Corriere 3.1.19
Pensatori Un saggio inedito di Antonello Gerbi dedicato al filosofo uscito a cura di Francesco Rognoni e Silvia Berna (Sedizioni)
L’universo infinito di Bruno
Giordano allargò i confini dello spazio e insegnò il gusto della libertà
di Mario Andrea Rigoni
La grandiosa figura di Giordano Bruno è nota a tutti se non altro per la sua tragica fine di eretico arso vivo nell’anno 1600 dall’Inquisizione cattolica nel Campo de’ Fiori a Roma, dove tuttora si erge la sua statua. Ma è difficile farsi un’idea abbastanza attendibile e univoca della sua opera, in parte scritta anche in latino, straordinariamente complessa, labirintica e rivoluzionaria, soggetta ad una varietà di interpretazioni, al di là di quella vulgata del libero pensatore moderno caro a certo ingenuo laicismo. A questo proposito sarà sufficiente ricordare che le ricerche di un’eccellente quanto insospettabile studiosa inglese del Warburg Institute di Londra, Frances Yates, condussero non solo alla smentita, ma addirittura al rovesciamento di quella rappresentazione, documentando che molti aspetti del pensiero di Bruno, dal suo antiaristotelismo al suo anticristianesimo, si inquadravano nella tradizione dell’ermetismo rinascimentale e nella prospettiva di un recupero dell’antica religione magica degli Egizi, come risulta dal celebre libro Giordano Bruno e la tradizione ermetica (1964).
Alcuni dati senza i quali non si spiegherebbe il pensiero di Bruno sono tuttavia tanto vistosi quanto certi, a incominciare dagli eventi che nel Rinascimento sovvertirono una millenaria concezione del mondo: la rivoluzione spaziale conseguente all’impresa di Cristoforo Colombo, la rivoluzione cosmologica e astronomica operata dalla teoria eliocentrica di Niccolò Copernico e dalle scoperte scientifiche di Galileo Galilei spalancarono letteralmente agli occhi degli uomini una «nuova terra» e un «nuovo cielo», con ripercussioni decisive nella filosofia, nella letteratura, nella poetica e nell’arte visibili già nell’età barocca.
Da questa cornice generale muove inevitabilmente anche un saggio inedito su Giordano Bruno di Antonello Gerbi (1904-1976), adesso recuperato, per merito di Francesco Rognoni, in un’accuratissima ed esemplare edizione, sotto un titolo evidentemente dettato dall’understatement dell’autore (Centone bruniano, a cura di Francesco Rognoni e Silvia Berna, con uno scritto di Sandro Mancini, Sedizioni editore).
Gerbi è stato una rilevante figura della storia culturale e civile italiana. Laureato con una tesi su La politica del Settecento (1928) pubblicata con il patrocinio di Benedetto Croce, allievo in Germania di Friedrich Meinecke, antifascista, intimo dei fratelli Rosselli, amico di Raffaele Mattioli dal quale venne nominato capo dell’Ufficio studi della Banca commerciale italiana, fu autore di varie opere (La politica del Romanticismo, 1932; Il peccato di Adamo ed Eva, 1933) fra le quali un capolavoro storiografico, La disputa del Nuovo Mondo, incentrato sul pregiudizio nei confronti dell’America che andò formandosi nella cultura europea a incominciare dalla metà del Settecento (Ricciardi 1955; Adelphi 2000).
In anticipo sui tempi
La riflessione di Bruno è animata da una ribellione e un dinamismo morale che già preludono allo storicismo romantico
Costretto dalle leggi antiebraiche all’emigrazione in Perù, nel corso degli anni Quaranta Gerbi da un lato pubblicò una prima versione spagnola della Disputa (1943) e trattò in La natura delle Indie Nove. Da Cristoforo Colombo a Gonzalo F. De Oviedo (apparso solo nel 1975 da Ricciardi) il tema dei primi viaggiatori in America e delle questioni connesse alla conquista del nuovo continente; dall’altro si dedicò all’opera di Bruno, componendo un saggio che fonde le qualità del grande storico delle idee con quelle del brillante scrittore.
Il Centone bruniano mostra come il cosmo delimitato e chiuso della tradizione esploda nel pensiero di Bruno in un universo infinito, immanente e omogeneo, senza più centro, inesauribilmente vivo, fecondo e proliferante, popolato da mondi abitati al di fuori della Terra. In tale modo Bruno accoglie e, nel contempo, supera e trasvaluta l’eliocentrismo di Copernico, nel quale si conservava ancora l’idea della finitezza del cosmo e della sua struttura gerarchica.
Ma la particolarità del dottissimo quanto godibile lavoro di Gerbi consiste nella tesi dell’aspetto «politico» della riflessione di Bruno, animata da una ribellione e da un dinamismo morale che già preludono, insieme col gusto dell’individualità, della diversità e del mutamento, allo storicismo romantico. In questo senso l’autore considera Bruno «il maggior “filosofo politico” tra Machiavelli e Vico». Più che al pensatore metafisico Antonello Gerbi guarda infatti al filosofo avverso alla trascendenza, alla Rivelazione e all’ascesi, insofferente di ogni autorità e di ogni limite fino al libertinismo speculativo e linguistico, credente nel «valore assoluto dell’azione».
Si avverte nelle pagine del libro un tale consenso e una tale partecipazione all’avventura tragica di Bruno che l’autore considera il martirio del filosofo non come la morte di un qualsiasi eretico, ma come «la morte trasfigurante di Socrate, di Gesù e di Boezio».
Corriere 3.1.19
Maestri Torna un testo dello studioso scomparso nel marzo del 2018 (Hoepli). Il suo metodo consisteva nel rileggere i classici attraverso le loro vicende personali
Aristotele fu anche zoologo, lo sguardo innovatore di Vegetti
di Eva Cantarella
È davvero importante l’uscita del volume Filosofia e sapere della città antica di Mario Vegetti (Hoepli), nella cui introduzione, scritta poco più di un mese prima del giorno in cui ci ha lasciati (l’11 marzo del 2018), l’autore saluta la ripubblicazione di un libro che quando uscì, verso la metà degli anni Settanta, fu — scrive Franco Ferrari nella premessa — un evento dirompente nel panorama culturale e scolastico italiano.
Come Vegetti ricorda, in quegli anni l’irreprensibile competenza specialistica di molti degli autori di studi filosofici «andava purtroppo unita a una desolante piattezza degli orizzonti culturali. Di qui il desiderio e la necessità di unire il rigore specialistico a una visione più ampia, aperta a una interdisciplinarietà che prevedeva il ricorso a strumenti del sapere diversi, dall’antropologia, alla sociologia culturale al lavoro critico sull’ideologia…».
Ad accrescere l’interesse del libro si aggiungevano altre importanti novità, quali per esempio la risposta di Vegetti a domande che allora nessuno si poneva, vale e dire il ruolo giocato nella formazione e nello sviluppo del pensiero filosofico dalle scienze naturali (la medicina, la geometria, l’astrologia): un ruolo talmente sottovalutato, ricorda Vegetti, da far dimenticare le ricerche zoologiche, che pure occupano circa un terzo delle opere di Aristotele.
Filosofia e sapere insomma era un libro nuovo, originale e affascinante, che divenne e restò per decenni il testo di formazione dei giovani studiosi, ai quali insegnava che i filosofi antichi non erano una categoria uniforme, indifferenziata e astratta, ma figure intellettualmente e socialmente diverse nelle diverse epoche, individui il cui pensiero andava collocato storicamente nel momento e nel contesto della loro vita.
Che rapporto c’era ad esempio tra la filosofia di Aristotele e la sua nascita nella città macedone di Stagira, il suo status ad Atene di meteco (uno straniero residente che non poteva partecipare alla vita politica della città), il ritorno in Macedonia come precettore del giovane Alessandro Magno e poi, nuovamente ad Atene, l’apertura del suo Liceo? Aristotele filosofo, insomma, va letto anche alla luce di Aristotele uomo. Se e quali siano stati gli influssi di queste vicende sul suo pensiero è una questione che qui non è possibile approfondire, ma che la lettura di Filosofia e sapere induce a valutare e comprendere appieno.
Il metodo di Mario Vegetti, si può ben dire, è il contrario del positivismo testuale, che legge e intende i testi come documenti autonomi, del tutto indipendenti dal contesto in cui sono nati e sono stati diffusi, ed è una delle tante qualità che fanno di lui un autentico maestro. Per essere tali non basta infatti essere grandissimi studiosi: i maestri sono quelli che aprono prospettive nuove alla ricerca anche al di fuori del proprio settore disciplinare, come Mario Vegetti ha fatto grazie alla sua straordinaria capacità di collegare il discorso filosofico alla realtà sociale, mettendo in luce da un canto la sua derivazione da questa realtà e dall’altro gli effetti che produce su di essa.
Un libro, questo, non solo da leggere, ma da conservare.
il manifesto 3.1.19
Mattarella debole e gli sfasciacarrozze della Costituzione
Governo/Parlamento. Le convulsioni del dopo 4 marzo accentuano la centralità degli organi di equilibrio e garanzia: Presidente della Repubblica, Corte costituzionale. Per questo il discorso di fine anno di Mattarella è condivisibile, ma non del tutto soddisfacente. Ha un senso di ordinaria amministrazione, in un contesto per nulla ordinario. È minimale il richiamo alle forze politiche a ridiscutere a cose fatte sulla legge di stabilità, anche se capiamo la pressione per promulgare comunque. È un equilibrismo il richiamo alla sicurezza e agli immigrati, ma non all’accusa di violare i diritti umani che molti hanno rivolto all’Italia
di Massimo Villone
È risuonata alta la protesta contro l’incostituzionale bavaglio applicato al parlamento con l’approvazione della legge di stabilità. Come scrive Azzariti su queste pagine, nell’esperienza passata molto era già accaduto.
E il voto imposto senza uno straccio di discussione è stato solo l’ultimo e più evidente strappo. Ma bisogna essere consapevoli che il più ampio rispetto del galateo parlamentare non avrebbe, con ogni probabilità, prodotto una legge significativamente diversa. La domanda è: come si può fare utilmente argine?
La forza di un’assemblea elettiva è data dalla forza dei soggetti politici collettivi che in essa entrano con i propri rappresentanti. La debolezza del parlamento oggi viene dalla debolezza complessiva del sistema dei partiti. Salvo uno: la Lega. E questo ne spiega la capacità di assumere una posizione dominante nella compagine di governo e il trend dei sondaggi. Non c’è competizione tra un partito vero con un progetto politico, e un non-partito che va a palazzo Chigi con un non-programma, ma con un paniere di proteste variamente raccolte.
