livello morale che ormai non si misura con niente perché niente è stato lasciato intatto, solo i resti di una rissa continua.
Se pensate che da un lato dello schermo entra in scena un ministro dell’Interno vestito da poliziotto e dall’altra un capo di bande ultras con pesanti precedenti penali – non per una sfida (vediamo chi vince fra vita e malavita) ma per un forte abbraccio e una dichiarazione di amicizia reciproca –, vi rendete conto che la differenza con il pericoloso tumulto francese consiste nel fatto che in Francia i rivoltosi si gettano contro il governo.
Qui il governo si getta nel vuoto, perché ha già manomesso le istituzioni che gli erano state affidate, ha già spintonato (o lasciato spintonare da fascisti veri e dichiarati) giornalisti sgraditi, ha già espulso tutti i titolari di uffici e cariche di nomina governativa, senza incontrarli e senza conoscerli, sulla base dell’unico dato: “Sono quelli di prima”. Ha già fatto molto per spartire la Rai secondo contratto, far tacere Radio Radicale, e limitare il più possibile il resto dell’informazione.
A questo punto, fatti crudeli e, fino a poco tempo fa inimmaginabili, come abbandonare al mare gelato in tempesta una sessantina di naufraghi, si rivela come la più importante azione di governo fino a oggi. Ma sta diventando chiaro che ciò che accade ora è solo un inizio: c’è dell’altro in arrivo, e sarà molto di più. La prima cosa da notare è che l’arco del comportamento persecutorio comincia a farsi ampio.
Le persone cacciate sono molte. Le notizie, anche televisive, sono un po’ peggiorate (pensate) rispetto al prima. Ancora più oleose di prudenza e cautela nel descrivere eventi deliberatamente dimenticati, come l’arresto del sindaco Lucano.
E poi ci sono fatti, non si sa se risibili o tragici, come l’ultima sentenza della Corte Costituzionale. Dichiara che una violazione alla Costituzione, come approvare una legge-chiave senza discuterla, per una volta si può tollerare, però che non si ripeta mai più. Ma poi ci sono i porti chiusi, che il ministro vestito da poliziotto ha concordato con il ministro delle Infrastrutture, uno che si occupa di migranti ma non del porto di Genova.
Qualcuno dice, con mal motivato ottimismo, che questa gente di governo, legata non da una idea ma da un contratto sui rispettivi poteri, non può durare. Eppure il complicato disastro provocato fin dal primo momento (pensate ai vaccini, sacrosanti ma facoltativi) ha tutta l’aria di una preparazione a ben altro.
Pensate a persone non prive di esperienza come Maria Giovanna Maglie che intima alla Comunità ebraica italiana di non interferire negli affari italiani (sic). Pensate alla improvvisa scoperta di supermotoscafi veloci che (viene detto da adulti ad adulti, senza ridere) trasportano velocemente nel Mediterraneo sigarette, terroristi e organi da trapianto (come si sa, basta una borsa e via), alla faccia dei buonisti che non avevano mai pensato ai terroristi che forniscono cliniche e tabaccherie con lo stesso comodissimo trasporto, sotto gli occhi distratti della Marina italiana, Guardia costiera e Guardia di finanza.
Pensateci per dire: se c’è chi si offre di dare queste notizie, e di spiegare il complotto della sostituzione dei popoli ordito dal miliardario ebreo Soros (che dovrà vedersela con la Maglie) e se il vicesindaco di Trieste, dopo avere buttato via le coperte di un clochard (temperatura zero gradi) dichiara che “il potere finanziario mondiale è in mano al sistema giudaico-massonico”, e se ci si ripete con orgoglio di avere chiuso definitivamente l’Italia, qualcosa deve ancora accadere.
Qualcosa di peggio. Il sovranismo è un nodo scorsoio, e prima o poi la vittima è chi lo sbandiera. Purtroppo però ha già messo il nodo al collo di tutto il Paese.

La Stampa 13.1.19
Un Paese di populismi che ama l’Europa
Ma la sicurezza conta più della democrazia
di Nicola Piepoli


Nel corso dell’ultima settimana abbiamo impostato un sondaggio contenente alcune informazioni base sui rapporti tra opinione pubblica e governo in carica. Qui di seguito esponiamo alcune delle informazioni di base emerse.
Primo quesito: qual è il giudizio degli italiani sul lavoro attualmente svolto dal governo? Il giudizio degli italiani è piuttosto positivo. Non solo la maggioranza quasi assoluta degli italiani pensa che stia lavorando bene, ma tale giudizio è enfatizzato da coloro che dichiarano di votare Lega e Movimento 5 Stelle.
In particolare questi ultimi sono pressoché totalitariamente favorevoli all’operato del governo. La fiducia più in generale degli italiani nel governo risulta nettamente aumentata tra gli elettori leghisti e quasi ingigantita tra quelli pentastellati. L’aumento della fiducia tra i «governativi» è bilanciato dal crollo tra gli elettori delle altre aree politiche e tra coloro che di solito non partecipano al voto.
Secondo quesito: quali aree del populismo hanno attecchito nel nostro Paese? Ebbene non si tratta di aree, ma di una vera e propria avanzata del populismo in Italia dovuta al fatto che la sicurezza economica è diminuita, la disparità tra ricchi e poveri è aumentata, la sicurezza personale è ritenuta insufficiente e, soprattutto, le espressioni tradizionali della politica sono, per i bisogni degli italiani, fuori del nostro tempo.
Quanto ai desideri delle singole forze politiche, se 8 leghisti su 10 pensano che in Italia dovrebbero cessare gli arrivi dei migranti, più di 8 pentastellati su 10 pensano che si dovrebbe attivare subito il reddito di cittadinanza.
La sintesi di questa situazione dell’opinione pubblica combattuta tra paura e desiderio è che «in Italia è meglio meno democrazia e più ordine». Situazione che riguarda due terzi di chi vota Lega e più di metà di chi vota Movimento 5 Stelle. Poco importa che meno di metà degli italiani nel loro complesso esprima questo desiderio, ciò che importa è che in chi ha le leve del potere in mano il senso della democrazia è sottoposto a forti scossoni e barcollamenti.
Terzo quesito: quanto è forte l’Europa nella mente degli italiani? L’idea di Europa è forte nella grande maggioranza degli italiani. In particolare la forza dell’Europa riguarda la sua presenza in due cardini del sistema Paese: l’economia e la difesa. Otto italiani su 10 vorrebbero l’Europa più vicina in termini di economia e ancora di più sulla difesa. Nel caso dell’Europa gli aderenti ai partiti di governo sono su posizioni medie rispetto all’insieme degli italiani.
Quarto quesito: in definitiva: abbiamo un governo populista? La risposta a questa domanda diretta risulta essere positiva per 6 italiani su 10 con delle punte di 8 su 10 per coloro che aderiscono al M5S e per quasi 7 su 10 per coloro che aderiscono alla Lega. Ovviamente si tratta di un populismo «basico». Ciò significa che l’attuale forma di governo potrà durare a lungo.
Ultimo quesito: come andranno le prossime elezioni europee? Le intenzioni di voto confermano una propensione a fotocopiare il voto delle elezioni politiche del 2018 con una forte conferma del successo della Lega e con un risultato per il Movimento 5 Stelle non lontano da quello del 4 marzo.
La ricerca conferma il sentimento profondo di approvazione del governo da parte degli elettori dei partiti che lo gestiscono. Forse nasce da un grido d’allarme riguardante il sentimento democratico nell’intera struttura dell’opinione pubblica del Paese.

