Corriere 2.1.19
Rinascita
Terminato lo straordinario lavoro di recupero degli affreschi danneggiati. Previste visite guidate ogni giovedì
A Pompei riapre la Schola
Dopo il crollo del 2010 da domani il pubblico rientrerà nella sede dei gladiatori
di Gian Antonio Stella
«Al
posto di questa sorta di club dove si custodivano le armi dei
gladiatori — scrisse traumatizzato Gimmo Cuomo sul «Corriere del
Mezzogiorno» — c’è ora solo un ammasso di macerie che evoca le immagini
di un sisma, di un bombardamento, dell’abbattimento con le ruspe di un
manufatto abusivo o un villino palestinese nella Striscia di Gaza».
E
così appariva davvero, dopo il collasso del novembre 2010, la Schola
Armaturarum di Pompei: il simbolo d’una sconfitta storica. La metafora,
denunciarono i giornali stranieri a cominciare dal «New York Times»,
dell’incapacità del nostro Paese di custodire con cura e amore i tesori
ricevuti dal passato. Non mancarono le citazioni di Alphonse de Sade:
«Ma in quali mani si trova, gran Dio! Perché mai il Cielo invia tali
ricchezze a gente così poco in grado di apprezzarle? Che cosa direbbero
questi maestri, questi amatori delle arti belle, se bucando lo spessore
delle lave che li hanno inghiottiti potessero tornare alla luce e vedere
i loro capolavori affidati a mani così…».
E ci fu chi, come
Jennifer Kester su «Traveller», si spinse a scrivere: «Se avete un
viaggio a Pompei nella vostra lista, fareste meglio a prenotare ora il
vostro biglietto per l’Italia». Titolo: «Andate ora a visitare Pompei
prima che crolli». Non bastasse, saltò fuori che l’edificio, nella
mappatura delle aree a rischio dell’antica città sepolta, era «gialla»:
basso rischio. «Se è per questo», sospirò Pier Vittorio Guzzo,
sovrintendente fino a pochi mesi prima, «nel ’97 era bianca. A rischio
nullo».
«Una vergogna per l’Italia», tuonò Giorgio Napolitano
chiedendo «spiegazioni immediate e senza ipocrisie». Una vergogna
scaricata, a ragione o a torto, addosso al ministro dell’epoca Sandro
Bondi, che se la prese con la cattiva sorte e forse era colpevole più
che altro d’avere scelto (o di essersi fatto imporre) come commissario
l’ex funzionario dell’Acea Marcello Fiori, reo d’aver buttato 102.963
euro, per fare un solo esempio, anche nel censimento (non la cattura: il
censimento) di 55 cani randagi. Una vergogna rimasta per anni tra i
sensi di colpa collettivi di chi ama il nostro patrimonio.
Incubo
finito: dopo la delicata rimozione delle macerie appesantite dal carico
pauroso della «copertura piana in cemento armato» voluta a fine guerra
da Amedeo Maiuri (un errore: allora si lavorava così) in seguito al
bombardamento alleato alla fine di agosto del ’43, dopo un paziente
recupero di ogni pezzetto di affresco non polverizzato e dopo un
minuzioso lavoro di ricostruzione, la «Schola» sta per essere riaperta.
Certo, gli affreschi trovati all’epoca degli scavi con cui Vittorio
Spinazzola nel 1915-16 riportò alla luce l’antica casa dei gladiatori,
una sorta di sede di rappresentanza di un’associazione militare, sono
andati in gran parte perduti. Prima sotto le bombe alleate, poi nel
crollo del novembre 2010 attribuito allo «smottamento del terrapieno a
ridosso della costruzione per effetto delle abbondanti piogge». Per non
dire dei danni ulteriori aggiunti da leggi e leggine che almeno in
questi casi avrebbero dovuto tener conto dell’errore enorme a lasciar lì
sotto la plastica per quattro anni, di perizia in perizia, quella massa
di macerie dalle quali si sarebbe probabilmente potuto recuperare molto
di più.