Le convulsioni del dopo 4 marzo accentuano la centralità degli organi di equilibrio e garanzia: Presidente della Repubblica, Corte costituzionale. Per questo il discorso di fine anno di Mattarella è condivisibile, ma non del tutto soddisfacente. Ha un senso di ordinaria amministrazione, in un contesto per nulla ordinario. È minimale il richiamo alle forze politiche a ridiscutere a cose fatte sulla legge di stabilità, anche se capiamo la pressione per promulgare comunque. È un equilibrismo il richiamo alla sicurezza e agli immigrati, ma non all’accusa di violare i diritti umani che molti hanno rivolto all’Italia.
Terreno anche giuridicamente minato, come dimostra lo scontro in atto tra il sindaco Orlando e il ministro Salvini. Non si menziona l’attacco alla stampa e all’informazione. Si allude in modo del tutto criptico – richiamando l’unità della Repubblica come comune destino – alla secessione leghista strisciante attraverso l’art. 116. Eppure, l’attacco all’unità è ormai pubblicamente discusso e viene rafforzato da minacce di crisi di governo. Mentre la Costituzione chiama il Capo dello Stato a rappresentare l’unità nazionale (art. 87). Persino Conte si è auto-nominato garante.
Si può opporre che il Capo dello Stato si è anche già espresso altrove. Ma nel discorso di fine anno parla direttamente a tutti gli italiani. È un messaggio non mediato, di efficacia comunicativa non comparabile con l’esternazione in sedi più ristrette, come gli incontri con la stampa parlamentare o benemerite associazioni.
È possibile che il ruolo del Capo dello Stato, già difficile, lo diventi ancor più. Analoga considerazione vale per la Corte costituzionale. Il 9 gennaio deciderà preliminarmente sulla ammissibilità del ricorso Pd per la legge di stabilità, e potrebbe negarla. Ma è indiscutibile la indebita compressione della funzione dei parlamentari – non rileva se considerati individualmente o come gruppo – nelle ore convulse che hanno preceduto il voto sulla fiducia e l’approvazione. Quanto alla successiva decisione sul merito, però, un rigetto del ricorso – anche guardando ai precedenti – è più probabile, soprattutto per l’argomento che esistono garanzie e rimedi nell’ordinamento interno dell’assemblea. Nel confronto politico proprio di un’assemblea elettiva violazioni molteplici sono in ogni momento possibili, e una linea giurisprudenziale di apertura senza filtri rischierebbe di rendere la Corte sede di appello per contrasti e dissensi, individuali e di gruppo. Nel caso specifico, poi, potrebbe provocare uno tsunami politico, istituzionale e finanziario. Volendo scommettere, sì per l’ammissibilità, no nel merito del ricorso.
Bisogna rimanere in campo, ma sapendo che non ci sono scorciatoie o demiurghi. Il paese si rinsalda con soggetti politici stabilmente e solidamente strutturati, assemblee ampiamente rappresentative, parlamentari liberamente eletti e non vincolati al mandato di chicchessia.
Un percorso né facile né breve. Scalfari su Repubblica legge nel discorso di Mattarella la nazione perfetta. Più modestamente, noi vorremmo porre al riparo da strappi il tessuto artigianale complesso e raffinato della Costituzione, tornando ai fondamentali e fermando gli sfasciacarrozze.
Repubblica 3.1.19
Dietro al colle la sfida delle due italie
di Stefano Folli
Il 2019 si apre con alcuni sindaci, guidati dal palermitano Leoluca Orlando, che contestano il decreto anti-migranti di Salvini e annunciano di non volerlo applicare. Si vedrà quali effetti pratici avrà questa levata di scudi.
Potrebbe essere solo un gesto dimostrativo e mediatico; oppure un inizio di disobbedienza civile molto ambiziosa. Che la sinistra in Italia rinasca dal rifiuto del "decreto sicurezza" è difficile da credere, tuttavia la questione generale è un’altra: l’opinione di centrosinistra è alla ricerca affannosa di qualcosa a cui aggrapparsi.
La scadenza delle elezioni europee si avvicina e si avverte l’urgenza di temi e contenuti nuovi in grado di sostenere il confronto con i nostri "sovranisti", al momento tra i più aggressivi dell’Unione. La risposta a questo bisogno è frammentaria come tutta la storia recente del mondo "progressista" sconfitto il 4 marzo. Le contraddizioni non si contano. Ci sono i comitati e circoli "macroniani" che dovevano preparare il lancio spettacolare di una "lista Renzi" e che appaiono già ridimensionati dal disimpegno dell’ex presidente del Consiglio, tutt’altro che convinto dell’opportunità di lasciare il Pd senza la certezza di uno spazio elettorale adeguato (i sondaggi indicano un 5-6 per cento al suo movimento). C’è il percorso dello stesso Pd verso le primarie, senza che siano chiari non tanto i programmi, quanto l’idea di sinistra coltivata da Zingaretti e dal suo avversario Martina: il che rischia di fare del congresso solo un’occasione offerta al ceto politico per sistemare i rapporti tra le correnti.
Infine c’è appunto il "partito dei sindaci" che prova a riorganizzarsi in funzione anti-Salvini, da Orlando a de Magistris a Pizzarotti e altri. In passato tentativi simili non hanno dato buoni risultati perché al dunque i fattori che dividono i sindaci sono più numerosi di quelli che li uniscono. Ma il 2019 si profila come un anno cruciale e non è strano che molti si attrezzino per giocare le loro carte.
È su tale sfondo che è calato il discorso di San Silvestro di Sergio Mattarella.
Discorso di forte impegno morale ma nella sostanza prudente, come ha sottolineato Eugenio Scalfari. Eppure il centrosinistra ne ha fatto subito la sua bandiera ideale, sfumando la linea di demarcazione tra il ruolo istituzionale del presidente e la guida politica che certo Mattarella non può incarnare, ma di cui quello schieramento ha estrema necessità. E qui si pone l’interrogativo più delicato, come notava ieri anche l’anziano Emanuele Macaluso.
Riconosciuto che il capo dello Stato è e rimane il garante dell’equilibrio costituzionale, i suoi richiami alla coesione a chi si rivolgono? In teoria a tutti, in pratica devono scontare lo squilibrio politico che si è creato nel Paese.
Il fronte cosiddetto populista è accreditato di circa il 60 per cento, ma un conto sono i Cinque Stelle, oggi attentissimi alla parola del Quirinale, e un altro sono i leghisti. Del centrosinistra allo sbando si è detto. Dopo il voto europeo l’Italia potrebbe trovarsi alle prese con una destra salviniana rafforzata ed esigente. Interprete di un progetto in Italia e in Europa assai diverso da quello delineato da Mattarella. Il quale però incarna un potere istituzionale tutt’altro che indefinito, come vorrebbero i suoi avversari. Quindi l’Italia ideale descritta dal capo dello Stato rischia di essere sfidata dall’Italia reale figlia dei nostri tempi e legittimata nelle urne (sia pure urne europee e non nazionali). Sotto tale aspetto il 2019 potrebbe preparare qualche sorpresa.
Repubblica 3.1.19
L’analisi
Il cortocircuito tra i sovranisti e il popolo
di Nadia Urbinati
Il nuovo anno politico porta in dote due tendenze speculari: leader che si dichiarano "popolo" e moltitudini che rifiutano di essere rappresentate come popolo dai leader. Leader e masse in isolamento reciproco. L’Italia è un libro di testo del primo fenomeno. La Francia del secondo. L’Europa che dovrà rinnovare il suo Parlamento è come stretta in una tenaglia: tra leader nazional-populisti e un "orizzontalismo moltitudinario".
Dei due, il secondo è più transnazionale, segno di un malessere sociale accumulato in dieci anni di crisi economica che, per una larga parte della popolazione, ha significato declino e povertà senza speranza di un miglioramento. Entrambi sono segni di perdita di potere della sovranità democratica, un’energia dormiente che nessuna forza politica sa come rappresentare. Nemmeno i populisti onnivori di popolo. Leader e moltitudini viaggiano su binari paralleli in un orizzonte segnato dall’intolleranza per le intermediazioni. Per obiettivi diversi: i leader, per avere mano libera nell’azione politica; le moltitudini, perché non si fidano di chi non è dei loro. La rappresentanza si liquefa in entrambi i casi.
I partiti hanno per alcuni decenni ordinato e finalizzato la partecipazione e la competizione politica. Non parlavano mai direttamente nel nome del popolo, e non avevano alcuna remora a dichiararsi "parte", a voler rappresentare una parte.
Ma il loro essere di parte era in nome di principi che interpretavano la società intera e aspiravano a guidarla in una direzione piuttosto che in un’altra. Un Capodanno dopo l’altro, queste intermediazioni hanno perso credibilità, perché senza principi i partiti sono diventati come fazioni e caste, oligarchie illegittime. Fino a quando la cittadinanza democratica non si è mostrata nella sua nuova veste: con una rappresentanza immediata, fatta o di leader o di gente.
L’Italia e la Francia sono laboratori esemplari. Il nostro paese ha gradualmente metabolizzato la fine dei partiti e la personalizzazione plebiscitaria; e si trova con un governo anfibio: due leader populisti che non possono mai essere certi del popolo che dicono di rappresentare. Lo ha involontariamente confessato Salvini quando ha detto che grazie a lui l’Italia non ha un’insurrezione popolare. Ma il prezzo da pagare è alto per tutti: perché i leader che avvertono i rischi della loro solitudine sono affamati di pubblico, e come cuochi devono sfornare ogni giorno qualche cosa di nuovo e accattivante.
Al di là dell’audience c’è la moltitudine, anche se sembra molto lontana dal generare una forza di rivolta sociale per conquistare lo Stato e cambiare le relazioni di potere. Non c’è la liberazione tra gli obiettivi dei gilet gialli, ma la diminuzione della sofferenza economica e sociale. La Francia che ha atterrato il Partito socialista non ha altro che un presidente "nudo e crudo" e una cittadinanza insorgente che non trova ascolto e usa la violenza come espediente comunicativo.
Il nostro presidente nel messaggio di fine anno ha pennellato questo stato di sofferenza parlando delle periferie urbane come di mondi desolati, dove non ci sono più sedi di partito a unire ed emancipare, e la delinquenza e il sopruso delimitano lo spazio delle scelte individuali e collettive. Senza forze politiche la nostra cittadinanza rischia di essere una finzione, perché diritti e istituzioni non riescono da soli a limitare la diseguaglianza di potere e a creare condizioni di opportunità.
Bergoglio scatena la grande (?) controffensiva democristiana
Il Fatto 3.1.19
Orlando apre lo scontro: “Stop al decreto Salvini”
A Palermo “residenza anche agli irregolari”. Sindaci in trincea da Napoli a Milano
Orlando apre lo scontro: “Stop al decreto Salvini”
di Sandra Amurri e Giuseppe Lo Bianco
Il sindaco di Palermo Leoluca Orlando lo definisce “disumano e criminogeno’’ e con una nota al dirigente dell’ufficio anagrafe sospende l’applicazione del “decreto sicurezza” nella parte in cui, “ma non solo’’, impedisce l’iscrizione all’anagrafe dei migranti non più in regola con il permesso di soggiorno. Gli replica Salvini a stretto giro: “Con tutti i problemi che ci sono a Palermo, il sindaco sinistro pensa a fare ‘disobbedienza’ sugli immigrati”. E annuncia una visita in Sicilia. Ma per Orlando il decreto “puzza di razziale’’, e la sua, dice, non è “disobbedienza civile’’, ma l’applicazione dei diritti costituzionali “perché non posso essere complice di una violazione palese dei diritti umani’’.
