La ricerca di Oxford
Alla nascita siamo uguali (basta falsità)
di Anna Meldolesi
Lo sviluppo fisico e cognitivo segue un andamento condiviso e universale. Quindi neonati diversi tra loro cresceranno forti e intelligenti allo stesso modo. Non importa chi di loro vive in India, Kenya o Brasile, Inghilterra o Italia. Lo dimostrano i dati raccolti nell’arco di 7 anni dal progetto Intergrowth-21st in 5 Paesi e coordinati dall’Università di Oxford.
D ate loro una mamma in buona salute, cibo nutriente, una casa pulita, affetto e attenzione. Neela, Aasir, Izabel, Isaac e Sofia cresceranno forti e intelligenti allo stesso modo. Non conta nulla che abbiano l’incarnato più o meno scuro. Non importa chi di loro vive in India, Kenya o Brasile, piuttosto che in Inghilterra o Italia. Le tappe della loro crescita saranno le stesse. Perché lo sviluppo fisico e cognitivo segue un andamento condiviso e universale. Lo dimostrano i dati raccolti nell’arco di 7 anni dal progetto Intergrowth-21st in 5 Paesi del mondo.
Per la ricerca, coordinata dall’Università di Oxford e finanziata dalla Fondazione Bill e Melinda Gates — per l’Italia sono state «reclutate» 500 gravidanze, tutte seguite alla Struttura complessa di ginecologia e ostetricia dell’ospedale Sant’Anna di Torino, diretta da Tullia Todros: «Siamo stati l’unico centro italiano a partecipare e l’unico europeo oltre Oxford» — sono state selezionate migliaia di future mamme simili tra loro non solo per età e indice di massa corporea, ma anche per le condizioni basilari di vita. Le disparità socio-ambientali, altrimenti, avrebbero mascherato la potenziale equità insita nella natura. Il numero totale dei soggetti studiati, tra donne e bambini, ha sfiorato quota 60.000. Ma il nucleo centrale dello studio è rappresentato dai 1.300 bebè che sono stati seguiti dal grembo materno fino al compimento dei 2 anni. I primi mille giorni di vita, infatti, rappresentano il periodo cruciale, quello in cui il cervello si sviluppa di più. Secondo quanto riferito dai giornali britannici, i ricercatori hanno misurato i parametri fisici dei bambini, tra cui la circonferenza cranica. Hanno annotato i loro progressi, come la capacità di stare seduti e muovere i primi passi. Hanno testato quanto erano bravi a parlare, osservare, prestare attenzione, ad esempio chiedendo loro di costruire torri di mattoncini o trovare oggetti nascosti. Infine hanno completato il quadro con le osservazioni riferite dalle madri. «A ogni passaggio abbiamo dimostrato che madri sane hanno bimbi sani e che questi hanno lo stesso tasso di crescita, indipendentemente dall’etnia. Il fattore chiave è che ricevano cure e nutrimento adeguati», spiega Stephen Kennedy che, con José Villar, guida Intergrowth-21st dopo aver lasciato, tra le polemiche, un analogo progetto dell’Organizzazione mondiale della sanità.
La sua conclusione può sembrare ovvia ma non lo è, perché finora nessuno lo aveva dimostrato con chiarezza e perché i pregiudizi razziali sono ancora diffusi. Basta ricordare che un paio di settimane fa uno degli scopritori della doppia elica del Dna, il premio Nobel James Watson, è finito nei guai per aver ribadito la sua convinzione che l’intelligenza non sia distribuita ugualmente in tutte le razze per cause genetiche. Una tesi priva di fondamento scientifico ma dura a morire, forse perché basata su presupposti ideologici più che razionali.
Quando negli anni 80 l’antropologia molecolare ha dimostrato che l’umanità ha origini africane e recenti, alcuni hanno festeggiato il valore antirazzista di quella scoperta. «C’è una fratellanza biologica molto più profonda di quel che pensassimo», disse lo studioso di evoluzione Stephen Jay Gould. Ma il pensiero razzista negli anni 90 è tornato all’attacco con le pseudo-teorie del libro The Bell Curve . Quando nel 2000 è stato sequenziato il genoma umano, ci siamo illusi di nuovo che bastasse la scienza a farci sentire uguali, pur nelle differenze. Uno degli artefici del sequenziamento, il genetista Craig Venter, ha ribadito che «il colore della pelle non è predittivo dell’intelligenza». Neppure questo è bastato.
