mercoledì 30 gennaio 2019

Corriere 30.1.19
Lo Zen e Scampia siamo noi
La tragica normalità italiana negli inferi metropolitani visti da Goffredo Buccini
Esce domani per Solferino «Ghetti», analisi di un Paese pervaso da paura e rancore. Verso lo Stato, verso i migranti
Il riscatto non può che partire da queste periferie
di Aldo Cazzullo


«Comunisti di m., tornatevene ai Parioli».
Goffredo Buccini non poteva scegliere una frase più significativa come esergo per il suo libro (accanto a una citazione di Carlo Levi e a una di Paul Taggart). Il quartiere a lungo considerato il simbolo della destra romana oggi vota quella sinistra a cui le periferie hanno voltato le spalle. È il momento giusto per mettersi in viaggio lontano dalle zone altoborghesi e dai centri storici, verso quelli che l’autore chiama nel titolo Ghetti.
È una discesa agli inferi metropolitani, questa che Solferino manda domani in libreria. Per seguirla bisogna prima sapere qualcosa in più sull’autore. Goffredo Buccini è entrato nella storia del giornalismo quand’era poco più che ragazzo, raccontando la stagione di Mani Pulite con notizie di prima mano, compreso l’avviso di garanzia a Berlusconi (che non era una manovra contro l’allora presidente del Consiglio; era, appunto, una notizia. Compito dei giornalisti è dare notizie possibilmente prima degli altri. Questo fece Buccini). Poi, dopo gli anni da corrispondente dagli Stati Uniti, ha iniziato un lungo percorso da reporter a Roma, nel Mezzogiorno d’Italia, e appunto nelle periferie. Un viaggio che ha incrociato sia un’antica curiosità intellettuale dell’autore per la destra e i populismi, sia una fase rivoluzionaria della storia politica del nostro Paese. Da qui l’interesse del libro.
Buccini è anche un romanziere. Ghetti non è però un romanzo; è un racconto di cose e personaggi veri. La prima è Pamela, «la ragazza col trolley», vittima di spacciatori immigrati a Macerata. Il viaggio prosegue a Tor Sapienza, borgata romana dove «si mena e basta». Nel campo rom sulla Prenestina. Nel racket delle case occupate. Nel Cie — Centro di identificazione ed espulsione — di Ponte Galeria.
Altri volti: l’ultima commerciante italiana di Via Pré, nel centro di Genova caro a De André, ormai in mano agli sfruttatori africani. I ragazzi delle bande di Scampia. I braccianti neri nella terra che fu di Peppino Di Vittorio. La nonnina che vuole bruciare vivi i vicini di casa. Yasmina che da Dacca, dove la famiglia l’ha riportata, scrive lettere alla maestra per chiederle aiuto: vorrebbe tornare in Italia per riprendere a studiare con lei.
Il riscatto non può partire che da queste periferie. Ricostruire case, servizi, spirito di comunità, di esistenza pacifica
C’è un capitolo che colpirà particolarmente il lettore. È ambientato in uno dei luoghi più famosi e nello stesso tempo meno conosciuti d’Italia, lo Zen di Palermo. Quartiere simbolo dell’utopia anni 70 — costruire luoghi dove la comunità potesse convivere pacificamente — divenuti incubo quotidiano. Come Scampia. O come il Corviale, dov’è ambientato un altro brano del libro. Oppure come la Zona Espansione Nord del capoluogo siciliano. «Un mondo a parte — scrive Buccini —, un “ricettacolo” urbano devoluto all’abusivismo sin dalla nascita, mal pensato e peggio costruito, dove Cosa Nostra o chi la sostituisce in loco fa da Istituto parallelo delle case popolari, assegnando alloggi e riscuotendo bollette di luce e gas consumati con allacci ovviamente abusivi». Ma la lezione che si deduce leggendo il capitolo è che lo Zen non rappresenta un altrove, bensì una situazione di tragica normalità. Non una «terra incognita» sulle cui mappe si possa scrivere «hic sunt leones», ma lo specchio di rapporti di forza e modi di pensare che si ritrovano in altri quartieri di Palermo.
È questa la vera peculiarità dell’Italia. Perché alla fine del viaggio si può concludere che la rivolta contro le élite — segno del nostro tempo — in Italia è un po’ più complicata dal fatto che le élite non ci sono; o comunque anche «i salvati», coloro che soffrono meno la crisi, condividono con «i sommersi» la stessa diffidenza verso lo Stato, verso le forze dell’ordine, verso la pubblica amministrazione, verso la politica, verso i partiti, verso la democrazia rappresentativa.
Su questa debolezza della comunità nazionale, su questo vizio antico della vita pubblica si è inserita la questione migratoria. Troppo in fretta per non suscitare una reazione di rigetto. Buccini non concede nulla al vento che tira in questi mesi sull’Italia. «Il populismo riempie un cuore vuoto» è la citazione di Taggart di cui si parlava all’inizio. Il populismo non è certo la terapia; ma non va esorcizzato. Bisogna capirne le cause e se possibile rimuoverle. La paura non è il più nobile dei sentimenti; ma negarla o demonizzarla non serve a nulla. L’impoverimento e la distruzione del lavoro fanno il resto. Come nell’ex villaggio olimpico di Torino, simbolo dei Giochi del 2006 e della rinascita sabauda, ora occupato da mille immigrati quasi tutti irregolari, segno di una «città invecchiata, che si va spopolando, dove la disoccupazione giovanile sta sopra la media nazionale, e gli immigrati meridionali guardano con paura e rancore questa seconda ondata di immigrazione».
Il riscatto dell’Italia — ci dice il libro di Buccini — non può che partire da queste periferie. Ricostruire case, servizi, spirito di comunità, possibilità di convivenza pacifica. «Delinquere dev’essere una scelta», ovviamente da reprimere, «e non una necessità», come dice con amara ironia una donna dello Zen.