Sono quattro gli articoli della Costituzione (e una sentenza della Consulta) citati dal primo cittadino nella nota inviata al capo area Servizi per il cittadino in cui “impartisce la decisione di sospendere qualunque procedura che possa intaccare i diritti fondamentali della persona con particolare riferimento, ma non esclusivo, all’iscrizione anagrafica’’, e tra questi l’art. 32 che garantisce il diritto all’assistenza sanitaria, messo a rischio dalla negazione della residenza anagrafica. La nota invita anche “ad approfondire tutti i profili giuridici anagrafici derivanti dall’applicazione del decreto sicurezza’’, che il Comune di Palermo ha in realtà già approfondito, come fa notare Igor Gelarda, responsabile cittadino della Lega, che ha scoperto come il 2 novembre scorso lo stesso capo area investito da Orlando, Maurizio Pedicone, insieme all’assessore Gaspare Nicotri, avevano risposto ad una interrogazione di Sinistra Comune sul rifiuto di sei istanze di “prima iscrizione anagrafica’’ di migranti, sostenendo che “il permesso di soggiorno non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica’’ e distinguendo i già iscritti (e richiedenti quindi un cambio di residenza) per i qualiè sufficiente “una semplice ricevuta di domanda di permesso’’.
Il fronte dei sindaci è ampio. L’Anci, l’associazione dei Comuni, aveva già espresso la sua contrarietà al decreto Salvini, in particolare per il rischio di un’uscita massiccia di stranieri dai centri di accoglienza. Ieri Decaro, presidente dell’Anci, ieri ha assunto una posizione più morbida di Orlando: “Occorre istituire un tavolo di confronto in sede ministeriale per definire le modalità di attuazione e i necessari correttivi a una norma che così com’è non tutela i diritti delle persone”. È la stessa linea di Federico Pizzarotti, sindaco ex M5s di Parma, oggi leader di “Italia in Comune” e vicepresidente Anci: “Quella di Orlando è una forzatura che non risolve il problema. L’ufficio anagrafe deve applicare la legge. Concordo con la necessità di un tavolo.
“La mancata applicazione della legge Sicurezza è un atto politico – osserva il presidente emerito della Consulta, Cesare Mirabelli –. I Comuni sono tenuti a uniformarsi alle leggi. La pubblica amministrazione non può sollevare questioni di legittimità costituzionale. A meno che non si tratti di norme con carattere discrezionale”. Se il sindaco la disapplica “interviene il prefetto o un’altra autorità, sorge un contenzioso e allora potrebbe essere sollevata una questione di legittimità costituzionale”.
Luigi De Magistris, sindaco di Napoli, la mette così: “Non si tratta di sospendere una legge che, in quanto tale, non si può sospendere”, ma “le leggi si applicano solo in maniera conforme alla Costituzione”. Concorda con Orlando l’assessore alle Politiche sociali del Comune di Milano, Pierfrancesco Majorino: “Legge o non legge, non abbiamo nessuna intenzione di togliere l’iscrizione anagrafica ai richiedenti asilo che l’hanno già fatta, stiamo accogliendo nei centri per senzatetto italiani anche gli stranieri senza porci il problema se siano regolari o meno”. Assicura di “studiare la decisione di Orlando” il sindaco di Pescara, Marco Alessandrini che oggi ospiterà Salvini. Intanto il ministro twitta: “Certi sindaci hanno mangiato pesante, ne risponderanno”.
Corriere 3.1.19
La prima udienza del Papa nel nuovo anno
«Meglio atei che andare in chiesa e odiare gli altri»
di Ester Palma
«Meglio non andare in chiesa e vivere come atei, se poi si odiano gli altri e si parla male di loro. Questo è uno scandalo: chi si sente cristiano e riceve i sacramenti deve dare testimonianza della sua fede, vivere da figlio di Dio, da fratello, con amore, non dare una contro-testimonianza». Nella prima udienza generale del 2019 Papa Francesco si scaglia con forza, parlando a braccio, contro chi non vive la «rivoluzione, l’inquietudine del cristianesimo». E partendo dal Discorso della montagna di Gesù, quello delle Beatitudini, commenta: «Cristo incorona di felicità una serie di categorie di persone che nel suo tempo, ma anche nel nostro, non erano molto considerate. Beati i poveri, i miti, i misericordiosi, le persone umili di cuore». E qui si avverte, per il Papa, la portata rivoluzionaria delle parole di Gesù, che capo-volge i valori della Storia»: «Tutte le persone capaci di amore, gli operatori di pace che fino ad allora erano finiti ai margini della storia, sono invece i costruttori del Regno di Dio. È come se Gesù dicesse: avanti voi che portate nel cuore il mistero di un Dio che ha rivelato la sua onnipotenza nell’amore e nel perdono». Per Francesco, «se uno ha il cuore buono, predisposto all’amore, capisce che ogni parola di Dio va incarnata fino alle estreme conseguenze. L’amore non ha confini: si può amare il proprio coniuge, il proprio amico e perfino il proprio nemico con una prospettiva del tutto nuova». Insomma, il Papa invita i fedeli (e non) a riscoprire «il grande segreto» alla base di tutto il Discorso della montagna: «È tutto in una frase: siate figli del Padre vostro che è nei cieli». Nessuna morale astrusa, troppo difficile da applicare alla realtà umana, o precetti invalicabili: «Il cristiano non è uno che si impegna a essere più buono degli altri: sa di essere peccatore come tutti. Ma è l’uomo che sosta davanti alla rivelazione di un Dio che non porta l’enigma di un nome impronunciabile, ma chiede ai suoi figli di chiamarlo Padre, di lasciarsi rinnovare dalla sua potenza e di riflettere un raggio della sua bontà per questo mondo così assetato di bene, così in attesa di belle notizie». Il Papa se la prende poi con chi «è capace di tessere preghiere atee, senza Dio, solo per essere ammirati dagli uomini». O con i «pagani» che «pensano che parlando, parlando, parlando, si prega. E tanti cristiani credono che pregare è parlare a Dio come un pappagallo. No, si prega dal cuore, da dentro: basta mettersi sotto lo sguardo di Dio, ricordarsi del suo amore di Padre. Lui non ha bisogno di sacrifici per conquistare il suo favore. Ci chiede solo di tenere aperto un canale di comunicazione con Lui per scoprirci sempre suoi figli amatissimi. E Lui ci ama tanto».
La Stampa 3.1.19
L’ex ministro della Giustizia Giovanni Maria Flick
“Sbagliato ribellarsi così
Faccia ricorso a un giudice”
di A. C.
«L’articolo del decreto Salvini che nega la possibilità di ottenere la residenza ai richiedenti asilo presenta rilevanti dubbi di costituzionalità. Ma la strada per verificare se quella norma rispetti la nostra Costituzione non è quella intrapresa dal sindaco di Palermo Leoluca Orlando», spiega l’ex presidente della Consulta ed ex ministro della Giustizia Giovanni Maria Flick. «Il Comune, così come il singolo , possono rivolgersi al giudice ordinario, anche con procedura d’urgenza, per accertare se il primo ha il dovere di rilasciare e il secondo ha il diritto di ottenere il certificato di residenza. Sarà il giudice che, eventualmente, solleverà la questione di legittimità davanti alla Corte se riterrà che la norma violi dei diritti fondamentali».
1 Dunque Orlando ha torto?
«Condivido i suoi dubbi sulla costituzionalità di quelle norme e il suo coraggio civile: la nostra Carta prevede un principio di accoglienza soprattutto per i richiedenti asilo. Vedo un filo comune tra le parole del Capo dello Stato a Capodanno e l’azione di Orlando».
2 Salvini fa notare che quella legge è stata firmata dal Quirinale.
«Il Colle fa un esame globale delle leggi, non entra nei dettagli tecnico-giuridici. Quel tipo di esame spetta alla Corte».
3 Un sindaco può disobbedire?
«No, un sindaco non può disapplicare le leggi dello Stato, altrimenti se ogni Comune si muove a modo suo si crea il caos».
4 I migranti non residenti rischiano di non ricevere cure negli ospedali?
«La mancata concessione della residenza non crea rischi per il diritto alla salute che resta
garantito anche per chi ha solo un domicilio, anche se è facile immaginare che la mancata iscrizione all’anagrafe creerà gravi disfunzioni di fatto. Semmai vedo la possibilità di lesione di altri diritti come quelli al lavoro e alle prestazioni sociali. Chi non ha una residenza ha un obiettiva penalizzazione nella ricerca del lavoro e anche nell’ottenimento di prestazioni sociali. E la pari dignità sociale è uno dei cardini della nostra Costituzione». a. c.
Il Fatto 3.1.19
Le troppe illusioni del neoliberismo
La nuova rabbia - Oggi c’è grande allarme in Europa per l’ascesa delle destre, ma Luciano Gallino aveva già colto le spinte di fondo che alimentavano il rancore: dall’apologia della disuguaglianza dei redditi alla riduzione del lavoro a merce
di Filippomaria Pontani
Nel leggere il recente rapporto dell’Università di Amsterdam sulla crescita elettorale di forze definite come “populiste” e “anti-sistema” in Europa, può venire in mente il cupo pannello dedicato ai flussi elettorali degli anni 1920-30 nel Museo della Villa della Conferenza di Wannsee fuori Berlino (dove il Nazismo varò nel 1942 la soluzione finale, ora centro di documentazione sui totalitarismi).
Ma chi abbia memoria più fresca, potrà ricordare le pagine finali di un libro di Luciano Gallino (Finanzcapitalismo, Einaudi 2011), nel quale il sociologo torinese constatava come le politiche di austerità, combinate con la mancanza di regolazione dell’economia a dominante finanziaria, con l’abbattimento diffuso del welfare, con la debolezza (corrività) delle istituzioni, stessero portando a un’affermazione crescente di formazioni di destra e di tendenze più o meno autoritarie. Sull’attualità del pensiero di Gallino, scomparso nel 2015, e i suoi potenziali sviluppi torna ora il volume Le grandi questioni sociali del nostro tempo curato da Pietro Basso e Giuliana Chiaretti (scaricabile dal sito delle Edizioni Ca’ Foscari), volto a demistificare alcuni mantra del pensiero unico. Ne citeremo qui tre.
