Il Fatto 13.1.19
Tessile, tremano i marchi low-cost. Proteste a Dacca
Fabbriche ferme da sei giorni per l0 scarso adeguamento dei salari all’inflazione
di Cristina Piotti
Sei
giorni di sciopero consecutivi, stabilimenti bloccati, un ragazzo morto
negli scontri con la polizia e 500 feriti tra i lavoratori. Questo il
bilancio delle agitazioni portate avanti dai lavoratori del tessile a
Dacca, capitale del Bangladesh, che hanno bloccato un centinaio di
stabilimenti, protestando per la scarsa entità dell’aumento del salario
minimo. Mentre la polizia disperdeva oltre 5 mila lavoratori con
proiettili di gomma e gas lacrimogeni, oltre 10 mila manifestanti nei
giorni scorsi bloccavano una delle principali arterie stradali nella
periferia della capitale: “Nonostante i numeri, non si tratta di uno
sciopero generale, ma spontaneo e sporadico, in alcune aziende del
tessile”, spiega al Fatto Mubashar Hasan, docente e ricercatore del
Dipartimento di Lingue e culture orientali dell’Università di Oslo.
Per
il Bangladesh, secondo maggiore esportatore mondiale di abbigliamento
dopo la Cina, il tessile è un settore chiave per l’economia nazionale.
Ogni anno il Paese trasferisce fuori dai suoi confini 30 miliardi di
dollari in prodotti tessili, pari all’80 per cento dell’export
nazionale. Un recente report del Center for Business and Human Rights
dell’Università di New York, parla di oltre 8 mila industrie tessili sul
territorio, subappalti compresi. Una sfida, e non solo in termini
economici, viste le precarie condizioni di lavoro: nel 2013 nel tragico
crollo del Rana Plaza, nel distretto industriale di Savar, nella
capitale, morirono più di mille persone. “A Savar e Ashulia – spiega
Hasan –, si trovano gli stabilimenti che producono per brand come Zara,
H&M e Uniqlo. Non ci sono dati certi che ci dicano, al momento,
per quali marchi siano impiegati gli uomini e le donne in stato di
agitazione, ma visti i distretti produttivi coinvolti, è molto probabile
che lavorino per brand di fast-fashion. Quanto alla ragione della
protesta di massa, tutto parte dalla decisione della premier Sheikh
Hasina, rieletta proprio alla fine del mese scorso, di approvare un
aumento del salario nazionale minimo per il settore tessile, aumento
entrato in vigore proprio a inizio del mese. Dire però che i lavoratori
stiano protestando perché si aspettavano un maggiore aumento dello
stipendio minimo, sarebbe una semplificazione. Ogni cinque anni,
infatti, il governo organizza un Comitato per il salario minimo nel
settore tessile”, per fissare un aumento: “E quest’anno l’aumento è
stato ben poca cosa, se comparato al tasso d’inflazione e all’aumento
del costo della vita degli ultimi cinque anni. Da qui l’agitazione dei
lavoratori”, precisa Hasan. Sulle pagine del quotidiano bengalese
ProthomAlo, i giornalisti Golam Mortuja, Shuvankar Karmakar e Arup Roy
hanno provato a fare un calcolo: la paga minima mensile per un
lavoratore di settimo livello, il più basso nel tessile, è aumentato del
51%, passando da 5.300 a 8.000 taka (da 55 a 83 euro). Per i lavoratori
di livello più alto (terzo, quarto e quinto grado), l’aumento è stato
rispettivamente del 41, 44 e 46%, per un totale di +700 taka (5 euro)
per i lavoratori con più anzianità. Nel 2013 l’aumento era stato invece
del 60-70%.
A essere chiamato in causa non è solo il governo, ma
anche i proprietari delle aziende, che hanno preso parte alla decisione.
“I proprietari dell’industria tessile del Bangladesh non sono
affidabili, quando si parla di tagliare i profitti. Discorso che vale
per gli stipendi minimi, così come per la sicurezza sul posto di
lavoro”, continua Hasan.
Proprio questo mese si dovranno
ridiscutere i termini di due delle principali iniziative di sicurezza
nate dopo Rana Plaza, cui sono soggetti marchi e aziende del tessile: la
Alliance for Bangladesh Worker Safety (conosciuta come l’Alleanza) e
l’Accord on Fire and Building Safety (l’Accordo). “In futuro, l’Accordo e
l’Alleanza potrebbero essere sostituiti da una agenzia governativa, il
che spaventa i lavoratori, perché senza una supervisione indipendente e
internazionale, il legame tra governo e industrie potrebbe diventare non
solo meno conveniente, ma anche meno sicuro per i lavoratori”.