Corriere 29.12.18
La svolta siriana: Assad in aiuto dei curdi
La protezione del regime per fronteggiare i turchi: è il primo effetto del prossimo ritiro Usa
di Lorenzo Cremonesi
L’esercito
siriano posiziona le proprie truppe attorno alla cittadina curda di
Manbij, un centinaio di chilometri a est di Aleppo ed estremo avamposto
occidentale della regione di autogoverno curdo in Siria, meglio nota
come Rojawa. Da Ankara il presidente Recep Tayyp Erdogan replica che si
tratta di «un’azione di pressione psicologica» da parte del regime di
Bashar Assad. A suo dire «la situazione resta incerta». Nel frattempo
l’esercito turco posizionato da quasi un anno all’interno del territorio
siriano assieme alle sue milizie alleate sunnite locali rafforza gli
avamposti. Ancora Erdogan lascia però capire che, se i regolari siriani
dovessero completare il loro dispiegamento lungo tutto il confine
internazionale tra i due Paesi, allora la tensione si scioglierebbe,
visto che le forze militari curde diventerebbero irrilevanti e non ci
sarebbe «più lavoro da fare» per le unità turche e i loro alleati.
Sono
queste le conseguenze più dirette del recente annuncio di Donald Trump
per il ritiro dei circa 2.000 soldati scelti americani, che dalla fine
del 2014 operavano assieme alle forze curde per debellare Isis in Siria.
Rispecchiano fedelmente uno dei principi fondamentali delle relazioni
internazionali, per cui non può esistere un vuoto di potere: nel momento
in cui un attore rilevante lascia il teatro, altri inevitabilmente
prenderanno il suo posto. Principio particolarmente pregnante per
quest’area contesa del Medio Oriente. Se ne vanno gli americani che sino
a ieri hanno aiutato i curdi? La reazione è che i curdi cercano
protezione a Damasco per fronteggiare i turchi, loro nemici storici,
oggi ben più minacciosi dello stesso Isis. Del resto la mossa era
scontata. Anche nei periodi di massima debolezza del regime siriano i
curdi hanno evitato lo scontro frontale. I soldati di Bashar sono sempre
rimasti presenti nei loro presidi nel centro di Qamishli, la città più
importante di Rojawa. E i loro posti di blocco controllano gli accesi
sui tre punti di passaggio tra la regione curda e la Turchia. «Noi con
Damasco vogliamo l’intesa. Speriamo in una forte autonomia, magari in
una confederazione. La nostra bandiera resta siriana», spiegano i
dirigenti curdi. Per loro è da guardare come ad un severo monito
l’esempio dei «fratelli» curdi del nord Iraq, i quali, a causa del loro
miope insistere per la scissione totale da Baghdad mirando ad uno Stato
separato, hanno oggi perso quasi del tutto la loro forte autonomia sia
politica che economica maturata sin da dopo la guerra del 1991. Ma le
speranze dei curdi siriani paiono mal poste. Forte delle recenti
vittorie contro gli oppositori, grazie all’aiuto determinate di Russia,
Iran e le milizie sciite libanesi dell’Hezbollah, Assad sembra propenso a
tornare col pugno di ferro alla situazione pre-rivolte del 2011, senza
fare alcuna concessione ai curdi, che erano sempre stati duramente
repressi nelle loro aspirazioni autonomistiche, da lui e da suo padre
Hafez.
A guadagnare nettamente dal disimpegno americano è nel
frattempo Vladimir Putin. Non a caso il presidente russo si è affrettato
ad applaudire la mossa di Trump. Nei prossimi giorni il Cremlino sarà
al centro di una intensa serie di colloqui. Già domani arriverà a Mosca
una rappresentanza di alti dirigenti turchi. La diplomazia russa mira a
un compromesso tra Ankara e Damasco. Se ci riuscisse, per Putin sarebbe
un successo, con buona pace dei curdi, ormai orfani degli alleati
occidentali e costretti a fare buon viso a cattivo gioco.