Detto questo, non tutto è andato perduto. Anzi: Massimo
Osanna, l’archeologo che da quattro anni guida la soprintendenza di
Pompei, sottolinea che «quasi a voler rendere giustizia dell’autenticità
della materia antica» il crollo di otto anni fa interessò «in maniera
preponderante la ricostruzione moderna di Maiuri e in misura minore le
pitture originali». Via: la Schola Armaturarum sarà aperta a partire da
domani, tutti i giovedì, alle visite guidate.
L’intervento
Il soprintendente Massimo Osanna: «Il cedimento di otto anni fa ha colpito soprattutto la copertura messa dopo il ’43»
Di
più: la riapertura avviene nella scia della scoperta di nuove domus,
nuovi mosaici come «il Mito di Orione» e nuovi affreschi come quello
subito famoso «Leda e il cigno». Ma soprattutto nella scia del
ritrovamento due anni fa, quasi accanto alla sede della soprintendenza,
di una tomba che, secondo il direttore, «probabilmente apparteneva al
personaggio più importante della colonia». Gnaeus Allieus Nigidius
Maius.
Contenevano, le rovine, «la scoperta più importante degli
ultimi decenni fatta agli scavi archeologici di Pompei». Cioè
un’iscrizione lunghissima, quattro metri su sette righe, che racconta la
vita dell’uomo «a partire da quando indossò la sua “toga virile”,
quindi raggiunse la maggiore età, e diede un grande banchetto per il
popolo pompeiano, per il quale furono allestiti 456 triclini». Per
capirci: 6.840 ospiti. Con le tavole coperte di ogni ben di Dio.
Uomo
generoso, prosegue l’iscrizione, «poiché la sua munificenza era
coincisa con una carestia», per quattro anni si fece carico di aiutare
la gente del posto e «la cura per i suoi concittadini fu superiore a
quella per il suo stesso patrimonio» e arrivò a comprare a caro prezzo
frumento rivenduto sottocosto e a distribuire «alla cittadinanza
individualmente attraverso i suoi amici una quantità di pane cotto
equivalente a tre vittoriati». Una gran somma, evidentemente...
La
parte più interessante di queste memorie di vita, però, è quella
dedicata allo splendore con cui «offrì uno spettacolo gladiatorio di
tale grandiosità e magnificenza che (...) poteva esser confrontato con
qualsiasi spettacolo di Roma poiché parteciparono 416 gladiatori». E non
fu neppure un caso isolato perché organizzò in altre «due occasioni
grandi spettacoli senza onere alcuno per la comunità».
Andavano
matti, gli abitanti di Pompei, per quei giochi anfiteatrali. La parte
più impressionante, scrive Osanna in un saggio dedicato alla tomba,
doveva esser «la venatio vera e propria, il confronto tra uomini e
animali, dove i venatores intervenivano vestiti di semplice tunica e
armati solo di lancia. Tra le fiere si annoveravano felini (tigri,
leoni, leopardi) orsi e financo elefanti…».
Certo è che i
combattimenti eccitavano la gente oltre ogni limite. Al punto che nel 59
d.C., ricorda la stessa iscrizione, scoppiò una rissa tra i tifosi di
Pompei e quelli di Nocera, passata alla storia. Scriverà Tacito che
«come avviene di solito nei piccoli centri, si cominciò con dei lazzi
alquanto pesanti, poi volarono pietre, e si finì col giungere alle armi.
La plebe di Pompei ebbe la meglio. Molti nocerini furono portati a casa
mutilati nel corpo; non pochi piangevano la morte di un figlio o di un
padre». Informato dei fatti, il Senato decise per una punizione
esemplare. E vietò a Pompei le amatissime sfide tra i gladiatori per
dieci lunghi anni. Altro che i Daspo negli stadi nostrani…