mercoledì 9 gennaio 2019

Il Fatto 9.1.19
L’aereo più pazzo del mondo: Mumbai andata/ritorno
In India - Tra tuk-tuk, Taj Mahal, baraccopoli e vacche ferme per strada, tutto è caos ma sempre più organizzato di un volo per l’Italia. Diffidare dalle pubblicità
di Selvaggia Lucarelli


Non avendo potuto permettermi di trascorrere il Capodanno a Moena con Di Maio e Di Battista perché non ho trovato la maglietta termica in saldo da Decathlon, ho deciso di andare in vacanza in India, a Mumbai. Il viaggio era partito coi migliori auspici:
Air Italia (ex Meridiana) aveva inaugurato la tratta diretta Malpensa-Mumbai pochi giorni prima promuovendola con uno show danzante al gate. “I passeggeri diretti in India viaggeranno sul nuovo Airbus A330-200 dedicato al lungo raggio!”, avevano annunciato.
Ho quindi preso due decisioni: non porto neppure un libro, mi sparo tre film e sono già a Mumbai. La seconda: mi vesto come se stessi andando a svuotare la cantina, tanto vado in India, mica in Costa Smeralda. Appena entro in aereo realizzo che l’aereo non è un Airbus A330 ma il Savoia Marchetti 1915 in tela cerata di fantozziana memoria, con un paio di schermi per fila e che con la mia miopia potrebbero anche essere dei microonde a incasso, tanto non vedrei comunque nulla. Mi dico che amen, dormirò, tanto sono vestita da svuota-cantine, per fortuna il mio fidanzato bada all’essenziale. È a quel punto che, nella fila accanto alla sua, noto una figura femminile: trattasi della ventenne top model internazionale Vittoria Ceretti. Ora, su 250 passeggeri diretti per Mumbai, non gli poteva capitare accanto un anziano seguace di Sai Baba? No, proprio lei. Ho desiderato che in volo un gabbiano incazzato di 106 chili prendesse a testate il finestrino accanto alla tizia, lo rompesse e che la tizia venisse risucchiata via, per poi atterrare incolume su una balla di fieno in Ucraina. Che poi, io dico, era così bello quando le top anni 90 alla Naomi viaggiavano in prima classe sorseggiando champagne e tiravano i capelli alla servitù, ora queste dee milionarie-democratiche ce le dobbiamo ritrovare in economy accanto al nostro fidanzato. Morale: sono arrivata in India che tifavo per il ripristino delle caste. E comunque, siccome l’India è parte di un grande universo in cui le forze del bene e quelle del male si riequilibrano, alla top-model hanno smarrito la valigia.
Mumbai è una città enorme, con indescrivibili problemi di traffico, immondizia e inquinamento. Il tutto, naturalmente, è colpa della Raggi. Del resto, un noto proverbio indiano dice che “scatoletta di tonno buttata su marciapiede in Viale Mazzini davanti alla Rai, fa nascere discarica a Mumbai!”. Rispetto ad altre megalopoli indiane, Mumbai, tra palazzi coloniali e lunghe spiagge, ha un suo fascino decadente a cui non siamo rimasti insensibili. La famosa Porta dell’India (Gateway) è il monumento più famoso della città e vi si accede passando attraverso un metal detector sotto al quale sfilano circa 12 mila persone al minuto: l’indiano alla sicurezza ti guarda e al massimo ha il tempo di decidere se ti sei vestito bene o di merda. Ma, francamente, temere di morire in un attentato in una città in cui ogni volta che attraversi la strada hai le stesse probabilità di sopravvivenza di un porcospino sulla Cristoforo Colombo è piuttosto ridicolo.
Nel cuore di Colaba, il vivace quartiere, sorge anche un immenso campo libero in cui gli indiani, di domenica, vanno a fare sport. Dimenticando quale fosse lo sport nazionale, mi sono lanciata entusiasta nel campo, per sentirmi parte del cuore pulsante della città, quando una pallina pulsante ha centrato la mia nuca. Il cricket è uno sport bellissimo, ma entrare in un campo in cui 5.000 indiani si lanciano palle in tutte le direzioni rende l’esperienza meno sicura di una vacanza ad Aleppo.