1) L’idea che servano (a seconda che si parli da una prospettiva keynesiana o da una neoliberista) “meno disuguaglianze per una crescita più forte” o viceversa “più crescita per ridurre le disuguaglianze”: un denso saggio di Fabio Perocco mostra come l’aumento delle disuguaglianze nel corso degli ultimi 40 anni (quando il Pil mondiale è più che decuplicato) sia un fattore strutturale dell’attuale globalizzazione, a livello macroeconomico come a livello interno dei singoli Paesi. Spicca il caso della Germania, dove la legislazione (il famigerato sistema Hartz IV ecc.) ha polarizzato il mondo del lavoro tra un’élite protetta e una sempre più vasta platea di minijobs, precari o part-time, con un incremento delle disparità salariali paragonabile soltanto a quello di Usa e Polonia. Nello stesso senso va l’approfondirsi del solco tra il Nord e il Sud dell’Italia. Del resto, argomenta Perocco, non è un caso che l’ideologia neo-liberista veda proprio nelle disuguaglianze un fattore ineludibile e anzi propulsivo per la crescita dell’economia e della società, e predichi come soluzione delle crisi la riduzione dei diritti sociali e la commercializzazione di alcuni di essi (sanità, istruzione, energia).
2) L’idea che i governi si siano ritirati dinanzi all’iniziativa privata: al contrario, negli ultimi decenni i governi dei Paesi occidentali si sono attivamente adoperati in appoggio e in omaggio al capitale finanziario. Si è propagandata l’idea che la crisi del debito sia dovuta al welfare (mentre la crescita del 20 per cento del debito nell’Ue all’indomani della crisi non è certo stata causata dall’aumento dei sistemi di protezione sociale); si è insistito su ottusi dogmi di austerità (la candidatura di Manfred Weber nelle prossime elezioni europee per la Commissione non fa presagire nulla di buono); si sono adottate politiche sempre più influenzate dalla governance delle multinazionali. E sono state le classi dirigenti – ricordano Franco Rositi e Giorgio Cesarale – a togliere ogni ostacolo normativo all’accumulazione finanziaria, a decidere di mantenere alti profitti e dividendi pur in una situazione di bassa crescita, a limitare la sovranità degli Stati svincolando però i più importanti centri decisionali dell’Unione Europea da ogni investitura democratica. L’assenza, a fronte di tutto ciò, di una “politica del lavoro globale” a livello transnazionale è la sconfitta più grande che Gallino imputava alla propria generazione.
3) L’idea che la flessibilità sia un ingrediente ineludibile del mercato del lavoro: dopo l’illuminante saggio di Gallino Il lavoro non è una merce, del 2007, la “storia e preistoria dello stage” qui disegnata da Rossana Cillo mostra come l’adeguamento del sistema educativo alle esigenze del mercato neoliberista, culminato in Italia nell’arco che va dal pacchetto Treu (1997) alla Buona Scuola renziana (2017), affondi le radici in una svolta ideologica sancita a livello europeo nel 1993 con il libro bianco su “Crescita, competitività e occupazione” prodotto dalla Commissione guidata da Jacques Delors. Lì il modello sociale europeo si immolava sull’altare dei dogmi della European Round Table of Industralists, secondo i quali produttività e occupabilità dovevano rimanere gli unici criteri-guida del processo d’istruzione. Il che sarebbe risultato fors’anche tollerabile, se non si trovasse oggi che il mitico “stage” cui tanti giovani agognano (per il 70 per cento dei casi non retribuito), conduce a un’assunzione (spesso di breve durata) solo nel 12 per cento dei casi, finendo per sballottare il giovane da un ambiente all’altro, togliendo a chi lavora davvero la coscienza stessa del suo essere lavoratore, e trasformandolo in imprenditore del proprio stesso sfruttamento.
Gallino è stato un riformista deluso, che ha misurato la distanza della sua visione dell’impresa responsabile, conosciuta e praticata nell’Olivetti degli anni ’60 e ’70, rispetto a un capitalismo guidato da manager senza empatia per la loro azienda, interessati solo ai listini azionari, e non di rado ai propri smisurati profitti personali. Tuttavia, egli riteneva che le dimensioni ipertrofiche del capitalismo finanziario fossero fondamentalmente una patologia del sistema (analogamente, per altro verso, Thomas Piketty che accusa la distribuzione polarizzata della ricchezza, o Nouriel Roubini che addita le errate scelte istituzionali): per Pietro Basso, invece, la deriva presente ha i tratti di una desolante e immedicabile fisiologia del sistema capitalistico.
Comunque la si pensi, è indubbio che l’ideologia neoliberista si serva di molte mistificazioni. Per quanto inseriti in un discorso strutturato e allo stato privo di alternative organiche nell’arena politica, gli inganni alla lunga mostrano la corda, e inducono forme di turbolenze nelle urne e fuori: sfociano spesso in urgenti richieste di protezione soddisfatte da governi nazionali più decisi che danno mostra d’impostare la discriminazione su base etnica anziché censitaria; monta così la sfiducia verso il parlamentarismo e la diffidenza verso le istituzioni sovranazionali. Solo Paesi che hanno ancora fresca la memoria della destra dittatoriale (la Spagna, la Grecia) sanno sviluppare – con esiti alterni – risposte “da sinistra”: altrove, “bruciato” il potenziale di resistenza di una socialdemocrazia che ormai de facto difende (o si identifica con) il potere delle élite transnazionali, vecchi fantasmi tornano a circolare, talora camuffati talaltra no. La sociologia non mainstream, quella che Gallino praticava, mira a demistificare, a raccontare la verità anziché giustificare l’esistente, a leggere l’oggi prevedendo il domani e i suoi pericoli. Perché, lungi da ogni nostalgia, “bisogna vivere nel proprio tempo”, come osserva un raggelato Nagg nel Finale di partita di Samuel Beckett: pochi giorni fa alla Scala, tra gli spettatori della prima mondiale dell’opera dell’anziano György Kurtág, c’era un attento (e sempre più milanese) Viktor Orbán.
il manifesto 3.1.19
Reddito di sudditanza, parte la gara a chi è più razzista e controllore della vita dei poveri
Workfare all'italiana. Destre scatenate contro l'estensione potenziale del sussidio di povertà detto impropriamente "reddito di cittadinanza" a una platea di 200 mila famiglie straniere residenti in Italia da più di 5 anni. Dalla maggioranza rispondono che contro i "furbetti" sono previsti sei anni di carcere
di Roberto Ciccarelli
Senza aspettare la pubblicazione del decreto sul sussidio di sudditanza (il «reddito di cittadinanza» che regalerà 5-6 mesi di sgravi alle imprese) tra i Cinque Stelle, Forza Italia o Fratelli d’Italia è partita la gara a chi è più razzista, attento a promettere più anni di galera ai «poveri» che disobbediranno allo Stato-etico controllore. Ieri, le destre hanno dato vita a una serie agghiacciante di dichiarazioni sull’estensione del sussidio a quasi 200 mila famiglie stimate (su una platea di 1.375.000) straniere residenti da più di 5 anni in Italia che hanno lavorato, e oggi risultano «povere assolute». I Cinque Stelle, invece, ricordano che per i «furbetti» italiani ci sono sei anni di galera se lavoreranno in nero mentre percepiscono il sussidio. Sempre che accettino di assoggettarsi al sistema punitivo che sarà adottato, in linea di continuità con il «workfare» adottato in tutta Europa. Le destre sembrano volere attribuire le funzioni di controllo agli ispettori del lavoro. Compito che, in realtà, non dovrebbe spettargli. Avranno anche «abolito la povertà», ma hanno trasformato i poveri in potenziali criminali a cui sarà contestato il «reato di cittadinanza». Il dibattito è questo.
L’estensione agli stranieri è, per i populisti, un problema. Inizialmente avevano previsto di riconoscere il loro sussidio solo ai residenti da 10 anni. L’ipotesi aveva sollevato obiezioni di incostituzionalità. Elemento presente anche nell’opzione a 5 anni. Nel clima «sovranista» il problema sembra un altro: l’ipotesi di lesa «cittadinanza» in nome del «prima gli italiani». Nessuno ricorda che tale estensione era già prevista dal «reddito di inclusione» (ReI), proprio quello del Pd. Prima erano 2 anni di residenza, ora sono cinque quelli richiesti per presentare domanda. L’impresa gialloverde è il potenziamento, con ben altre risorse, del «ReI». Il nuovo sussidio sarà compatibile con quello di disoccupazione «Naspi», mentre il «ReI» non lo era, purché non superi la soglia del reddito annuo, 6 mila euro incrementati di caso in caso. Tra ieri e oggi ci sono differenze nell’aspirazione autoritaria al controllo della vita dei poveri. A ciascuno il suo: chi più, chi meno.
Il Fatto 3.1.19
Le vere incognite sul reddito
di Stefano Feltri
In questo Paese che vezzeggia ladri ed evasori definendoli “furbetti” è comprensibile che il dibattito sul reddito di cittadinanza si sia concentrato sui potenziali abusi, su quella massa (in gran parte immaginaria) di parassiti che non chiede altro che vivere di elemosina pubblica. Ora che però il decreto sul reddito è quasi pronto e se ne conoscono alcuni dettagli, che raccontiamo alle pagine 2 e 3, è il momento di farsi domande diverse: funzionerà? Al netto della patologia, guardiamo la fisiologia: come cambierà la vita di quei 4,5 milioni di famiglie che da aprile potrebbero spendere fino a 1.330 euro in più al mese (per tre adulti indigenti con due minori)? Diventeranno dei mantenuti dallo Stato? Usciranno dalla povertà trovando un impiego? O si creerà un mercato del lavoro da Oliver Twist in cui una categoria di disoccupati senza potere contrattuale sarà costretta ad accettare qualunque offerta perché altrimenti perde il sussidio con cui si mantiene e la possibilità di richiederlo per l’avvenire? È il modo migliore di spendere oltre 7 miliardi pubblici all’anno?
La proposta dei Cinque Stelle ha smussato alcune delle assurdità iniziali, grazie anche al lavoro del professor Pasquale Tridico: ora distingue tra poveri che col loro magro reddito devono pagare un affitto e quelli che vivono in case di proprietà; prevede l’ipotesi che non tutti possano lavorare, chi si occupa della cura di familiari disabili o minorenni non sarà costretto ad accettare lavori lontano da casa; l’ossessione per i centri per l’impiego pubblici, oggi inutili e lenti nell’ammodernarsi, si è attenuata e il sistema di sussidi si reggerà anche sulle agenzie private che hanno un incentivo economico a trovare un posto ai beneficiari del reddito; anche le imprese sono state coinvolte (pure troppo), e riceveranno sia una parte dei soldi che lo Stato avrebbe pagato al disoccupato che loro assumono, sia incentivi per la sua formazione.