Lo studio sulla crescita dei neonati adesso arriva a dare manforte all’antirazzismo scientifico. Intanto però 150 milioni di bambini nel mondo soffrono per le conseguenze della fame e non avranno la possibilità di sviluppare il potenziale che Kennedy e colleghi hanno rintracciato nei dati. Alla nascita siamo tutti uguali, magari. Poi però accade come nella Fattoria degli animali di Orwell: alcuni diventano più uguali degli altri.
il manifesto 25.1.19
Strasburgo boccia l’Italia: «Aborto, discriminati donne e medici non obiettori»
Salute. Il Consiglio d’Europa boccia nuovamente il governo italiano per le disparità dei servizi per l’Igv e chiede misure entro ottobre
di Eleonora Martini
«Carenze nei servizi» per l’interruzione volontaria di gravidanza, «limitazioni di accesso», «disparità a livello locale», «discriminazione» delle donne e dei medici non obiettori di coscienza sottoposti ad «atti di molestia morale».
Ancora una volta il Consiglio d’Europa bacchetta l’Italia perché, violando le sue stesse leggi, non garantisce alcuni diritti acquisiti dalle donne e pure dai lavoratori. Il Comitato europeo per i diritti sociali di Strasburgo ha pubblicato le decisioni prese riguardo i reclami collettivi sulle violazioni della Carta sociale europea in otto Paesi membri. In particolare, per quanto riguarda l’Italia, è tornato ad indagare sullo stato dei diritti delle cittadine di sesso femminile in seguito al ricorso presentato dalla Cgil e dall’International Planned Parenthood Federation European Network, che hanno denunciato la mancata applicazione della legge 194 ancora 40 anni dopo la sua promulgazione.
Era già accaduto nel 2014 e nel 2016, quando, sempre su ricorso della Cgil e di altre organizzazioni, il Consiglio d’Europa aveva già lanciato un monito al nostro Paese affinché vigilasse sull’«elevato e crescente numero di medici obiettori di coscienza» che porta l’Italia a violare «i diritti delle donne». Soprattutto «il diritto alla loro salute».
Sulla base delle informazioni fornite dal governo precedente il 16 febbraio 2018, il Comitato per i diritti sociali rileva che attualmente, da nord a sud dello Stivale, «ci sono carenze nei servizi» per l’Igv «che rendono difficile l’accesso a questa pratica per le donne e in alcuni casi le costringe a cercare soluzioni alternative», con «rischi per la loro salute». Inoltre, «sebbene la situazione sembri essere migliorata», si registrano «forti disparità a livello locale» perché in molti casi i servizi «non funzionano a tempo pieno», in quanto «non viene assegnato un numero adeguato di medici non obiettori».
In sostanza, per Strasburgo la situazione in Italia è visibilmente «non conforme» alle regole internazionali, perché presenta una «discriminazione contro le donne che desiderano porre fine alla gravidanza» «discriminazione, poiché «sono costrette a spostarsi da un ospedale all’altro nel Paese o viaggiare all’estero a causa delle carenze nell’attuazione della legge 194/1978», e «la violazione del loro diritto alla salute». Oltre che una «discriminazione nei confronti dei medici non obiettori».
In particolare sulla sorte dei sanitari che non hanno fatto ricorso alla clausola di coscienza prevista nelle legge, il Comitato europeo richiama il governo italiano – il precedente e l’attuale – perché ha dimostrato «l’incapacità di intraprendere qualsiasi formazione preventiva o misure di sensibilizzazione per proteggere i medici non obiettori dalle molestie morali».
Ora però l’Europa chiede all’Italia atti concreti: informazioni sulle misure prese per sanare o almeno ridurre queste disparità, combattere le discriminazioni, risarcire il personale sanitario non obiettore che è stato vittima di molestie morali, e assicurare una distribuzione più omogenea dei medici non obiettori sull’intero territorio nazionale, «dovranno essere presentate entro ottobre 2019».
D’altronde solo pochi giorni fa, nella relazione annuale al Parlamento sull’applicazione della 194, il ministero della Salute aveva reso noti gli ultimi dati – desolanti – sul numero di ginecologi italiani obiettori di coscienza: sette su dieci (il 68,4%), a fronte del 45,6% di anestesisti e del 38,9% di personale non medico. Secondo la ministra Giulia Grillo che ha firmato la relazione, però, non ci sarebbero criticità né sul numero di «punti Igv» né sul carico di lavoro settimanale dei singoli medici non obiettori, tranne che in Campania, dove per ogni struttura di ricovero il personale medico addetto agli aborti ne pratica 13,6 in media a settimana, e in Sicilia dove il carico è di 18,2.