Il Fatto 13.1.19
Spd al minimo storico verso le europee. Il caso Scholz imbarazza il partito
Germania. Socialdemocratici in crisi, i sondaggi segnano un 14%, come Afd e meno della metà della Cdu, mentre scoppia la grana del ministro delle Finanze che si candida alla cancelleria a mezzo stampa
di Sebastiano Canetta

BERLINO Edizione de Il partito socialdemocratico nei sondaggi vale il 14%, come Afd e meno della metà della Cdu. Il ministro delle finanze si candida alla cancelleria senza informare nessuno, eccetto la stampa di riferimento dei conservatori. E la neo-segretaria Andrea Nahles non tiene più sotto controllo deputati e governatori che ormai si riuniscono prima e lontano da lei. Senza contare i Giovani socialisti (Jusos) ostili agli attuali dirigenti dal giorno dell’accordo di governo con Cdu e Csu: non si sono ancora rassegnati alla linea “governista” ereditata da Martin Schulz, che ha decimato il consenso negli ultimi dodici mesi.
La crisi della Spd è conclamata, clinicamente dimostrabile e di pubblico dominio come l’incontro dei parlamentari Spd chiuso venerdì da Nahles: il summit che doveva aprire ufficialmente il programma del 2019 e invece verrà ricordato per essere stato preceduto dal vertice organizzato a Osnabrück dai deputati del Bundestag di Bassa Sassonia, Brema e Nordreno-Vestfalia. Uno sgarbo, uno sgambetto, peggio «un affronto» non solo per la Süddeutsche Zeitung che rileva come la segretaria non sia più, da tempo, colei che distribuisce le carte nella Spd. La galassia socialdemocratica si muove in ordine sparso e secondo le ambizioni personali, proprio come il Pd in Italia.
A gennaio 2018 l’ex leader Martin Schulz, sconfitto alle urne solo tre mesi prima, si immaginò nelle vesti di ministro nel quarto governo Merkel; prima di venire “scoperto” a trattare il proprio destino al tavolo dove doveva invece negoziare le richieste del partito. Un anno dopo il vice-cancelliere socialdemocratico Olaf Scholz ammette di puntare alla più alta carica del governo spiegandolo (in terza persona) ai cronisti del Gruppo Bild: il megafono democristiano.
Esattamente come l’anno scorso i massimi dirigenti Spd vengono messi al corrente dalla lettura dei giornali, e proprio come allora respingono al mittente l’auto-candidatura di chi non si accontenta più di guidare il ministero più importante del paese.
«L’ultima di cosa di cui abbiamo bisogno alla vigilia di elezioni europee è aprire il dibattito sul candidato-cancelliere. Nel 2019 mi aspetto che la dirigenza si concentri sulle vere priorità della Spd» taglia corto Sebastian Hartmann, segretario del Nordreno-Vestfalia. Mentre il governatore della Bassa Sassonia Stephan Weil spiega garbatamente a Scholz che «la questione non è urgente dato che mancano due anni al voto federale». Ma il vice-cancelliere è “bruciato” anche dagli Jusos che rottamano l’ennesimo candidato calato «dall’alto».
Un’altra grana per Nahles uscita tutt’altro che impeccabilmente dal maxi-scandalo dell’ex capo del controspionaggio (scoperto a passare dati riservati sui migranti ad Afd): la sua richiesta di rimozione era coincisa con la promozione a collaboratore del ministero dell’interno con aumento di stipendio, prima del pensionamento imposto dalla protesta della base Spd.
Adesso per Nahles c’è da risolvere un altro caso che sta facendo arrabbiare tre quarti del partito a partire dai dirigenti: la solita vicenda mediatica squisitamente politica.
Quando l’intervistatore di Bild am Sonntag domanda a Scholz: «Se la sentirebbe di diventare cancelliere?» il ministro risponde: «Frau Kramp-Karrenbauer ha detto che da un leader di partito ci si aspetta che si senta di affrontare l’incarico. Questo vale anche per il vice-cancelliere».
Parole della presidente cristiano-democratica che, tuttavia, ambisce alla poltrona di Merkel con la sua benedizione e riflettendo la maggioranza della Cdu che l’ha appena eletta segretaria. Per Scholz comunque è una richiesta più popolare della base Spd che ritiene «deleterio dibattere la questione prima delle elezioni europee». Il suo modo di volare più in alto di urne e sondaggi che inchiodano il suo partito al minimo storico.

Il Fatto 13.1.19
Lo Zar e la “sua” Africa. Contractors e affari nel Continente nero
La strategia - Come in Siria, sul campo ci vanno paramilitari che Mosca ufficialmente ignora, fra cui il gruppo Wagner connesso a Prigozhin, lo “chef” di Putin
di Valerio Cattano


Ripetere lo schema siriano in Africa. Protezione in cambio di affari ed appalti. Quando la Russia del presidente Vladimir Putin non vuole schierarsi apertamente, ecco l’imprenditore della ristorazione Yevgeny Prigozhin mettere a disposizione non arti culinarie, ma eserciti privati come il gruppo Wagner o Euro Polis. In Siria è andata così: Euro Polis ha stretto un accordo con la Syria’s General Petroleum Corp per proteggere i pozzi di petrolio al prezzo del 25 per cento dei proventi. Notizia rivelata da Associated Press nel dicembre 2017. Prigozhin, detto lo “chef di Putin” è fra le dodici persone che il procuratore speciale Mueller, negli Stati Uniti, ritiene coinvolte con l’Internet Research Agency sull’interferenza russa nelle elezioni presidenziali del 2016.
Se è andata bene in Siria, figuriamoci nel Continente nero, terra di conquista: secondo uno studio pubblicato dall’European Council on foreign relations a firma di Sergey Sukhankin – i guadagni per gli affari con i Paesi africani per la Russia è aumentato da 3,4 miliardi nel 2015 a 14,5 miliardi nel 2016. Sono tanti soldi, e devono essere protetti. Così entrano in campo i contractors, la cui presenza sarebbe passata inosservata ai più se non fosse stato per l’omicidio nel luglio scorso di tre giornalisti: Orkhan Dzhemal, Alexander Rastorguyev e Kirill Radchenko; erano andati nella Repubblica Centrafricana proprio per documentare la presenza del Gruppo Wagner, agenzia privata che ha già combattuto in Ucraina con i filorussi e in Siria accanto all’esercito di Assad.
Il Dossier Center di Mikhail Khodorkovski, ex magnate del petrolio e acerrimo nemico del presidente Putin, sostiene che Wagner ha responsabilità nella fine dei tre cronisti. Di certo non vi è nulla, ma in Africa Mosca non vuole ripetere gli errori fatti in guerre civili come quelle in Etiopia (1974-1991) e in Angola (1975-2002) che hanno falcidiato le casse del Cremlino, spesso senza che si ottenessero i risultati sperati.
Dal 2005, i russi si sono riorganizzati e hanno intrapreso nuovi rapporti con Angola, Namibia, Mozambico, Zimbabwe, Etiopia e Repubblica Centrafricana. Nel 2014, Mosca ha firmato 19 contratti di cooperazione militare nell’Africa Sub-Sahariana, inclusa la Nigeria. L’agenzia Bloomberg ricorda che l’Egitto ha ottenuto un prestito russo di 25 miliardi di dollari per costruire la sua prima centrale nucleare e il Cremlino ha un dialogo aperto con l’Eritrea per stabilire il suo primo centro logistico sul Mar Rosso, non lontano da Gibuti dove si trovano l’unica base del Pentagono in Africa, e la prima struttura militare della Cina.
Nel marzo scorso, Sergej Lavrov, ministro degli Esteri, ha viaggiato in cinque nazioni attraverso l’Africa: nello Zimbabwe, compagnie russe sono coinvolte in un investimento di platino da 3 miliardi di dollari. Ancora Bloomberg ricorda che emissari di Prigozhin erano in Madagascar in vista delle elezioni: il Paese è il più grande produttore al mondo di vaniglia e detentore di importanti depositi di nichel, cobalto e uranio. L’antropologo Dmitri Bondarenko conferma alla Reuters: “L’Occidente non è amato da molti paesi africani, e altrettanti vedono la Russia come l’oppositore dell’Occidente”.
Fra i punti forti della sua offerta, il Cremlino ha le armi, gli istruttori e la sicurezza. Con la Repubblica Centrafricana del presidente Faustin-Archange Touadera, il rapporto è particolare: con la guerra fra cristiani e musulmani, il Paese è soggetto a un embargo sulle armi imposto dalle Nazioni Unite. La Russia però ha ottenuto una dispensa ufficiale, sostenendo che le armi – 5.200 Kalashnikov, pistole, lanciagranate, fucili da cecchino e altro hardware – erano per il governo sostenuto dall’Onu. Oltre i rapporti fra i ministri ci sono quelli fra uomini d’azione, e qui entrano in gioco le compagnie private, sebbene in Russia la professione di mercenario sia illegale.
Ma è proprio grazie a queste organizzazioni che Mosca fa sentire la sua presenza, e se le cose vanno male, come è accaduto qualche volta in Siria dove Wagner ha subito forti perdite, basta scrollare le spalle e far finta di nulla: non si tratta mica di soldati con la divisa della madrepatria, in fondo.
I contractors lavorano in Sudan – oltre a ottenere le sue risorse naturali il Cremlino potrebbe coronare un sogno, avere un giorno una base navale sul Mar Rosso – e sono anche nella Repubblica Centrafricana e in Burundi dove oltre a Wagner c’è il personale di Patriot, altra agenzia di sicurezza. Sempre secondo lo studio dell’European Council on foreign relations, i primi operatori si occupano di addestramento militare, i secondi di sicurezza, sia a Vip che infrastrutture. Quanti siano i paramilitari russi in Africa è difficile dirlo: la Reuters ha riportato le indicazioni di Yevgeny Shabayev, fra i responsabili di un gruppo cosacco; secondo lui potrebbero esserci 1.000 operatori in Centrafrica e fra i 5.000 e i 10.000 in tutta l’Africa, compresi Sudan, Sud Sudan e Libia. Il punto centrale però resta la negazione di Mosca sulla connessione con Wagner, Patriot o altre agenzie. L’unico dato certo è che il presidente Putin, il responsabile operativo di Wagner lo conosce: si chiama Dmitry Utkin, è un ex membro delle forze speciali. Il nome dell’agenzia lo si deve a lui (è soprannominato Wagner, o Vagner). Utkin è stato fotografato nel 2016 con il presidente al ricevimento del Cremlino in occasione del Giorno degli Eroi: Putin gli ha appuntato al petto l’onorificenza “Ordine del Coraggio”.