Tutto bene, dunque? Non proprio. Le incognite sono ancora parecchie e ad alcune c’è ancora tempo per porre rimedio. Bisogna chiarire bene, per esempio, a quali condizioni le imprese possono beneficiare degli incentivi. Altrimenti la tentazione è troppo alta: per le mansioni poco qualificate, all’imprenditore basta non rinnovare un contratto a termine, magari con la scusa del decreto dignità, e assumere un disoccupato beneficiario del reddito così da intascare l’incentivo. Nessun aumento di occupazione e reddito di cittadinanza che diventa un sussidio all’impresa invece che ai poveri. I denari pubblici devono finanziare soltanto l’occupazione aggiuntiva, non il turnover.
C’è poi un punto mai affrontato: che succede alle partite Iva? Lo Stato può costringere un operaio disoccupato ad accettare un contratto da operatore delle pulizie, ma non può imporre a un giovane architetto di cercare clienti e fatturare così da pagarsi commercialista, contributi e spese varie per ritrovarsi in tasca a fine mese somme più basse di quelle che prenderebbe chiedendo il reddito di cittadinanza. Ha davvero senso pretendere che si formi come imbianchino o tecnico informatico? Sarebbe molto più utile imitare la Francia e prevedere una possibilità di cumulo tra reddito da lavoro e sussidio pubblico, così da favorire l’uscita dalla “trappola della povertà” invece che ostacolarla.
Il Rei, il Reddito di inclusione introdotto dal governo Gentiloni, considera tra i parametri di accesso un indicatore – Isr – diverso dal reddito familiare semplice che permette, nella pratica, di poter sommare un po’ di sussidio a quanto si incassa lavorando. Quando invece lo scambio è alla pari – se guadagno un euro perdo un euro di sussidio – si incentiva l’assistenzialismo. E dare a tutti i poveri in affitto un contributo di 280 euro per la casa significa trattare in modo uguale situazioni molto diverse: gli affitti di Roma non sono gli stessi di un piccolo Paese dell’appennino emiliano. Sarebbe più equo, e più efficace, dare un maggiore sostegno all’affitto a chi abita in zone dove i prezzi sono più elevati. C’è anche un’evidente sproporzione tra la quantità di risorse che va ai single (1,6 miliardi di euro) e quella alle famiglie numerose (1,4 miliardi), anche se sono queste ultime che andrebbero aiutate di più.
La serietà di ogni politica pubblica – e quella dei suoi proponenti – si misura soprattutto dal fatto che sia possibile misurarne successo o insuccesso. Per gelosie varie tra pezzi di amministrazione pubblica, che custodiscono gelosamente dati che dovrebbero essere alla portata di tutti, non è ancora stato possibile neppure analizzare l’impatto del Rei. Se i Cinque Stelle sono sicuri delle loro scelte, devono prevedere un monitoraggio trasparente e rapido degli effetti del loro reddito di cittadinanza. In modo che sia possibile darne una valutazione indipendente e tempestiva. Abolire la povertà è un nobile intento, ma per stabilire se ci si riesce o meno servono i numeri, non le parole di un leader politico.
Corriere 3.1.19
CinaIl leader vuole un Paese unico. Taipei: noi una democrazia
Xi avverte Taiwan:
pronti a usare la forza
di Guido Santevecchi
Torna la tensione tra Cina e Taiwan. «Siamo un unico Paese, pronti a usare la forza»: minaccia da Pechino il presidente Xi Jinping. Replica Taipei: «Rispettate la nostra democrazia». La Cina punta alla riunificazione dopo 70 anni.
La riunificazione tra Taiwan e la Cina «è inevitabile, è una grande tendenza della Storia». Così ha detto Xi Jinping nel suo primo discorso incentrato su quelle che Pechino definisce «le relazioni attraverso lo Stretto», il braccio di mare largo 160 chilometri che separa il continente cinese dall’isola democratica e «ribelle». Taiwan è «parte della politica interna della Cina», quindi ogni «interferenza straniera è intollerabile», ha spiegato il segretario del Partito comunista cinese, nonché presidente della Repubblica popolare e capo della Commissione militare centrale.
E come comandante in capo dell’Esercito popolare di liberazione Xi ha fatto un accenno ambiguo all’uso della potenza militare per risolvere la questione. Il suo discorso, pronunciato ieri nella Grande sala del popolo di Pechino, celebrava il quarantennale del «Messaggio ai compatrioti di Taiwan»: nel 1979 la Cina di Deng Xiaoping annunciò la sospensione dei bombardamenti sugli avamposti nazionalisti nello Stretto e avviò il dialogo. Pechino è sempre disponibile a costituire le basi per una riunificazione pacifica, ha detto Xi, ha proposto di avviare una «consultazione democratica», e questa è sembrata un’apertura. Ma non ha lasciato dubbi sulla determinazione a raggiungere comunque l’obiettivo senza «lasciare spazio per alcuna forma di attività indipendentista e separatista di Taiwan». E qui è arrivato il passaggio più duro del nuovo messaggio: «Non facciamo alcuna promessa di rinunciare all’impiego della forza, manteniamo l’opzione di ricorrere a ogni misura necessaria», di fronte a un intervento esterno o a strappi indipendentisti. Un’ondata di applausi ha salutato questo doppio monito di Xi: agli Usa, che nell’era di Donald Trump hanno lanciato segnali di sostegno politico-militare all’isola e alla presidente taiwanese Tsai Ing-wen, che viene dal partito separatista e nel suo discorso di Capodanno ha ribadito la determinazione a mantenere vivo l’auto-governo.
«Chiedo alla Cina di rispettare la libertà e la democrazia di un popolo di 23 milioni di anime e di guardare alla realtà della Repubblica di Cina che esiste a Taiwan», ha detto la signora Tsai usando il nome formale dell’isola.
Xi risponde che «i cinesi non attaccano i cinesi» (a meno che non siano cinesi separatisti) e lancia la sua offerta: «La proprietà privata, le fedi religiose e i legittimi diritti dei compatrioti taiwanesi saranno preservati» dopo il rientro nella Madrepatria secondo la formula «Una Cina Due Sistemi», come per Hong Kong. Ma ha aggiunto che sistemi politici differenti «non possono servire da scusa per ambizioni separatiste». La sua visione non contempla un rifiuto, non c’è un Piano B diverso dalla riunificazione inevitabile. In questa durezza si può leggere il nervosismo e la preoccupazione del Partito comunista di fronte al successo consolidato della democrazia a Taiwan.
Xi conclude che la risoluzione della questione non può essere più lasciata alle generazioni future, come è stato fatto per settant’anni dal dicembre 1949, quando il nazionalista Chiang Kai-shek, sconfitto nella guerra civile dalle forze rivoluzionarie di Mao Zedong, si arroccò nell’isola. Da allora Taiwan si è autogovernata, evolvendosi da dittatura sotto legge marziale in democrazia matura, oltre che potenza economica. Ma l’isola è sempre più sola: oggi solo 17 nazioni la riconoscono come «Repubblica di Cina», gli altri hanno chiuso le ambasciate a Taipei mantenendo uffici di collegamento commerciale e culturale (una forma ambigua adottata per primi dagli Usa nel 1979); l’unico Stato di peso ad avere relazioni piene è il Vaticano, impegnato però in un lungo riavvicinamento con Pechino.
Quando dice che la questione taiwanese non può essere passata senza soluzione alla prossima generazione di leader, Xi rivela il suo obiettivo: vuole essere lui il grande riunificatore. Ha ancora diversi anni per compiere la missione, perché ha fatto cambiare la Costituzione per essere presidente senza limiti di tempo.
il manifesto 3.1.19
Xi: Taiwan come Hong Kong. Con le buone o con le cattive
Cina. Xi è stato molto preciso al riguardo, perché ha anche detto che la Cina «non abbandonerà l’uso della forza per l’unificazione», ma ha sottolineato - come hanno riportato i media asiatici - «che i militari dovrebbero prendere di mira solo gli elementi esterni e coloro che cercano l’indipendenza per Taiwan»
di Simone Pieranni
Il presidente cinese Xi Jinping – in occasione di un evento organizzato a Pechino per celebrare il 40mo anniversario della tregua nelle relazioni Pechino-Taipei – si è espresso in modo decisamente duro sulla questione di Taiwan, isola «ribelle» per Pechino e autonoma per i politici locali, le cui aspirazioni indipendentiste sono sempre state tenute, tutto sommato, sotto traccia per non incorrere nell’ira della Cina continentale ogni anno più forte.
E proprio questa crescita, non solo economica, ma geopolitica della Cina, ha portato il presidente Xi a riassumere in modo molto chiaro l’intera vicenda. Il problema di Taiwan, ha detto il numero uno cinese, esiste per un motivo ben preciso: perché quando i nazionalisti si rifugiarono a Taiwan la Cina era troppo debole per chiudere la partita (vale a dire invadere e segnare Taiwan come regione cinese e fine). Oggi però, il sottotesto di Xi è piuttosto chiaro, la Cina non è più debole, anzi.
E non solo, perché se Xi Jinping ha tracciato una sorta di bussola politica, specificando che il «modello» relazionale tra mainland e Taiwan dovrebbe essere lo stesso che regola i rapporti tra Pechino e Hong Kong, il presidente cinese ha pure specificato che la questione di Taiwan, in un modo o nell’altro andrà risolta.
Xi è stato molto preciso al riguardo, perché ha anche detto che la Cina «non abbandonerà l’uso della forza per l’unificazione», ma ha sottolineato – come hanno riportato i media asiatici – «che i militari dovrebbero prendere di mira solo gli elementi esterni e coloro che cercano l’indipendenza per Taiwan».
Ma in tutto questo, «i cinesi non combatteranno i cinesi», ha spiegato Xi, mettendo nel cassetto della storia la volontà taiwanese a non considerarsi «cinesi», quanto meno in riferimento alla Cina comunista.
La Stampa 3.1.18
Xi Jinping, promesse e minacce a Taiwan
“Potremmo usare la forza per unire la Cina”
Il presidente: la riunificazione è inevitabile, garantiremo libertà e proprietà privata. Taipei: non cederemo mai
di Francesco Radicioni
La riunificazione della Cina con Taiwan è «inevitabile». Parlando nella Grande Sala del Popolo, il presidente cinese Xi Jinping è tornato lanciare un monito a Formosa dicendo che ogni movimento per l’indipendenza potrebbe portare «al disastro», ma anche che «la riunificazione è la tendenza della storia e la strada giusta».
Pur senza fissare una data, il leader della Repubblica Popolare ha ribadito che la riunificazione con Taiwan è un passo cruciale per il grande rinascimento della Cina. «Che i due lati dello stretto di Formosa non siano pienamente uniti è una ferita per la nazione cinese», ha chiosato il leader della Repubblica Popolare. Sottolineando che «i cinesi non combattono i cinesi», Xi ha poi aggiunto che «non promettiamo di rinunciare all’uso della forza e ci riserviamo di usare tutti i mezzi necessari» contro l’interferenza «di forze esterne e di un piccolo numero di separatisti».
