Corriere 4.1.19
La selezione dell’élite
Perché sappiamo così poco dei «poteri forti»
di Sabino Cassese
Il
ministro dell’Interno ha dichiarato il 31 dicembre scorso al Corriere
della Sera : «Per me, il grande nemico è la cosiddetta sinistra, che
negli ultimi anni ha difeso soltanto le élite , i poteri forti, banche e
finanza. L’obiettivo è far uscire la sinistra dalla stanza dei
bottoni». Dunque, per Salvini c’è una «stanza dei bottoni» nella quale
sono asserragliati élite , «poteri forti», banche e finanza, difesi
dalla sinistra.
Stupisce che un politico avvertito (qualcuno direbbe oggi «scafato») sia prigioniero di tanto rozze mitologie e luoghi comuni.
Già
quando il leader socialista Pietro Nenni adoperò per la prima volta
l’espressione «stanza dei bottoni», il suo collega di partito Lelio
Basso gli fece osservare che quella stanza non esiste. Più tardi molti
studiosi, tra cui il maggiore storico del fascismo, Guido Melis, hanno
osservato che l’espressione è frutto di una concezione semplicistica dei
meccanismi decisionali del potere. Aggiungo che, se quella stanza c’è,
vi è ora seduto Salvini, al Viminale, con il controllo dei servizi
segreti.
Quanto all’ élite e ai «poteri forti», se Salvini si
riferisce al vertice dello Stato, si autoaccusa, perché ora ci sta lui
(salvo non voler abbandonare la forma statale e ritornare alle forme
prestatali di potere pubblico, la tribù e il clan). Se, invece, si
riferisce a quel migliaio di persone che vengono chiamate «servitori
dello Stato» e che collaborano alla guida della complessa macchina della
nostra società (per intenderci, quella élite alla quale hanno dedicato
studi Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto, Roberto Michels, Richard Wright
Mills), Salvini dovrebbe non criticarla «tout court» (infatti, è
indispensabile, come un ministro dell’Interno dovrebbe aver capito), ma
chiedersi piuttosto se essa è chiusa, invecchiata, sclerotica, al
servizio della nazione o dei propri interessi, animata dallo spirito di
corpo o dall’interesse comune.
Allora, prendiamoli uno per uno
questi «poteri forti», queste élite (per tradizione, Consiglio di Stato,
prefetti, grandi banche) e chiediamoci se sono aperti, come vi si
accede, quanti sono i giovani e quante le donne, quale è la loro
dedizione al servizio pubblico.
Il Consiglio di Stato, un corpo di
un centinaio di giuristi, è tutt’altro che chiuso. Ha tre porte di
accesso, dai tribunali amministrativi, da un concorso diretto, da nomina
governativa. In ogni caso, occorre aver superato un concorso per
merito, aperto a tutti; in alcuni casi, due concorsi. A seconda delle
porte di accesso, vi si entra, in media, a meno di 40 o di 50 anni.
Quasi il 20 per cento è composto da donne. Il ministro dell’Interno non
dovrebbe dubitare della dedizione dei consiglieri di Stato al servizio
pubblico, visto che l’attuale governo è ricorso, molto più di quello
precedente di sinistra, al loro ausilio come capi di gabinetto e degli
uffici legislativi.
Il corpo prefettizio è composto di circa
duecento persone, anch’esse provenienti da concorsi aperti a tutti, nei
quali si è selezionati sulla base delle conoscenze e delle qualità
personali, e si arriva al vertice dopo aver salito i gradini della
carriera di consigliere di prefettura. La metà dei prefetti sono oggi
donne. Un terzo dei questori promossi nel 2018 era anch’esso costituito
da donne. Ogni volta che c’è un grande problema, una situazione di
crisi, si fa ricorso ai prefetti: non è questo il segno che lo Stato
riconosce in essi fedeli e motivati servitori dell’interesse collettivo?
Al
vertice delle due più grandi banche sono oggi due cinquantenni, uno dei
quali proviene dalle due più prestigiose ed egualitarie scuole
francesi; l’altro, dopo ottimi studi e aver «fatto la gavetta», ha al
suo attivo molte esperienze professionali e ha salito tutti gli scalini
dell’azienda. Insomma, il contrario di una élite sclerotica; l’esempio,
invece, di una forte mobilità. Poi, al vertice di quei grandi istituti
vi sono due personalità insigni, che ci invidiano all’estero, uno
proveniente da quella grande «pépinière de grands commis» (vivaio di
grandi amministratori) che è la Banca d’Italia, l’altro dall’università,
ambedue arrivati ai vertici dopo aver fatto mille esperienze, in Italia
e all’estero.
Ritengo che il ministro dell’Interno farebbe bene a
non agitare il drappo rosso fuori dalla finestra e a porsi altre
domande. Ad esempio, dove la società italiana è chiusa e settoriale
(come in alcune professioni), o svantaggiata (come nel Mezzogiorno),
perché l’«ascensore sociale» è tanto lento, perché non riusciamo ad
avere altre élite , come si potrebbe assicurare maggiore circolazione
tra di loro, che altro può farsi per assicurare l’eguaglianza dei punti
di partenza.
Per contribuire a questa sua ricerca — che temo non
lo arrovellerà nei prossimi giorni — gli vorrei segnalare che un modo
per evitare sclerosi burocratiche è quello di consentire l’accesso solo
mediante prove aperte a tutti, in competizione: la nostra Costituzione
dispone che agli uffici pubblici si accede mediante concorso. Ora, il
ministro dell’Interno ha appena firmato una legge di bilancio nella
quale per ben sei volte ricorre la parola «riservato». Significa che si
fanno concorsi, ma che una parte dei posti è «riservata» a particolari
categorie, che sono quindi favorite rispetto agli altri concorrenti, i
quali si vedono precluso l’accesso a quei posti.
Se il ministro
dell’Interno vuole sollevare un problema di organizzazione della nostra
vita collettiva, deve farlo non agitando slogan sbagliati, che non fanno
parte della tradizione della parte politica di cui è esponente e che
non contribuiscono a negoziare il patto tra governo, forze politiche,
istituzioni, associazioni del lavoro e dell’impresa, necessario a
rimettere in moto il Paese, auspicato l’altro ieri dal direttore di
questo giornale.