mercoledì 2 gennaio 2019

Corriere 29.12.18
La svolta siriana: Assad in aiuto dei curdi
La protezione del regime per fronteggiare i turchi: è il primo effetto del prossimo ritiro Usa
di Lorenzo Cremonesi


L’esercito siriano posiziona le proprie truppe attorno alla cittadina curda di Manbij, un centinaio di chilometri a est di Aleppo ed estremo avamposto occidentale della regione di autogoverno curdo in Siria, meglio nota come Rojawa. Da Ankara il presidente Recep Tayyp Erdogan replica che si tratta di «un’azione di pressione psicologica» da parte del regime di Bashar Assad. A suo dire «la situazione resta incerta». Nel frattempo l’esercito turco posizionato da quasi un anno all’interno del territorio siriano assieme alle sue milizie alleate sunnite locali rafforza gli avamposti. Ancora Erdogan lascia però capire che, se i regolari siriani dovessero completare il loro dispiegamento lungo tutto il confine internazionale tra i due Paesi, allora la tensione si scioglierebbe, visto che le forze militari curde diventerebbero irrilevanti e non ci sarebbe «più lavoro da fare» per le unità turche e i loro alleati.
Sono queste le conseguenze più dirette del recente annuncio di Donald Trump per il ritiro dei circa 2.000 soldati scelti americani, che dalla fine del 2014 operavano assieme alle forze curde per debellare Isis in Siria. Rispecchiano fedelmente uno dei principi fondamentali delle relazioni internazionali, per cui non può esistere un vuoto di potere: nel momento in cui un attore rilevante lascia il teatro, altri inevitabilmente prenderanno il suo posto. Principio particolarmente pregnante per quest’area contesa del Medio Oriente. Se ne vanno gli americani che sino a ieri hanno aiutato i curdi? La reazione è che i curdi cercano protezione a Damasco per fronteggiare i turchi, loro nemici storici, oggi ben più minacciosi dello stesso Isis. Del resto la mossa era scontata. Anche nei periodi di massima debolezza del regime siriano i curdi hanno evitato lo scontro frontale. I soldati di Bashar sono sempre rimasti presenti nei loro presidi nel centro di Qamishli, la città più importante di Rojawa. E i loro posti di blocco controllano gli accesi sui tre punti di passaggio tra la regione curda e la Turchia. «Noi con Damasco vogliamo l’intesa. Speriamo in una forte autonomia, magari in una confederazione. La nostra bandiera resta siriana», spiegano i dirigenti curdi. Per loro è da guardare come ad un severo monito l’esempio dei «fratelli» curdi del nord Iraq, i quali, a causa del loro miope insistere per la scissione totale da Baghdad mirando ad uno Stato separato, hanno oggi perso quasi del tutto la loro forte autonomia sia politica che economica maturata sin da dopo la guerra del 1991. Ma le speranze dei curdi siriani paiono mal poste. Forte delle recenti vittorie contro gli oppositori, grazie all’aiuto determinate di Russia, Iran e le milizie sciite libanesi dell’Hezbollah, Assad sembra propenso a tornare col pugno di ferro alla situazione pre-rivolte del 2011, senza fare alcuna concessione ai curdi, che erano sempre stati duramente repressi nelle loro aspirazioni autonomistiche, da lui e da suo padre Hafez.
A guadagnare nettamente dal disimpegno americano è nel frattempo Vladimir Putin. Non a caso il presidente russo si è affrettato ad applaudire la mossa di Trump. Nei prossimi giorni il Cremlino sarà al centro di una intensa serie di colloqui. Già domani arriverà a Mosca una rappresentanza di alti dirigenti turchi. La diplomazia russa mira a un compromesso tra Ankara e Damasco. Se ci riuscisse, per Putin sarebbe un successo, con buona pace dei curdi, ormai orfani degli alleati occidentali e costretti a fare buon viso a cattivo gioco.