A Mumbai c’è un altro sport che va per la maggiore: il “Kabaddi”. La prima volta che nella tv dell’hotel ho visto gli indiani giocare a Kabaddi ero incredula: due squadre si affrontano lottando, e chi attacca ha 30 secondi di tempo in cui ha l’obbligo di rimanere in apnea, apnea certificata dal fatto che per 30 secondi deve gridare “kabaddi kabaddi kabaddi kabaddi”! Vittorio Sgarbi, col suo “capra capra capra” probabilmente ha sempre voluto suggerire una variante del Kabaddi, e noi lo abbiamo giudicato male.
Siamo poi andati a visitare la casa in cui Gandhi risiedeva durante i suoi soggiorni a Mumbai. Sorge in un bel quartiere silenzioso e alberato, all’interno ci sono foto della sua lotta pacifica per l’indipendenza, la sua lettera a Hitler che inizia con un candido, ingenuo Dear friend e prosegue con le scuse per la sua invadenza, il suo scambio epistolare con alcuni intellettuali tra cui l’amico Tolstòj. Insomma, la conclusione è che se fosse vivo e in Italia, oggi Gandhi sarebbe più divisivo del Tav: radical chic, buonista, intellettuale ma sovranista. Sarebbe stato sulle balle a tutti.
Mumbai è anche la città dello street food, ma naturalmente mangiare in una bancarella in una città senza neppure un vero e proprio sistema fognario è un atto di fede. Io, da schifiltosa, piuttosto che mangiare per strada bevo la mia pipì come la Brigliadori, il mio fidanzato in compenso ha assaggiato qualsiasi cosa, da frutta che galleggiava in liquidi organici in cui qualche minuto prima galleggiava placenta animale, a carne cotta in pentole le cui incrostazioni, talvolta, vengono utilizzate per stabilire da quante ere geologiche l’India sia emersa dall’oceano. Il fatto che non abbia contratto malattie come il tifo o la più rinomata cagarella, fa di lui, ad honorem, un supereroe della Marvel.
Abbiamo poi visitato Dharavi, la baraccopoli più grande dell’Asia, la lavanderia a cielo aperto, i musei, il Taj Mahal e tutto quello di meraviglioso e stordente Mumbai offra, ma nonostante ciò c’era qualcosa a cui non eravamo preparati: il viaggio di ritorno. O meglio: le quattro email ricevute dalla compagnia aerea in cui la durata del volo variava a seconda dei venti contrari o del pilota che doveva fare una deviazione in Uzbekistan per salutare la sorella.
Alla porta di ingresso dell’aereo vintage la scena era la seguente: un tizio aveva ricevuto la carta di imbarco sbagliata, era chiaramente italiano, ma sul suo biglietto c’era scritto “Panjub Allamassarah” o qualcosa del genere, per cui bisognava trovare il signor Panjub Allamassarah altrimenti il tizio non poteva salire. E noi con lui. Il tizio la prendeva con sportività: piangeva. Le cappelliere, grandi quanto il mio astuccio per gli occhiali, erano piene. Alcuni bagagli a mano andavano etichettati e messi in stiva. Alcuni passeggeri non volevano separarsi dai bagagli come le madri che non vogliono lasciare il figlio partire per il fronte. Un ragazzo palermitano, quando il volo aveva ormai più di 1 ora di ritardo, andava a insultare il personale. Una signora stava male: aveva comprato più posti a sedere, ma quei posti erano occupati, e minacciava di riferire tutto non si capisce a chi (potrebbe aver detto “A Mattarella”, il tono era più “A mio zio spacciatore”).
Alla fine, si partiva. Dormivo. A colazione mi servivano un pranzo a base di riso indiano speziato, chiedevo perché, mi rispondevano che in India è ora di pranzo, rispondevo “sì ma arriviamo tra un’ora in Italia dove sono le dieci del mattino”. E alla fine pensavo che quel giorno a Mumbai in cui ero sul tuk-tuk, una vacca ferma all’incrocio non ci faceva passare, un camion si era messo di traverso e una bicicletta stava falciando due pedoni, tutto era caoticamente più organizzato di un volo per l’Italia.