Corriere 13.1.19
Se con il duello tra Russia e Ucraina torna (anche) la guerra di religione
Nel mondo della tecnologia le passioni religiose e gli interessi politici restano pericolosamente intrecciati
di Sergio Romano


Può una cerimonia religiosa rendere ancora più tese e bellicose, dopo l’«incidente» del Mar di Azov, le relazioni fra Russia e Ucraina? È accaduto negli scorsi giorni a Istanbul quando l’ultimo erede dei patriarchi di Costantinopoli, alla presenza del presidente ucraino, ha solennemente firmato un documento (in greco tomos) che sottrae la Chiesa ortodossa di Kiev al magistero del Patriarcato di Mosca e ne certifica l’indipendenza. Il governo russo ha protestato e, insieme a Mosca, quella parte della società ucraina che non vuole rompere i propri secolari legami con la Grande Madre Russia. Credevamo che le guerre di religione appartenessero al passato e pensavamo che i rapporti fra gli Stati, nel ventunesimo secolo, subissero l’influenza di più concrete motivazioni. Ma siamo costretti a constatare che nel mondo dei droni e dell’intelligenza artificiale vi sono ancora situazioni in cui le passioni religiose e gli interessi politici sono pericolosamente intrecciati. La cerimonia di Istanbul, in particolare, ha un lungo antefatto. Comincia nel XVI secolo, quando un monaco di cui conosciamo soltanto il nome (Filofeo), scrisse al Gran Duca di Moscovia: «Sappi e riconosci, pio zar, che tutti i regni cristiani si sono compendiati nel tuo; che la Prima e la Seconda Roma sono cadute; e che ora si erge una Terza Roma, a cui non succederà mai una quarta; il tuo regno cristiano non cadrà in potere di nessun altro». La profezia piacque ai russi, ne riscaldò i cuori e divenne, anche in epoche meno religiose, titolo di orgoglio per un popolo che si considerava votato, in nome di Dio, a un futuro imperiale. La Russia se ne servì per conferire nobiltà religiosa alla dinastia dei Romanov, rafforzare il proprio prestigio nella grande famiglia dei popoli slavi, accendere una ipoteca sui luoghi santi e sulle terre che erano appartenute all’Impero cristiano di Oriente. Lenin vide nella Chiesa russa un potenziale nemico e ne perseguitò ferocemente il clero; ma anche nei primi anni dello Stato comunista vi fu un nazional-bolscevismo che non ignorava l’importanza del fattore religioso nel patriottismo russo. Ne fu consapevole anche Stalin quando comprese che «patria e fede», contro la Germania di Hitler, sarebbero state più efficaci di «falce e martello». Dopo la fine della guerra Stalin pagò il suo debito verso la Chiesa restituendo al culto qualche monastero e regalando al clero ortodosso ucraino i beni che erano appartenuti agli uniati (cattolici romani di rito greco). Vladimir Putin è andato oltre. È credente, osserva con grande zelo le festività religiose, si immerge a torso nudo nella gelida acqua di un lago il 19 gennaio (giorno dell’Epifania ortodossa) ed è, a quanto pare, fraterno amico di Cirillo, Patriarca di Mosca. Attraversa una fase di declinante popolarità, ma l’ultima mossa ucraina gli garantisce un utile sostegno.

Il Fatto 13.1.19
Tessile, tremano i marchi low-cost. Proteste a Dacca
Fabbriche ferme da sei giorni per l0 scarso adeguamento dei salari all’inflazione
di Cristina Piotti