Nel discorso che celebrava il 40° anniversario dal «messaggio ai compatrioti di Taiwan» che portò a un primo disgelo nelle relazioni nello stretto, Xi Jinping ha detto che la riunificazione potrà essere governata dal modello «un paese, due sistemi» simile a quello che dal 1997 regola i rapporti tra Pechino e Hong Kong. A Taiwan - una delle più vibranti democrazie dell’Asia - il leader cinese ha promesso che Pechino rispetterà le proprietà private dei taiwanesi, le loro convinzioni, la libertà religiosa e gli altri «legittimi interessi».
Mentre gli attivisti democratici di Hong Kong denunciano la progressiva erosione dell’autonomia dell’ex-colonia britannica, i sondaggi indicano che meno del 16% dei taiwanesi vuole la riunificazione con la Cina. I rapporti tra le due sponde dello stretto sono regolati da un vero contorsionismo linguistico: sia Pechino che Taipei riconoscono di essere parte «un’unica Cina» - anche se le due parti intendono cose diverse - e Formosa non ha mai formalmente dichiarato l’indipendenza. «Devo ribadire che Taiwan non accetterà mai la formula un paese, due sistemi», ha replicato la presidente di Formosa, Tsai Ing-wen.
Secondo alcuni analisti, in un momento in cui rimane alta la tensione con Washington e molte sono le sfide interne per la Repubblica Popolare, il discorso di Xi Jinping puntava soprattutto a soffiare sul nazionalismo. Sempre più forte è la dipendenza economica che lega Taiwan alla Repubblica Popolare. Negli anni dei governi del Kuomintang, le relazioni tra Pechino e Taipei sono diventate più strette, fino ad arrivare allo storico incontro del 2015 a Singapore tra Xi Jinping e l’ex-presidente taiwanese Ma Ying-jeou.
Pechino non invece ha ma voluto sedersi al tavolo con l’amministrazione del Partito Democratico Progressista, perché Tsai Ing-wen non ha riconosciuto il «principio di un’unica Cina». Mentre tra dodici mesi Taiwan andrà a nuove elezioni presidenziali, il discorso di Xi Jinping arriva solo poche settimane dopo una pesante sconfitta alle urne per l’amministrazione di Tsai: con il Pdp che ha perso 7 delle 13 città che amministrava, compresa la roccaforte «verde» di Kaohsiung. Negli ultimi anni, spinti dal corteggiamento economico di Pechino, uno dopo l’altro gli storici alleati di Taiwan hanno troncato le relazioni diplomatiche con Formosa, per passare a riconoscere il governo della Repubblica Popolare.
A Pechino alimentano nervosismo gli stretti rapporti in materia di sicurezza che continuano a legare Taipei e Washington, mentre diversi esponenti dell’amministrazione Trump hanno più volte espresso la volontà di rafforzare le relazioni con l’isola. La scorsa primavera Donald Trump ha scatenato l’ira della Cina dopo la firma del Taiwan Travel Act che incoraggia gli scambi di visite di esponenti di governo tra Washington e Taipei, mentre solo qualche settimana più tardi gli Stati Uniti hanno inaugurato un’imponente nuova rappresentanza nella capitale taiwanese costata 250 milioni di dollari.
Corriere 3.1.19
La Storia
La fuga del generale Chiang Kai-shek da Mao e i rapporti commerciali costruiti negli anni
di G. Sant.
Dicembre 1949, il generalissimo Chiang Kai-shek, sconfitto dall’esercito di Mao Zedong nella guerra civile si rifugia nell’isola di Taiwan con i resti delle sue forze nazionaliste. Per il Partito comunista che governa Pechino comincia la «Questione taiwanese»: si tratta di ricondurre la provincia sotto il controllo della Madrepatria. Per Pechino si tratta di «tong yi», riunificazione. A Taipei non sono d’accordo nemmeno sul significato di «tong yi»: per loro, questa ipotesi infausta, sarebbe «unificazione», perché in realtà il governo comunista non ha mai guidato l’isola, che dal 1895 e fino al 1945 era stata sotto il controllo degli invasori giapponesi. Per anni, dopo il 1949, l’artiglieria cinese ha battuto gli avamposti dei nazionalisti taiwanesi con il suo fuoco. Taipei è rimasta irraggiungibile, anche grazie all’ombrello politico-militare aperto dagli Stati Uniti. Con il grande disgelo concordato tra Nixon e Mao, Washington accettò il principio «Una Cina» che nega l’indipendenza a Taiwan. Con il «Messaggio ai compatrioti taiwanesi» del 1979 Pechino rinunciò allo scontro militare proponendo di aprire le comunicazioni tra le due parti. Negli ultimi 40 anni le relazioni sono migliorate, il 30 per cento dell’export di Taiwan oggi va in Cina. Il governo democratico di Taipei si aggrappa allo status quo. Ma la «Questione taiwanese» per Pechino è ancora aperta.
il manifesto 3.1.19
Il giorno in cui il mondo imparò a dire «Ya basta»
Le celebrazioni per il 25esimo anniversario dell’Ezln in Chiapas
Messico. Il primo gennaio la rivoluzione politica e sociale degli zapatisti ha compiuto 25 anni. Così il Chiapas ha rivendicato spazio per gli indigeni. E ora lo fa contro Amlo
di Claudia Fanti
Venticinque anni sono passati da quel primo gennaio del 1994 in cui le comunità indigene del Chiapas, organizzate nell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, fecero la loro irruzione nel panorama messicano e mondiale, esprimendo il loro «Ya basta!» e dando avvio alla loro avventura ribelle di giustizia e libertà.
Quella rivolta indigena contro l’espressione allora più «moderna» dell’offensiva neoliberista, il Nafta (il Trattato di Libero Commercio del Nordamerica), era – come ricorda su La Jornada lo scrittore e poeta messicano Hermann Bellinghausen – «la prima mobilitazione contro la dittatura dei mercati» e avrebbe «fecondato le imminenti resistenze globali contro il monopolio del potere economico mondializzato». Ed era «il primo movimento sociale ad avere a disposizione le armi della rete e delle sue reti, e ad approfittarne ampiamente».
Anche i suoi contenuti apparivano inediti, caratterizzati dalla sostituzione del tradizionale obiettivo di ogni movimento rivoluzionario, la presa del potere, con quello della presa di uno spazio – uno spazio di vita degna, di riconoscimento, di autonomia -, negato da sempre ai popoli indigeni.
Con la conseguente affermazione di modi diversi di fare politica, estranei all’occupazione delle istituzioni dello Stato e centrati, al contrario, sulla creazione dal basso di processi decisionali collettivi secondo il principio del «comandare obbedendo». Guidato dal suo calendario politico e da una concezione dell’autonomia come orizzonte strategico e pratica quotidiana, l’esercito zapatista è riuscito a creare e a consolidare, lontano dai riflettori, le sue originali forme di autogoverno, esercitando la giustizia, attivando sistemi di salute e di educazione ai margini del governo statale e federale, organizzando la produzione e tessendo reti di solidarietà in tutto il mondo.
A partire da quel primo gennaio 1994, tra annunci interessati di morte dell’esperienza rivoluzionaria e successive, puntuali, «resurrezioni», l’Ezln non ha mai abbandonato la scena nazionale, dalla prima Dichiarazione della Selva Lacandona fino alla presentazione di Marichuy, in qualità di portavoce del Consiglio indigeno di governo, come candidata indipendente alle presidenziali 2018.
Non certo per competere con i politici professionisti, ma per portare, come avrebbero chiarito i subcomandanti Moisés e Galeano, «un messaggio di lotta e organizzazione alla gente povera dei campi e delle città del Messico e del mondo».
Molto ci sarebbe stato da festeggiare alla commemorazione di questo 25esimo anniversario, svoltasi nel municipio autonomo de San Pedro Michoacán, dove sono accorsi zapatisti da tutti e cinque i caracoles del movimento (le strutture organizzative create nel 2003 e rette dalle Giunte di buon governo).
Eppure il discorso del subcomandante Moisés è stato tutt’altro che trionfalista: «Siamo soli – ha detto – come 25 anni fa. Eravamo soli quando ci siamo sollevati per risvegliare il popolo messicano e lo siamo oggi. Ma siamo riusciti comunque a portare la nostra voce ai poveri del Messico, dei campi e delle città». Ma, soprattutto, Moisés ha ribadito, al di sopra di ogni dubbio, la posizione zapatista nei confronti del governo di Andrés Manuel López Obrador, rispetto al quale l’Ezln aveva già pronunciato parole di fuoco: «Potranno cambiare i capataz, i servitori e i capisquadra, ma il proprietario continuerà a essere lo stesso».
L’1 gennaio Moisés è andato oltre, accusando il presidente di mentire e ingannare le comunità indigene, manipolando i messicani con le sue false consulte e chiedendo «il permesso alla terra per costruire il suo Tren Maya», quando in realtà «ciò che vuole è il permesso di distruggere, con le sue grandi opere, i popoli originari».
E lo fa, per di più, chiamando «Maya» quel progetto di linea ferroviaria, come se potesse avere a che fare con i maya un’opera destinata a collegare le principali aree turistiche della Penisola dello Yucatán a tutto vantaggio del capitale finanziario, del settore immobiliare e di quello turistico e in perfetta continuità con la strategia neoliberista di controllo territoriale dei governi precedenti.
La Stampa 3.1.18
India, due donne “violano” il tempio proibito
Si scatena la violenza degli estremisti indù
5,5 milioni. Sono state le donne che in 14 province indiane si sono tenute per mano, per difendere i diritti di tutte e protestare contro la discriminazione operata da tanti fedeli che impediscono l’accesso ai templi
di Carlo Pizzati
A mezzanotte del 1° gennaio, Bindu Ammini e Kanaka Durga si sono incamminate verso il tempio proibito di Sabarimala, nel cuore induista del Kerala. Erano a digiuno da un mese, come prescrive il rito del Signore Ayappa, figlio di Shiva. Si sono inerpicate per tre ore e mezza lungo la collina sacra. Attorno a loro, camuffati da pellegrini, una ventina di poliziotti. Questa volta non sono entrate dalla via principale. Quando ci hanno provato, nel precedente tentativo il 24 dicembre, una folla di migliaia di persone ha fatto piovere pietre e caricato gli agenti di sicurezza. Questa volta sono entrate dalla cancello degli inservienti.
«Non ci siamo travestite da uomo. Avevamo abiti comodi e il viso coperto, come richiesto dalla polizia. Siamo entrate. Alcuni devoti ci hanno riconosciute, ma non hanno reagito. Il che dimostra che non sono tutti fanatici. Abbiamo pregato e siamo uscite. Non abbiamo fatto nulla di illegale. E adesso che questo cancello è stato aperto, credo che altre donne ci imiteranno».