Sei giorni di sciopero consecutivi, stabilimenti bloccati, un ragazzo morto negli scontri con la polizia e 500 feriti tra i lavoratori. Questo il bilancio delle agitazioni portate avanti dai lavoratori del tessile a Dacca, capitale del Bangladesh, che hanno bloccato un centinaio di stabilimenti, protestando per la scarsa entità dell’aumento del salario minimo. Mentre la polizia disperdeva oltre 5 mila lavoratori con proiettili di gomma e gas lacrimogeni, oltre 10 mila manifestanti nei giorni scorsi bloccavano una delle principali arterie stradali nella periferia della capitale: “Nonostante i numeri, non si tratta di uno sciopero generale, ma spontaneo e sporadico, in alcune aziende del tessile”, spiega al Fatto Mubashar Hasan, docente e ricercatore del Dipartimento di Lingue e culture orientali dell’Università di Oslo.
Per il Bangladesh, secondo maggiore esportatore mondiale di abbigliamento dopo la Cina, il tessile è un settore chiave per l’economia nazionale. Ogni anno il Paese trasferisce fuori dai suoi confini 30 miliardi di dollari in prodotti tessili, pari all’80 per cento dell’export nazionale. Un recente report del Center for Business and Human Rights dell’Università di New York, parla di oltre 8 mila industrie tessili sul territorio, subappalti compresi. Una sfida, e non solo in termini economici, viste le precarie condizioni di lavoro: nel 2013 nel tragico crollo del Rana Plaza, nel distretto industriale di Savar, nella capitale, morirono più di mille persone. “A Savar e Ashulia – spiega Hasan –, si trovano gli stabilimenti che producono per brand come Zara, H&M e Uniqlo. Non ci sono dati certi che ci dicano, al momento, per quali marchi siano impiegati gli uomini e le donne in stato di agitazione, ma visti i distretti produttivi coinvolti, è molto probabile che lavorino per brand di fast-fashion. Quanto alla ragione della protesta di massa, tutto parte dalla decisione della premier Sheikh Hasina, rieletta proprio alla fine del mese scorso, di approvare un aumento del salario nazionale minimo per il settore tessile, aumento entrato in vigore proprio a inizio del mese. Dire però che i lavoratori stiano protestando perché si aspettavano un maggiore aumento dello stipendio minimo, sarebbe una semplificazione. Ogni cinque anni, infatti, il governo organizza un Comitato per il salario minimo nel settore tessile”, per fissare un aumento: “E quest’anno l’aumento è stato ben poca cosa, se comparato al tasso d’inflazione e all’aumento del costo della vita degli ultimi cinque anni. Da qui l’agitazione dei lavoratori”, precisa Hasan. Sulle pagine del quotidiano bengalese ProthomAlo, i giornalisti Golam Mortuja, Shuvankar Karmakar e Arup Roy hanno provato a fare un calcolo: la paga minima mensile per un lavoratore di settimo livello, il più basso nel tessile, è aumentato del 51%, passando da 5.300 a 8.000 taka (da 55 a 83 euro). Per i lavoratori di livello più alto (terzo, quarto e quinto grado), l’aumento è stato rispettivamente del 41, 44 e 46%, per un totale di +700 taka (5 euro) per i lavoratori con più anzianità. Nel 2013 l’aumento era stato invece del 60-70%.
A essere chiamato in causa non è solo il governo, ma anche i proprietari delle aziende, che hanno preso parte alla decisione. “I proprietari dell’industria tessile del Bangladesh non sono affidabili, quando si parla di tagliare i profitti. Discorso che vale per gli stipendi minimi, così come per la sicurezza sul posto di lavoro”, continua Hasan.
Proprio questo mese si dovranno ridiscutere i termini di due delle principali iniziative di sicurezza nate dopo Rana Plaza, cui sono soggetti marchi e aziende del tessile: la Alliance for Bangladesh Worker Safety (conosciuta come l’Alleanza) e l’Accord on Fire and Building Safety (l’Accordo). “In futuro, l’Accordo e l’Alleanza potrebbero essere sostituiti da una agenzia governativa, il che spaventa i lavoratori, perché senza una supervisione indipendente e internazionale, il legame tra governo e industrie potrebbe diventare non solo meno conveniente, ma anche meno sicuro per i lavoratori”.

La rivolta serba tra Ue e Putin
Proteste trasversali - In migliaia contestano Vucic, premier “europeista” ed ex ministro di Milosevic. Mosca teme un’altra Lituania
di Roberta Zunini


Anche se domani nelle strade ghiacciate di Belgrado e delle principali città serbe scendessero ancora migliaia di cittadini assieme ai sostenitori dei diversi partiti di opposizione, dall’estrema sinistra all’estrema destra, il presidente Alexander Vucic difficilmente aprirà al dialogo. Nonostante il numero dei manifestanti sia andato crescendo di sabato in sabato fino ad arrivare a circa 40 mila presenze la scorsa settimana, l’eventuale sesta manifestazione di fila contro Vucic e il suo Partito Progressista non sembra in grado di smuovere l’ex ministro del dittatore Milosevic, che due settimane fa ha dichiarato: “Se anche arrivassero a 5 milioni non cederei alle loro richieste”, per poi aggiungere che sarebbe “disposto a incontrare i cittadini infuriati ma non l’opposizione bugiarda”, minacciando che “l’alternativa è il voto anticipato, per contarsi”.
Andare subito alle urne sarebbe vantaggioso per il presidente, “perché non darebbe tempo alle opposizioni di rafforzarsi”, spiega l’analista Dragomir Andelkovic. Ma le opposizioni non le vogliono perché ritengono non ci siano le condizioni per consultazioni trasparenti e giuste. Del resto, un qualsiasi cedimento di Vucic in questo senso sarebbe come ammettere le accuse di comportamento anti-democratico mossegli dagli oppositori riunitisi nelle piazze muniti di fischietti, come ai tempi delle marce contro Milosevic. Questa volta, però, si tratta di un movimento diverso, eterogeneo in tutti i sensi, in cui si notano ex politici, intellettuali e attori – accomunati dalla richiesta di libertà di stampa e di critica – costituitosi dopo il pestaggio di Borko Stefanovic, leader di Levica Srbije, un piccolo partito di sinistra. La sua blusa macchiata di sangue a causa dell’attacco perpetrato lo scorso novembre da uomini in passamontagna nella città di Kruševac, ha dato il la alla protesta battezzata inizialmente “Stop alle camicie insanguinate” e dopo la sprezzante risposta di Vucic, “uno di cinque milioni”. Il presidente, ex ultranazionalista di ferro durante l’era Milosevic, si è convertito all’europeismo più spinto fondando il Partito Progressista serbo. Secondo i manifestanti però ha mantenuto i metodi dispotici del suo più noto predecessore, oltre a ventilare la “sacrilega” ipotesi di uno scambio di territori con il Kosovo. Proposta che ha fatto scoppiare la rabbia anche dei suoi elettori. La folla, organizzata dall’Alleanza per la Serbia – galassia priva di un leader –, chiede innanzitutto che la Tv pubblica preveda spazi per l’opposizione. I manifestanti inoltre vogliono indagini serie per fare luce sul mandante del pestaggio contro il leader di sinistra e dell’omicidio di Oliver Ivanovic, leader moderato dei serbi in Kosovo, avvenuto un anno fa. Le altre richieste riguardano anche la dinamica elettorale, giudicata opaca per vari motivi, tra cui le diffuse pressioni esercitate dai datori di lavoro sui dipendenti affinché votino il partito di Vucic.
Il malcontento è andato diffondendosi dopo la sua elezione nel 2017 non solo per l’erosione dello Stato di diritto, ma anche per il peggioramento dell’economia. Basti pensare che solo il 30 per cento della popolazione – 7 milioni di abitanti in tutto – ha accesso alla rete fognaria. “La piazza cresce assieme alla frustrazione per come si vive qui”, ha spiegato il giornalista Djordje Vlajic, che ritiene si tratti di un’energia che durerà”. Già due anni fa, migliaia di persone scesero in strada contro la vittoria di Vucic (55%), ma si trattava soprattutto di giovani e inoltre era primavera. Ora la folla sfida la neve e il gelo, segno che la situazione è ben più grave. Dusan Teodorovic, autorevole accademico e noto attivista, ha sottolineato che “non ci saranno elezioni finché il governo non pubblicherà le liste elettorali e non saranno rimossi i ‘pesi morti’”.
Quando nel 1998 Vucic era ministro dell’Informazione, firmò una legge che limitò la libertà di stampa e secondo i manifestanti in pratica sta facendo la stessa cosa anche adesso, seppure non in modo ufficiale e nonostante la svolta europeista. “Non contento della solida maggioranza in Parlamento, ora controlla tutto, i suoi uomini sono ovunque, hanno occupato tutto: polizia, esercito, media, scuole e ospedali”, ci spiega un docente che chiede l’anonimato per evitare ritorsioni. “Io non sono sceso in piazza perché non intendo mescolarmi con l’estrema destra, ma se continua così potrei cambiare idea. La situazione è diventata insostenibile”. Il ruolo della Russia di Putin in questa ondata di proteste non è chiaro. Vucic, pur definendosi europeista per convincere Bruxelles a far entrare la Serbia nell’Unione, ha continuato a coltivare ottimi rapporti con il Cremlino, che non vuole certo perdere il più importante Paese balcanico sotto la sua area di influenza dai tempi dell’Urss e con cui condivide il credo ortodosso. Cosa che non dispiacerebbe a Jean-Claude Juncker, a Bucarest per l’apertura del semestre europeo della Romania, contrario all’ingresso degli ex Paesi dell’orbita sovietica.

La Stampa 13.1.19
Agenti segreti italiani
Tre vite spericolate fra Regno e Repubblica
di Paolo Bertinetti

K2 non è soltanto il nome della mitica montagna dell’Himalaya. Era anche il nome in codice di Paolo Caccia Dominioni, ingegnere, bravissimo disegnatore (molto apprezzato da Hugo Pratt), eroe della Prima Guerra Mondiale e poi agente segreto. Ne racconta la storia Ulderico Pernioli in Nome in codice K2 (Nuova Argos, pp. 224, €10), uno dei tre volumi da lui dedicati alle imprese di tre agenti segreti, accomunati dallo stesso valore di soldati e dallo stesso campo d’azione in terra africana.
Le imprese fantasiose di James Bond o quelle più realistiche dello Smiley di Le Carré, hanno un solido fondamento nell’attività di intelligence svolta dagli agenti dei Servizi segreti britannici: la realtà ispira la finzione. Non è così per l’attività svolta dai Servizi italiani: il romanzo di spionaggio italiano, come genere, non esiste. Ben venga, allora, il racconto delle imprese dei veri agenti.
Caccia Dominioni, in un primo tempo simpatizzante di Mussolini, dopo il delitto Matteotti lascia l’Italia e diventa socio di uno studio d’ingegnere al Cairo; ma viene richiamato nel 1935 e mandato in Eritrea, dove il Sim (Servizio Informazioni Militare) lo recluta per operare come agente segreto prima e durante la guerra d’Etiopia. Alla fine del conflitto torna al Cairo, ma nel gennaio 1941 il Sim lo assegna al «Gruppo Offensivo», di stanza a Roma; al momento della prima battaglia di El Alamein è però mandato in Africa in un battaglione di Guastatori del Genio.
Ferito e malato, alla fine del 1942 rientra in Italia, riuscendo comunque a organizzare, ad Asiago, un gruppo di Guastatori Alpini. L’8 settembre lo sorprende in treno. A Bologna, mentre i tedeschi fanno prigionieri i militari italiani, riesce a scappare e poi, per via delle ferite di guerra, ottiene una licenza di sei mesi, ratificata dallo stesso comando tedesco. Caccia Dominioni raggiunge la sua casa a Nerviano, dove vengono nascosti un centinaio di «ribelli» e poi si trasferisce a Milano, formalmente negli uffici di una ditta, ma agendo di nuovo come agente segreto con l’incarico di tenere i contatti con i partigiani dell’Ossola, mentre il gruppo dei suoi uomini nascosti a Nerviano viene inquadrato in una Brigata Garibaldi.
Catturato dai repubblichini, viene affidato ai tedeschi e incarcerato alle Nuove di Torino, ma viene messo in libertà grazie all’intervento segreto di Rommel (che a El Alamein lo aveva decorato al valore). Tornato a Milano, viene di nuovo arrestato e portato a San Vittore, ma viene liberato dalla magistratura ordinaria. Su disposizione di Enrico Mattei gli viene quindi affidato il comando del Cln «Fiamme verdi» e poi di Capo di Stato Maggiore del Comando Regionale Lombardo. Dopo il 25 aprile gestirà lo scioglimento delle formazioni partigiane; ma sempre con esse resteranno forti, ebbe a dire «i vincoli che ci legano».
A El Alamein, quando vi operava Caccia Dominioni, aveva combattuto con il reparto di paracadutisti di Alberto Bechi Luserna, che ne raccontò le imprese nel volume I ragazzi della Folgore; e fu proprio Caccia Dominioni a illustrare efficacemente le pagine del libro. Di Bechi Luserna, di nobiltà tosco piemontese, Ulderico Piernoli racconta le vicende nel volume Dai segreti del Sim al sole di El Alamein (Nuova Argos, pp. 221, €10).
Anche Bechi Luserna incrociò l’attività di agente segreto con quella di soldato, a partire dalla sua nomina presso l’ufficio dell’Addetto Militare a Londra nel 1938. E in un suo libro, Britannia in armi, offrì gli sferzanti resoconti di diversi clamorosi errori e fallimenti dei Servizi segreti britannici. All’inizio del Blitz era ancora a Londra, come informatore del Sim, ma una volta richiamato in Italia fu assegnato all’Ufficio Finlandia dei Servizi italiani; poi operò come ufficiale dell’esercito, distinguendosi in particolare nella battaglia di El Alamein. L’8 settembre Bechi Luserna si trovava di stanza in Sardegna. Quando vide che parecchi dei suoi paracadutisti della Folgore si erano accodati ai tedeschi, li raggiunse per convincerli a tornare indietro, per non tradire il giuramento di fedeltà all’Italia. Lo ammazzarono: per il capitano Alvino, che gli sparò, il traditore era lui.
Il terzo volume di Pernioli, Dalle Ambe al Sim (Nuova Argos, pp. 189, €10), riguarda invece le imprese di Amedeo Guillet (su di lui Vittorio Dan Segre scrisse La guerra privata del tenente Guillet. La resistenza italiana in Eritrea durante la seconda guerra mondiale per il Corbaccio), formidabile cavallerizzo, anche lui valoroso soldato e agente segreto in Africa. Delle sue gesta, le più clamorose ebbero luogo nel corso della guerriglia che organizzò in Eritrea nel 1941: gli inglesi avevano messo una taglia sulla sua testa e lui presentandosi come lo yemenita Ahmed Abdullah, si recò a più riprese al Comando britannico fornendo false informazioni che lo riguardavano e intascando così i soldi della sua taglia. Se l’avesse saputo, Bechi Luserna l’avrebbe apprezzato moltissimo. E probabilmente anche Graham Greene.

il manifesto 13.1.19
Le ragazze sporche e l’ingratitudine di Penolope
Letteratura canadese. Con Il canto di Penelope, edito da Ponte alle Grazie, Margaret Atwood recupera l’episodio omerico delle dodici ancelle «traditrici» messe a morte da Ulisse: e ne rovescia, o complica, il significato
di Rossella Pretto