Sembrerà una sciocchezza, per chi non conosce la profonda spiritualità indiana e quanto sia intrecciata con la politica e le passioni del popolo, ma il fatto che due donne siano riuscite, in ottemperanza alla decisione della Corte Suprema indiana di tre mesi fa, ad entrare in un tempio il cui accesso da molti secoli è severamente proibito alle donne è un evento di importanza storica per le battaglie dell’eguaglianza di genere in India.
Erano mesi che diverse donne, in gruppo, scortate, da sole, nascoste o a viso aperto, tentavano di far rispettare la decisione della Corte, ma venivano sempre bloccate dai manifestanti. Fino a ieri.
I fedeli del dio Ayappa sono convinti che le donne in età mestruale, tra i 15 e i 50 anni, non possano entrare nel tempio del «dio scapolo» perché ne annullerebbero la sacralità. Difatti, i sacerdoti di Sabarimala, appena scoperta la violazione, hanno iniziato riti purificatori durati ore. Solo a mezzogiorno di ieri, le porte si sono riaperte. Ma nel frattempo, lo Stato del Kerala era già nel caos.
Folle fuori controllo hanno attaccato il palazzo del governatore dello stato nella capitale Thiruvananthapuram (o Trivandrum), caricando anche in altre città dello stato con forte presenza cattolica e di ininterrotta partecipazione comunista nel governo dal 1957. Gas lacrimogeni, granate stordenti e idranti anti-sommossa sono stati usati per disperdere i manifestanti. Sono state attaccate dalle sassaiole anche le abitazioni di Bindu e Kanaka Durga, ora sotto la protezione della polizia in una località segreta. Dichiarato per oggi dalle associazioni estremiste indù lo sciopero generale in tutto lo stato.
Un buon inizio d’anno
Il presidente statale del Bjp, partito religioso al potere in India, ha minacciato battaglia: «È un complotto dei governanti atei del Kerala per distruggere i nostri templi. Lotteremo contro la distruzione della fede per mano dei comunisti». Invece, per la militante dei diritti delle donne, Trupti Desai si tratta di una svolta: «È una vittoria per l’eguaglianza. Un buon inizio dell’anno per le donne».
L’evento storico è stato reso possibile da un avvenimento accaduto il giorno prima: una catena umana di 5 milioni e mezzo di donne che si è snodata lungo 620 chilometri per 14 provincie in protesta contro la discriminazione.
La fronda estremista
Alle 16 del 1° dell’anno scrittrici, atlete, attrici, medici, insegnati, avvocati, pensionate, ingegneri, funzionarie governative, casalinghe, transgender e donne con l’hijab si sono allineate lungo strade e autostrade. «Il muro umano della resistenza» l’hanno chiamato: la catena di sole donne più lunga al mondo e nella storia. Naturalmente i militanti del Bjp e della fronda estremista indù degli Rss hanno preso a sassate donne e poliziotti. Ma la catena ha retto.
Minoranze di genere
La conclusione a questi due giorni così importanti per il femminismo indiano, dopo la nascita del Partito nazionale delle Donne il mese scorso, la descrive bene un editoriale del quotidiano Times of India: «Meglio che i politici e le organizzazioni conservatrici capiscano che la società indiana è cambiata e che le minoranze di genere non possono restare ostaggio delle tradizioni». Bindu e Kanaka, e il più lungo muro umano di donne, stanno cambiando la storia.
Corriere 3.1.19
Nel Kerala
Le donne entrano nel tempio proibito Sfida all’induismo estremo del premier
Scontri e violenze in tutto il Kerala, India meridionale, ieri, dopo che due cittadine sono state ammesse in uno dei più sacri templi indù, quello di Sabarimala, da secoli proibito alle donne in età fertile. Lo scorso settembre la Corte Suprema aveva abolito il divieto religioso. Le proteste sono scoppiate all’indomani della catena umana di 500 chilometri formata da migliaia di donne contro il sessismo del partito nazionalista indù Bjp del premier Narendra Modi. Bindu Ammini, 42anni, e Kanaka Durga, 44, sono entrate nel tempio scortate dalla polizia, in mezzo a una folla ostile. Quando sono uscite, i custodi lo hanno chiuso per un’ora per «purificarlo».
il manifesto 3.1.19
La macchina da presa «imita» l’inafferrabile vitalità del pennello
Al cinema. «Van Gogh - Sulla soglia dell'eternità», il film di Julian Schnabel sugli ultimi quattro anni di vita dell'artista
di Giona A. Nazzaro
Sulle problematiche relative ai rapporti fra pittura e cinema sono stati scritti numerosi saggi e volumi. Il cinema, ovviamente, si è posto questo problema innumerevoli volte (ed è inutile stare a elencare titoli e opere tanto è vasto l’elenco…).
JULIAN SCHNABEL, pittore e regista, nell’affrontare Van Gogh, uno degli artisti più documentati e raccontati, adotta una soluzione a dir poco sconcertante per dare conto dell’indicibilità del magistero del pittore. Concentrandosi sugli ultimi quattro anni di vita dell’artista, Schnabel si inventa un maldestro action-filming che dovrebbe imitare l’inafferrabile vitalità del pennello mentre si muove sulla tela dando vita a una pittura che Gauguin considerava prossima alla scultura. Affidando il ruolo del protagonista a Willem Dafoe, che per la prima volta nella sua carriera cede alla tentazione di volere dimostrare a tutti i costi di essere un «grande attore», il film si autocortocircuita in un mimetismo impacciato dal quale manca qualsiasi accenno di vitalità e inventiva. Se Dafoe porta sullo schermo la sua interpretazione più scolastica, premiata a Venezia, mettendo da parte tutto quanto lo ha reso uno degli attori più imprendibili di Hollywood, Schnabel è come se rinunciasse al compito stesso della messinscena.
LA MACCHINA da presa vaga senza senso; traccia traiettorie che in confronto quelle del Lars Von Trier dogmatico paiono sobrie e misurate e gioca di banali cromatismi nel tentativo di riportare i colori di Van Gogh sullo schermo. Il sospetto, in fondo, è che questo progetto sia stato pensato male e realizzato peggio. Come se qualcuno avesse sottovalutato la complessità dell’operazione. E non bastasse evocare il magistero di Minnelli e Pialat, o ricordare il magnifico sogno kurosawiano con Scorsese nei panni di Van Gogh, sarebbe bastato magari dare uno sguardo, anche distratto, al documentario Alla ricerca di Van Gogh, dove ci si ritrova davanti all’ineffabile scandalo della copia che imita il magistero dell’originale.
Senza scomodare Benjamin, Schnabel non comprende che evocare l’irripetibilità dell’arte e del gesto, in un paesaggio dominato dalle copie nel quale pure l’originale è indistinguibile dalla sua riproduzione, creando a sua volta il feticcio di un’originalità indicibile (lo svolazzare della sua macchina da presa), è in fondo un’operazione banale, sciocca e profondamente reazionaria. Ecco, il Van Gogh di Schnabel è una mera (im)postura che si offre con le stigmate del film d’arte ma in realtà quella che si spaccia è una crosta che qualsiasi copista avrebbe realizzato con più amore e rispetto.
Corriere 3.1.19
Oggi in edicola la biografia del grande condottiero corso scritta da Luigi Mascilli Migliorini
L’antico spettro del bonapartismo
Genio militare e uomo d’azione, creò un regime autoritario di tipo nuovo
La sua legittimità si fondava sull’investitura plebiscitaria della nazione
Perché Napoleone rimane attuale
Nel 1799 L’avvento al potere del generale portò alla caduta del sistema parlamentare
La lezione Per quanto un capo sia dotato, non bisogna mai affidargli del tutto il destino di un Paese
di Vittorio Criscuolo
Nei Mémoires d’outre-tombe (1848) Chateaubriand prendeva atto amaramente del trionfo della leggenda napoleonica: «Il mondo appartiene a Bonaparte; (…) da vivo ha mancato il mondo, da morto lo possiede. (…) Dopo aver subito il dispotismo della sua persona, ci tocca subire il dispotismo della sua memoria». Al di là dello straordinario fascino del mito, che faceva scrivere a Victor Hugo: «Tu domini la nostra età, angelo o demonio che importa?», colpisce la capacità dell’esperienza napoleonica di riproporsi puntualmente, al succedersi delle generazioni, come una fonte di riflessioni e di suggestioni vive e attuali. Lo conferma, nella prefazione del suo bel libro in edicola oggi con il «Corriere», Luigi Mascilli Migliorini, allorché osserva che le domande che ispirano la sua ricerca, pur essendo in fondo le stesse che quell’età e il suo protagonista già fecero a se stessi, risultano nuove proprio perché corrispondono ai problemi, alle aspirazioni, alla sensibilità del tempo presente. Ci si può chiedere allora perché continuare oggi a interrogare quel mondo lontano: quali spunti di riflessione, se non proprio quali risposte, esso può proporci rispetto alla realtà in cui viviamo?
In un momento storico caratterizzato da una profonda crisi della democrazia rappresentativa, la considerazione della politica napoleonica, grazie alla lucida analisi di Mascilli Migliorini, può rappresentare un utile punto di riferimento per un dibattito politico nel quale non manca qualche richiamo, per lo più improprio e approssimativo, al bonapartismo, ma che appare appiattito su un uso indiscriminato e confuso del concetto di populismo. Naturalmente non si devono cercare nel regime napoleonico una organicità e una coerenza che non poteva avere: nato dalla rivoluzione e dalle vittorie militari, esso fu condannato ad inseguire una normalità che la sua stessa natura gli precludeva. Napoleone, uomo d’azione, fondava le proprie scelte sulla lezione dei fatti e solo successivamente amava evocare precedenti storici (Cesare, Carlo Magno) o aspetti del pensiero politico che potessero giustificarle o legittimarle. La categoria del cesarismo-bonapartismo fu il frutto di un’elaborazione a posteriori, che sistemò in un modello teorico le principali linee della sua politica.
Tema centrale del bonapartismo è il superamento della democrazia rappresentativa, la principale conquista politica della rivoluzione, e la sua sostituzione con una investitura dal basso attraverso il plebiscito. Quest’ultimo assume la tipica forma del pronunciamento popolare su un uomo che si pone di fatto come incarnazione degli interessi e delle aspirazioni della nazione. Il regime bonapartista si distingue perciò dagli altri regimi autoritari perché fonda la propria legittimità sul trasferimento di sovranità realizzato attraverso il plebiscito. Di qui l’intrinseca ambiguità del modello, che coniuga una matrice democratica, per altro sterilizzata e di fatto vanificata, e un potere che regola dall’alto la realtà sociale; questo giustifica le oscillazioni di un regime destinato a cercare un difficile equilibrio fra due istanze antinomiche e spiega anche le diverse configurazioni delle esperienze storiche che a quell’esempio si sono in vario modo, più o meno consapevolmente, richiamate o ricollegate. Corollari essenziali del modello sono ovviamente il fastidio per le lentezze e gli impacci delle discussioni parlamentari e la sostituzione dell’elezione popolare con la cooptazione.