Sceglie i prati di asfodelo dell’oltretomba, Margaret Atwood, come fondale del suo Il canto di Penelope (Ponte alle Grazie, pp. 153, euro 13,50) per dare (e sottrarre) corpo alle parole della scaltra (più che bella) moglie di Odisseo, consegnata alla storia per la granitica fedeltà al marito, sbattuto per mari e condannato ad assaporare i piaceri di altri letti prima di poter riposare in quello legittimo, in patria. Il suolo patrio, appunto: quella madreterra ora declinata al maschile che fagocita il preellenico mondo matriarcale a cui Atwood dà voce, attingendone la differente versione dai Miti greci di Robert Graves, nel solco Bachofen-Frazer.
Ripesca dunque il poco noto episodio contenuto nel canto XXII dell’Odissea che narra l’impiccagione delle dodici ancelle a cui Odisseo, dopo la strage dei Proci, impone la morte. Un coro di donne (dodici: com’erano, prima di Sofocle, i coreuti della tragedia greca) incolpevoli, secondo la proposta di Atwood (non quella omerica). Incolpevoli perché devote a Penelope, che le usa come orecchie sulla casa e sugli intrighi che vi si ordiscono; incolpevoli perché, non per lascivia, ma per obbedienza a lei e al suo piano, si concedono agli usurpatori. Un coro ancillare che infine si trasforma in coro di Erinni assetato di giustizia.
Questa Penelope, che non manca di suscitare simpatia ed empatia, e nei cui panni si è calata come attrice protagonista anche Atwood (nel reading/musical del 2005 di Phyllida Lloyd, al St James di Piccadilly), esprime però anche il lato più torbido dell’invidia (verso Elena e la sua bellezza: causa di quella guerra che le ha sottratto il marito) e dell’ingratitudine verso chi, in nome suo, si consegna all’estremo sacrificio; ultima forma di riscatto delle ancelle, confinate e destinate da sempre a un ruolo subalterno, quello di femmine sporche: «La sporcizia era la nostra preoccupazione, era il nostro mestiere, era la nostra specialità, la sporcizia era la nostra colpa. Eravamo le ragazze sporche».
Dall’Oltretomba Penelope può raccontare la verità o una versione personale e in parte depurata – non quella dirompente della Medea di Christa Wolf né quella dell’amorosa Timandra di Kallifatidis e neanche quella dell’accorata ma ormai sciupata Penelope delle Eroidi ovidiane. La versione di Atwood è ambigua, velata, come velata è sempre la Penelope omerica quando entra in scena, ma con l’ulteriore riscatto della risata beffarda che si concede dietro la protezione del velo. E colpisce per la sua ormai salda capacità di padroneggiare astuzia e menzogna in una specularità con Odisseo che li vede entrambi abili a cucire un racconto alternativo.
Anche Penelope è stata infedele? Secondo Atwood, o meglio secondo la versione che ne dà Apollodoro e che la scrittrice sembra scegliere, sì. Non è mai lei ad affermarlo – è il coro semmai che lo rivela – eppure ne suscita il più che fondato sospetto: «Eravamo – lo ammettevamo noi stessi – due esperti e spudorati bugiardi ormai da molto tempo. Ed è strano che ciascuno abbia creduto ciecamente alle parole dell’altro. Eppure è così. O così ci siamo detti».
Qual è dunque la verità, qual è la verità nel matrimonio? Javier Marìas, nel magistrale Un cuore così bianco, elegge il matrimonio a «istituzione narrativa» per antonomasia. Il racconto, ciò che si dice, e il silenzio, il segreto, fanno sempre la differenza. E qui ci sono donne che parlano e altre che tacciono. Così come Atwood aveva già evidenziato, vent’anni prima, ne Il racconto dell’ancella (di cui si aspetta il seguito per settembre 2019): lì Difred e le compagne usavano la parola, e i loro corpi, come denuncia, mentre le mogli acconsentivano allo stupro standosene zitte.
È vero che qui il racconto è prerogativa di Penelope, che è donna che parla, ma quella parola più spesso usa come il dito puntato dell’accusatore che si discolpa. La stessa tattica usata da un’altra eroina (euripidea, prima di tutto): Fedra, che così facendo condanna l’innocente Ippolito, lei donna schermata da veli pesanti come gravami, lei paradosso vivente, strangolata dalla doppia origine tellurica e solare condensata in quella felice espressione della flamme si noire di Racine.
Solo una suggestione, un gioco da galleria di specchi deformanti, perché quello del giansenista Racine non è il mondo della Atwood dove gli dèi, se esistono, sono più spesso utilizzati come scudi per giustificare comportamenti fin troppo umani, per disinnescare la carica esplosiva della rivelazione. Rivelazione che è qui invece affidata al coro delle ancelle, le fanciulle, le innominate che hanno in sé l’innocenza e la malizia dei bambini, e tutta la potenza sovversiva (e satiresca) del mito: «Considerateci un puro simbolo», dicono. «Noi siamo vere quanto il denaro».
Atwood, come sempre, non proclama una verità univoca, non sentenzia su punti di vista e vissuti, li racconta, tesse e disfa la sua tela perché un occhio esterno possa scorgerne il disegno e, se non giudicare, comprendere l’aspetto multiforme della natura umana, come multiforme è l’ingegno di Odisseo.

il manifesto 13.1.19
Esilio, totalitarismi, apartheid: scrittori e poeti a Stoccolma
Saggistica letteraria. Da Anatole France e Yeats (anni Venti) a Herta Müller e Svetlana Aleksievic, via-Brodskij, Soyinka, Pinter: i discorsi politici dei Nobel per la letteratura, da Bompiani, a cura di Daniela Padoan
di Pasquale Di Palmo