In generale lo storico deve proporre con molta prudenza accostamenti fra età diverse, che riescono più suggestivi che utili sul piano della comprensione. Tuttavia appare evidente l’assonanza fra molti aspetti del dibattito politico contemporaneo e alcuni motivi centrali del bonapartismo, un tema sul quale utili riflessioni ha svolto, fra gli altri, Alessandro Campi nel libro L’ombra lunga di Napoleone. Da Mussolini a Berlusconi (Marsilio, 2007).
Basterà citare la tendenza a concepire l’elezione come una delega di sovranità che deve prevalere su ogni altra istituzione o corpo intermedio (magistratura o organi di garanzia), l’idea di un’assoluta preminenza del potere esecutivo in quanto legittimato dalla volontà popolare, la sistematica manipolazione dell’opinione pubblica, l’instaurazione di un rapporto diretto fra il leader e le masse. Di fronte a questi orientamenti, che riconducono al clima cupo dell’Europa fra le due guerre mondiali, vale la pena di ricordare le parole con le quali Adolphe Thiers, che pure aveva ammirato Napoleone come uomo «grande e fatale», volle chiudere la sua Histoire du Consulat et de l’Empire (1845-1862): «Come cittadini traiamo dalla sua vita un’ultima e memorabile lezione, ed è che, per quanto grande, sensato, vasto sia il genio di un uomo, non si deve mai affidargli completamente il destino di un Paese».
Lo storico francese esprimeva così una trasparente presa di distanza dal Secondo Impero di Napoleone III, ma lanciava al contempo un monito del quale è difficile non cogliere, ancora oggi, la stringente attualità.
Il Fatto 3.1.19
Statua di Lisippo trafugata, Cassazione contro Getty Museum
di A. Giamb.
Dopo l’appello del direttore degli Uffizi Eike Schmidt alla Germania per la restituzione del dipinto trafugato dai nazisti nel 1944, è ora la Cassazione a contestare l’“inspiegabile e ingiustificabile leggerezza” del J.P. Getty Museum di Malibù (California) nell’acquisto di una statua attribuita allo scultore greco Lisippo esportata illecitamente dall’Italia negli Anni Settanta. Lo si legge nella sentenza depositata ieri dalla Suprema corte che all’inizio di dicembre aveva confermato la confisca del tribunale di Pesaro a giugno.
Per i giudici il museo aveva la “sicura consapevolezza della pregressa esistenza di un articolato contenzioso penale” e doveva conoscere “la normativa italiana in tema di esportabilità e commerciabilità dei beni culturali”. Il Getty ha sempre affermato che l’opera è stata trovata in acque internazionali da pescatori italiani e ciò non dimostra la sua origine italiana. La procura di Pesaro, tramite il ministero della Giustizia, dovrà chiedere la collaborazione delle autorità statunitensi per confiscare la statua, ma il J.P Getty di Malibù non desisterà facilmente.
La Stampa 3.1.18
Il modello New York Times
Servizi subito online, l’edizione di carta come una playlist degli articoli migliori
di Christian Rocca
L’articolo del New York Times sul degrado di Roma che tanto ha fatto discutere in Italia, con annesse e inevitabili polemiche politiche, è uscito sulle piattaforme digitali del quotidiano newyorchese lunedì 24 dicembre. Sul giornale di carta è comparso la domenica successiva, il 30 dicembre, sei giorni dopo. Un interessante editoriale sulla necessità di procedere all’impeachment nei confronti del presidente Trump, scritto da una veterana dell’inchiesta che ha portato alle dimissioni di Richard Nixon, è stato twittato mercoledì 26 dicembre, ma i lettori del quotidiano cartaceo per leggerlo hanno dovuto aspettare sabato 29, quando presumibilmente l’articolo era stato già letto da oltre un milione di persone.
Questi sono soltanto due esempi, ma se ne potrebbero fare decine, della totale abolizione del confine tra carta e digitale in vigore nel più importante quotidiano del mondo che, qualche settimana fa, ha presentato i dati di diffusione del terzo trimestre del 2018: quattro milioni di abbonati a prezzo pieno (minimo 15 dollari al mese), di cui tre milioni all’edizione digitale e un milione al giornale di carta.
Credibilità del brand
Nei primi nove mesi del 2018, il New York Times ha fatto ricavi per oltre un miliardo e duecento milioni di dollari, di cui quasi 800 milioni dagli abbonamenti e il resto prevalentemente dalla pubblicità: «Stiamo realizzando la nostra strategia subscription first», ha commentato Mark Thompson, presidente e amministratore delegato del gruppo. «Nel terzo trimestre del 2018, i ricavi da abbonamenti sono quasi i due terzi dei ricavi totali».
In un panorama di crisi profonda dell’industria editoriale globale, i dati in crescita del Times sono in controtendenza grazie agli investimenti sulla qualità dell’informazione, alla credibilità riconosciuta del brand, alla raffinata strategia sugli abbonamenti e, certamente, anche a causa dell’economia di scala garantita dalla lingua inglese, della contingenza Trump e, riguardo il milione di abbonamenti cartacei, anche di un servizio di distribuzione postale porta a porta che funziona.
Ma è l’aspetto editoriale quello più interessante: il New York Times ha fatto saltare l’obsoleta tutela della «print edition», superando però anche l’approccio «digital first» che implicava che l’edizione di carta fosse soltanto un succedaneo, quando invece è semplicemente un altro mezzo di informazione, e dimostrando come una media company contemporanea possa essere capace di sfruttare le piattaforme analogiche e digitali ciascuna per le sue caratteristiche, senza mischiarle, sapendo che si rivolgono a lettori, consumi e abitudini diversi.
La prima cosa notevole del modello New York Times è di non somigliare a quello fondato sulla prevalenza della carta e su un digitale che da una parte replica l’esperienza dello sfoglio del giornale, con le app per tablet, e dall’altra tende a fare due cose: dare gratuitamente le breaking news per aumentare le visite sul sito a fini pubblicitari e fornire a pagamento alcuni articoli del quotidiano cartaceo per aumentare i ricavi digitali.
Parola d'ordine: presto
Al Times, queste barriere non ci sono più: c’è un’unica digital edition del giornale, ottimizzata per i vari device e indistinguibile tra app e sito web, e poi c’è il quotidiano di carta che è un prodotto complementare diverso rispetto all’edizione digitale. Cercando bene, sul web si trova anche uno sfogliatore, chiamato Replica, come nell’offerta italiana, ma è un servizio aggiuntivo, dal sapore vintage, accessibile solo dal desktop e non dagli smartphone (perché un prodotto progettato graficamente per essere letto su un grande foglio di carta non può funzionare altrettanto bene sullo schermo piccolo di un telefono).
Nel grattacielo progettato da Renzo Piano, sull’Ottava Avenue di Manhattan, i capi redattori delle singole sezioni del quotidiano, ciascuna delle quali ha la dignità di un dorso separato nell’edizione cartacea, sono responsabili dei contenuti e della distribuzione e decidono se e quando pubblicarli sul sito e sulla carta.
La parola d’ordine in redazione è «early», gli articoli vanno messi online «presto», in particolare la mattina presto, perché le statistiche confermano che si legge prevalentemente al mattino quando ci si alza dal letto e si prende in mano il telefono (recenti studi dimostrano che le notifiche degli articoli sugli smartphone sono una fonte crescente di traffico online per i giornali). Fino a pochi anni fa le notizie si leggevano prevalentemente sul desktop, in ufficio, durante le ore di lavoro, ora invece in redazione c’è paura del «pomeriggio», considerato sinonimo di basso traffico. «Early» per i giornalisti del Times vuol dire anche nei «primi giorni della settimana» (pare che, per ragioni ignote, il mercoledì sia il giorno di maggiore lettura online), anche se gli articoli sono destinati alla corposa edizione cartacea della domenica, ricca di inserti, magazine e sezioni speciali.
In un rapporto interno sul futuro del giornale, The Report of 2020 Group
, si legge che il business del giornale è quello degli abbonamenti, non quello di massimizzare il numero di pagine viste, tanto che alcuni articoli letti meno assiduamente di altri che diventano virali possono risultare più importanti perché fanno capire all’abbonato che sul Times può leggere reportage, approfondimenti e analisi che non si trovano altrove. Tanto che al giornale usano metriche più sofisticate rispetto a quelle del numero di pagine viste, come per esempio capire se un articolo attrae nuovi abbonati o mantiene gli attuali, per valutare l’efficacia di un articolo.
I contenuti speciali
Al Times opera anche un Beta Group che, nonostante il nome minaccioso, fa collaborare marketing, designer, sviluppatori e giornalisti per lanciare nuove iniziative digitali, app o verticali, tipo Well sul benessere, Real Estate sul mercato immobiliare, Watching su film e serie tv, Wire Cutter che stila classifiche dei migliori prodotti in circolazione, oltre ai tradizionali Crossword per i leggendari cruciverba e Cooking sul cibo (se si vuole vedere il futuro del Times, dicono al giornale, bisogna guardare che succede nel food, il settore giornalistico di maggiore innovazione e sperimentazione digitale).
Il modello del New York Times è Netflix o Spotify, ovvero investire nel core business, cioè nell’informazione di qualità, ma aumentando continuamente l’offerta di servizi online, in modo che l’abbonamento al giornale venga percepito come indispensabile da chi è già un sottoscrittore e attraente da chi ancora non lo è.
La prevalenza dell’online ha trasformato l’edizione di carta in una specie di playlist molto ben curata con il meglio del lavoro prodotto dai giornalisti, confezionata con dedizione dalla redazione per offrire un’esperienza di lettura consona al prodotto fisico, a cominciare dalla rivista settimanale, il New York Times Magazine, che non ha rivali quanto a qualità e inventiva grafica e tipografica. L’idea di base, dicono al Times, è che non importa che l’articolo sia già uscito online parecchi giorni prima, perché rivederlo su carta anche a giorni di distanza è come se lo stesso articolo fosse pronto a rivivere una seconda vita, anche più stimolante della precedente perché implica una lettura più consapevole e in un formato più grande, con fotografie e apparati più accattivanti.
L’altra regola, si legge nel rapporto 2020, è quella di limitare al massimo, soprattutto sulla carta, gli articoli «incremental», ovvero quelli che aggiungono poco alle storie già pubblicate nei giorni precedenti, perché questi articoli di servizio «non superano l’asticella del giornalismo che vale la pena di pagare e perché versioni simili si trovano gratuitamente altrove».
Il Times di carta, infine, spesso è arricchito di contenuti speciali come, per citare gli allegati più recenti, l’inserto per i bambini «Kids section», l’approfondimento sul riscaldamento globale e «In case You Missed» con i migliori articoli del 2018 e un formidabile elenco di tutte le persone insultate da Trump lo scorso anno su Twitter.
https://spogli.blogspot.com/2019/01/corriere-3.html