«Il ruolo dello scrittore non può separarsi da difficili doveri. Per definizione, non può mettersi al servizio di quelli che fanno la storia: è al servizio di quelli che la subiscono». Questa definizione di Albert Camus, tratta dal «discorso del banchetto» allestito in occasione del conferimento del Nobel nel 1957, può idealmente introdurre il volume, curato da Daniela Padoan, Per amore del mondo I discorsi politici dei Premi Nobel per la letteratura (Bompiani, pp. 592, € 18,00). Il titolo rimanda, come osserva la curatrice, a «un “amore del mondo” che si declina in quel mostrarsi in pubblico che già i greci videro come proprietà della polis e che Hanna Arendt definì – mettendolo a fondamento della sua Vita activa – l’attività più propriamente umana, che sancisce la comune appartenenza allo spazio politico».
L’antologia accoglie i più significativi discorsi di accettazione del premio dal 1901, anno di fondazione , a oggi, nelle versioni di vari traduttori, privilegiando espressamente gli spunti di natura socio-politica a discapito degli interventi concernenti il laboratorio alchemico degli scrittori. Non è un caso che siano esclusi Montale, Eliot, Hamsun, Saint-John Perse e Canetti che «imperniarono la lecture sulle proprie scelte estetiche e poetiche». All’originario «discorso del banchetto» in cui l’autore premiato doveva ringraziare l’Accademia di Stoccolma descrivendo sinteticamente la propria poetica, subentrerà un più articolato «discorso di accettazione» e, dal ’23 in poi, la tradizione delle lectures. Non si entra nel merito dell’affidabilità di un premio che, in questi ultimi decenni, ha mostrato tutta la sua palese compromissione con il politically correct e una concezione anacronistica dell’engagement, cadenzata oltretutto sulle variabili relative a genere letterario e paese d’appartenenza del premiato piuttosto che sull’effettivo valore di un’opera. D’altronde non bisogna dimenticare che anche in passato erano frequenti abbagli a dir poco sconcertanti: basti pensare a quegli autori di area scandinava che, persino agli occhi del lettore più avveduto, costituiscono presenze ectoplasmatiche (l’imprescindibile triade Kafka-Proust-Joyce rigorosamente bandita, compresa la scheggia impazzita Musil). La Padoan parla al riguardo di «esercizio collettivo di rimozione e afasia».
Ne è scaturito un lavoro rigoroso che ripercorre, attraverso svariate testimonianze, un’epoca di cambiamenti basilare come quella novecentesca, di cui rappresenta una sorta di caleidoscopico compendium riguardante illusioni e disillusioni, utopie e distopie, con «due guerre mondiali, dispotismi nei cinque continenti, la bomba atomica e, infine, la moltiplicazione di una tra le istituzioni più crudeli e mortifere che gli uomini abbiano conosciuto, il campo di concentramento» (Paz). Si comincia con i discorsi tenuti da Anatole France e W. B. Yeats rispettivamente nel 1921 e ’23 e si finisce con quelli di Herta Müller (2009) e Svetlana Aleksievic (’15) che chiamerà in causa la metamorfosi dell’«uomo pre-Cernobyl’» in «uomo post-Cernobyl’». Tra i due poli una nutrita scelta di interventi che prendono in esame gli argomenti più disparati e controversi (per aspera ad astra): dal tema dell’esilio affrontato in maniera brillante da poeti come Brodskij e Milosz a quello del razzismo e dell’apartheid toccato da Wole Soyinka e Nadine Gordimer, passando attraverso il totalitarismo sfociato nell’orrore dei gulag staliniani descritti da Solženicyn e dei campi di sterminio nazisti da cui non può prescindere l’opera narrativa dell’ungherese Imre Kertész. Poco più di un decennio fa Harold Pinter avvertiva: «Quel che ci circonda è un immenso arazzo di menzogne, sul quale pascoliamo ignari».
Bisognerà attendere il discorso di Faulkner nel 1949 per avere un riferimento esplicito alla condizione di precarietà e di paura (le sinistre ripercussioni del bagliore nucleare) in cui è irretito l’uomo moderno. La curatrice stigmatizza: «Nel dicembre 1938, all’indomani della Notte dei Cristalli e dell’infuriare dei pogrom nazisti, a ricevere il Nobel fu la statunitense Pearl Buck, che parlò – incongruamente – di letteratura cinese; nel 1939, a due mesi di distanza dall’invasione tedesca della Polonia, fu scelto il finlandese Frans Eemil Sillanpää, che non tenne alcun discorso. Nel dicembre 1944, mentre le operazioni di sterminio degli ebrei d’Europa da parte dei nazifascisti giungevano alla loro fase conclusiva, il Nobel per la letteratura andò al danese Johannes V. Jensen, che parlò della classificazione delle specie di Linneo e della teoria dell’evoluzione di Darwin». Thomas Mann, premiato nel 1929, si limitava a fare il panegirico della madrepatria che «ha, attraverso la sua poesia, mostrato grazia nella sofferenza», inconsapevole che di lì a qualche anno la sofferenza impartita a buona parte dell’umanità non sarà sublimata da alcun tipo di grazia teutonica; lo stesso scrittore fu costretto a vivere da esule il resto dei suoi giorni per aver criticato, in una conferenza all’Università di Monaco, quel regime che teorizzava «l’eliminazione dei “sottouomini”, degli Üntermenschen» (Padoan). Quasimodo, sulla cui vittoria nel 1959 Emilio Cecchi scrisse malignamente sul Corriere della Sera «A caval donato non si guarda in bocca», contrappose la figura del poeta a quella del politico, suscitando malumori nella stessa sinistra in cui militava.
Dettate da motivazioni quanto mai differenti ma sostanzialmente simili nel presentare il dissidio tra poeta e politico, si stagliano le osservazioni di Brodskij contenute nel discorso Un volto non comune (’87): «Una persona che sa leggere e scrivere, una persona istruita può benissimo, dopo aver letto un libro o un libello politico, uccidere un suo simile e magari provare, nell’ucciderlo, un’esaltazione dottrinaria. Lenin era istruito, Stalin era istruito, e anche Hitler lo era; quanto a Mao Zedong, lui scriveva addirittura versi. Ma tutti avevano una cosa in comune; l’elenco delle loro vittime era infinitamente più lungo dell’elenco delle loro letture». Il linguaggio creativo viene anteposto al «lessico delle istituzioni» chiamato in causa da Derek Walcott, come nel caso di I. B. Singer che nel ’78 riporterà la parte finale del suo discorso in yiddish, lingua in cui si esprimeva al fine di salvaguardarne la sopravvivenza dopo la catastrofe della Shoah. Lo yiddish è considerato alla stregua di «una lingua di esilio, senza patria, senza frontiere, priva del sostegno di un governo . Era la lingua di martiri e santi, di sognatori e cabalisti, ricca di umorismo e di memoria che il genere umano non potrà mai dimenticare».
Il poeta irlandese Seamus Heaney osservò nel ’95: «Rendo merito alla poesia per avermi dato la possibilità di questa passeggiata nello spazio. Le rendo merito, immediatamente, per un verso che ho scritto molto di recente rivolgendo a me stesso (e a chiunque altro volesse prestarvi ascolto) un’esortazione: “cammina sull’aria, contro il tuo buon senso”». Questo verso, confluito nella raccolta The Gravel Walks, diverrà emblematicamente l’epitaffio inciso sulla tomba dello stesso Heaney. L’egiziano Mahfouz si rivolse alla platea svedese in arabo. La Szymborska elogiò «due piccole paroline: “non so”. Piccole, ma alate». Altri autori (Saramago, Toni Morrison) presero a pretesto il discorso per sviluppare una sorta di apologo, come Doris Lessing che racconta di una giovane madre dello Zimbabwe intenta a leggere avidamente un frammento di Anna Karenina mentre aspetta la sua razione di acqua potabile da portare nel villaggio in cui vive. Pablo Neruda, premiato nel 1971, ricorda: «Vengo da un’oscura provincia, da un paese separato da tutti gli altri da una geografia tagliente. Fui il più abbandonato fra i poeti e la mia poesia è stata regionale, dolorosa e piena di pioggia. Ma ho sempre creduto nell’uomo».

La Stampa 13.1.19
Folco Portinari, tra Saba e il manifesto di Slow Food
di Mirella Serri


Questo secolo è nato sul fondamento di una falsa interpretazione sotto il segno del dinamismo… Ne è derivata una sorta di autofagia, che ha ridotto l’homo sapiens ad una specie in via di estinzione»: con questa provocazione iniziava il Manifesto dello Slow-food pubblicato il 3 novembre 1987 sulla prima pagina del Gambero Rosso: Folco Portinari, che aveva ideato con Carlo Petrini questo appello destinato a coinvolgere milioni di persone nel culto del cibo sano e della difesa dell’ambiente, lo aveva vergato in stile futurista. E aveva avuto una brillante intuizione: mentre la modernità coincideva con velocità e frenesia, in controtendenza parlava della «lentezza» come di una nuova, rivoluzionaria filosofia della vita.
Saggista, poeta, gran gourmet e gastronomo, Folco Portinari si è spento venerdì a 92 anni nella sua casa milanese. Ma il professore universitario, studioso di Manzoni e gran cultore della civiltà letteraria dell’Ottocento, a cui piaceva sorprendere e andare controcorrente, nella vita non è stato un seguace della filosofia della lentezza che coltivava solo a tavola. Il docente nato a Cambiano, in provincia di Torino, nel 1926 e poi trasferitosi a Milano, era nella realtà un frenetico e appassionato studioso. Portinari era entrato in Rai negli Anni Cinquanta insieme a quel gruppo dei pionieri geniali che comprendeva Umberto Eco, Piero Angela, Angelo Guglielmi, Gianni Vattimo, Fabiano Fabiani e Furio Colombo. Mentre portava in Rai Luigi Veronelli, si dedicava ai saggi su Umberto Saba e Giuseppe Ungaretti, oppure alle Parabole del reale. Romanzi italiani dell’Ottocento con cui innovava il linguaggio critico. Portinari sapeva restituire al lettore il fascino della letteratura lombarda, uno dei suoi fulcri d’interesse come dimostra il capitolo redatto per la Storia della letteratura italiana a cura di Alberto Asor Rosa. È stato anche collaboratore della Stampa.
Negli ultimi anni aveva abbandonato il terreno della letteratura per dedicarsi a opere come Il piacere della gola e ai suoi interessi di gastronomo.

Corriere 13.1.19
Folco Portinari, poeta senza etichette
Tra Ungaretti, la critica e Slow Food
Accademico curioso e appassionato gourmet, nell’87 firmò con Carlin Petrini il Manifesto del cibo lento
di Paolo Di Stefano


«Sono un letterato, e mi piacciono le parole. Quelle dei poeti, è ovvio, ed è altrettanto ovvio che faccia i conti con Orazio e con i suoi vini…». Così Folco Portinari metteva insieme le sue due passioni, solo apparentemente lontanissime: la letteratura e l’enogastronomia. E così si spiega perché non si sa, quando si pensa a Portinari, se dare più peso all’autore, con Carlin Petrini, del Manifesto di Slow Food (era il 1987) o allo studioso o piuttosto alla voce del poeta che scriveva versi ironici fino al paradosso, ma carichi di umori morali e civili.
Nato a Cambiano, in provincia di Torino, il 25 gennaio 1926, da un padre, pavese dell’Oltrepò, che esercitava la professione di enologo, Portinari è morto ieri a Milano dopo aver vissuto una vita non classificabile entro un’etichetta definitiva. Durante gli studi universitari (si laureò con Giovanni Getto con tesi su Giuseppe Ungaretti), fu giocatore di calcio nelle giovanili del Torino tirando calci al pallone con Valentino Mazzola. Insegnò in un liceo di Vercelli quando già portava, come amava dire, «baffi di ascendenza georgiana» che non avrebbe mai abbandonato. Nel ’54 fece un concorso e fu assunto in Rai. Ben prestò si trasferì nella sede torinese, dove sarebbe diventato pima responsabile della cultura e in seguito vicedirettore. Diviso tra il giornalismo e gli studi accademici (occuperà la cattedra di Letteratura moderna e contemporanea all’Università di Torino dal ’68 al ’76); militante nelle riviste letterarie più importanti, da «Paragone» al «Verri», fondatore lui stesso di riviste con amici poeti e critici come Luciano Erba, Giorgio Luti, Claudio Gorlier, Giorgio Bàrberi Squarotti, curò nel 1956 per Zanichelli, con il suo maestro Getto, un’antologia di poesia da Giosue Carducci ai contemporanei per le scuole superiori. La sensibilità nei confronti della letteratura in corso era favorita, in Portinari, da un sodalizio determinante come fu quello con Luciano Anceschi, il quale divenne nel tempo vero e proprio «fratello maggiore» suo come di tanti letterati suoi coetanei.
Precoce autore di monografie su Umberto Saba, Ungaretti, Ippolito Nievo, a Portinari si deve anche l’edizione einaudiana de El nost Milan di Carlo Bertolazzi, piccolo capolavoro del teatro dialettale, che negli anni Cinquanta fu portato sulla scena del Piccolo Teatro da Giorgio Strehler con Tino Carraro. Se Portinari non lascerà mai la critica militante (esercitata con intelligenza sulla «Stampa», sul «Corriere della Sera», su «Panorama», sull’«Unità» e sul «Diario»), è vero che la sua attenzione di studioso andrà rivolgendosi sempre più verso la cultura sette e ottocentesca tra teatro, narrativa (Alfieri, Manzoni), saggistica e librettistica. La musica è del resto l’altra passione coltivata in famiglia accanto al gusto per la tavola, al quale nel 1986 dedicherà un divertito «gastroromanzo» dal titolo Il piacere della gola.
Proprio in quel giro d’anni sarebbe arrivato il Manifesto del mangiare lento, sano e conviviale stilato con Petrini e sottoscritto subito da star della cultura, della politica e dello spettacolo come Valentino Parlato e Dario Fo, Gina Lagorio e Francesco Guccini… Nel 2000, ricordando lo slancio in famiglia per il mangiare e per il bere, Portinari ricordava: «Finché è vissuta mia madre, per il mio compleanno si apriva una bottiglia di Falerno del Massico, oraziano per eccellenza. Era un rito che tento ancora di mantenere. Era un omaggio al figlio poeta, perché mia madre era romagnola e avrebbe preferito un sangiovese…».
Il gourmet, l’intellettuale curioso e divertito, il poeta che scriveva versi oraziani un giorno del 1998, al Salone del gusto di Torino, comperò un pezzo di carne di canguro sufficiente a sfamare la sua tribù di figlie, genero e nipoti. Chiese a sua moglie di cucinarlo in civet, come il capriolo. Non fu troppo stupito nel trovarlo «saporito, tenero e anche dietetico».

La Stampa 13.1.19
Nuovo anno, solita vergogna
Il razzismo riparte dall’Olimpico
di Matteo De Santis


Al 27’ del primo tempo di un Lazio-Novara già morto e sepolto nel risultato, in un Olimpico tutt’altro che pieno, si riascoltano tristi e vecchi cori della vergogna. «Giallorosso ebreo» e «questa Roma qua sembra l’Africa», intona per quasi un minuto una sparutissima, ma vociante, minoranza della curva Nord laziale. Il solito piccolo gruppo di pseudo-tifosi che purtroppo fa più rumore della stragrande maggioranza, sana e appassionata, della tifoseria biancoceleste. Forse il solito manipolo di cui fa parte anche qualche membro dei trecento del branco che, soli tre giorni prima, aveva trasformato le celebrazioni per i 119 anni del club, effettuate invece in maniera assolutamente pacifica da più di altre duemila persone, in una guerriglia urbana. Anticipato dagli immancabili inni contro le forze dell’ordine, il nuovo giro di (vecchi) cori antisemiti e di stampo razzista rappresenta la squallida risposta agli ignobili manifesti «Lazio, Napoli, Israele. Stessi colori, stesse bandiere. M...», comparsi sempre nella notte tra martedì e mercoledì, firmati da un sedicente e forse persino fantomatico gruppo di ultras romanisti («Balduina Roma»).
Poker della Lazio al Novara
Nuovo giro sulla giostra della vergogna da stadio: pochi pseudo-tifosi urlano e qualcun altro, non ascoltando ululati o non afferrando bene le parole, neanche ci fa caso. La Digos presente all’Olimpico, invece, se ne accorge: scatta subito l’indagine per risalire ai responsabili, anche con l’aiuto delle telecamere a circuito chiuso. I cori non passano inosservati neanche agli ispettori della Procura Federale della Figc a bordo campo: segnalazione inoltrata al giudice sportivo, chiamato a giudicare nei prossimi giorni in base al principio di «percettibilità» riscontrato dagli 007 federali. «Faccio parte di quel 98% di spettatori che non ha sentito i cori - la presa di posizione di Arturo Diaconale, portavoce della Lazio - ma non metto in discussione né la buona fede né l’udito di chi li ha ascoltati. Se ci sono stati, la Lazio condanna fermamente qualsiasi forma di razzismo e antisemitismo, ma chiede anche che siano valutate le dimensioni del fenomeno. Credo che ci sia una forma di psicosi che gonfia episodi e questioni marginali o minoritarie, apparentemente inesistenti, in questioni gigantesche che possono danneggiare l’immagine della nostra società. Invito a dare la giusta considerazione a episodi che in casi normali sarebbero marginali, se non addirittura ignorati. Anche per non permettere a qualche gruppo che voglia catturare l’attenzione di approfittare dell’eventuale esposizione mediatica». Che per colpa dei soliti pochi, ancora un’altra volta, spetterà all’inciviltà che usa il calcio come paravento. Non a belle pagine dentro, leggasi la passeggiata biancoceleste, e fuori dal campo, come la suggestiva celebrazione di Lazio e Novara unite nel ricordo delle bandiere bipartisan Silvio Piola e Felice Pulici.

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