«La legge 194 si conferma la norma più disapplicata del nostro ordinamento, e il ricorso distorto all’obiezione di coscienza contrasta palesemente con questo dettato. Da 40 anni – commenta la segretaria dell’Associazione Luca Coscioni, Filomena Gallo, che ha condotto numerose battaglie per i diritti civili degli italiani davanti alle corti internazionali – Lo Stato deve garantire che una donna che va in ospedale abbia l’opportunità di trovare sia un medico obiettore che uno non obiettore nello stesso turno». L’avvocata radicale rivolge infine un invito alla ministra Grillo, ad essere coerente con la promessa di «cambiamento»: «Intervenga con un segnale di discontinuità dal passato».
il manifesto 25.1.19
Comunismo «assassino»
Sinistra. Ragionare sui «comunismi» e sulla vicenda del Pci, ed in particolare sui modi della sua fine, significa riflettere sulla nostra realtà di oggi e sul becerume di Salvini
di Paolo Favilli
Sono completamente d’accordo con l’articolo di Luciana Castellina pubblicato il 18 gennaio su questo giornale. Non penso, tuttavia, che ci si debba stupire delle affermazioni di Salvini su Battisti «assassino comunista» e sulla lista di intellettuali «criminali ideologici» stilata da Veneziani. Salvini e Veneziani fanno semplicemente il loro mestiere e nella logica del mestiere che cos’altro potrebbero dire, quando l’obbiettivo è quello di far dimenticare che alla base dell’odierna barbarie ci sono le logiche che veramente contano: quelle dell’accumulazione del capitale in assenza di antitesi. Ed anche il fatto che lo facciano con linguaggio e palesi simpatie fascisteggianti è del tutto coerente con lo spirito del tempo e con il loro modo di essere.
SALVINI, è un trasformista, un cane da guardia che usa tutti i mezzi per sollecitare il «popolo» impoverito a fare barriera per difendere coloro che lo impoveriscono. Un cane che si trasforma in «sciacallo» (copyright Saviano) politico per mordere dove, a suo parere, c’è odore di morte. Dove però, se la morte non è certificata (da chi?), c’è la possibilità di una ripresa di discorsi e pratiche davvero demistificanti.
Veneziani è un pubblicistica che non ha nessuna idea di che cosa siano gli studi seri, d’altra parte non li ha mai praticati, e quindi gli «strafalcioni» sono elemento normale della sua retorica. Alcuni dei nomi della lista da lui stilata sono e resteranno punti fermi della grande cultura del Novecento, mentre le righe tracciate dal Veneziani stanno già rotolando nel brusìo indistinto del dimenticatoio.
MA ANCHE DI CIÒ perché stupirsi. Gli «strafalcioni», risultato di ignoranza, cialtronismo, uso della dimensione più volgare dell’ideologia, sono la realtà con cui conviviamo da quasi trent’anni. Gli esponenti politici che hanno avuto ed hanno i ruoli più alti nelle istituzioni repubblicane, (Bossi, Berlusconi, Renzi, Salvini, Di Maio) sono stati, e sono, la rappresentanza più chiara del binomio ignoranza-cialtronismo, tradotto in comunicazione (propaganda).
INOLTRE, perché chi esercita il potere considerando assolutamente naturale la dinamica del rapporto economico-sociale profondo alla base degli attuali processi di polarizzazione ricchezza/miseria che si riverbera su tutte le pieghe dei rapporti sociali, dovrebbe pensare alla storia dei «comunismi» con un minimo di rigore? I «comunismi», anche quelli più diversi tra loro, non hanno forse avuto la loro ragione storica nella critica al modo di produzione capitalistico? Ed allora è del tutto ragionevole bastonare il cane che affoga; almeno per un po’ non ci saranno alternative, come diceva Margaret Thatcher.
Del resto coloro che nei «comunismi» si sono formati politicamente, ad esempio in quel Partito comunista italiano la cui importanza e prestigio internazionale è impossibile negare, come hanno pensato alla loro storia? Semplicemente non l’hanno pensata. L’hanno rimossa nel migliore dei casi, oppure se ne sono pentiti. Pentiti davvero anche quando dicono di non esserlo, perché di fatto riducono la loro militanza giovanile ad una esperienza «sentimentale». Si rappresentano, in sostanza, sostituendo il termine «comunista» a quello «socialista», tramite il celebre aforisma (di Oscar Wilde? di Winston Churchill?) secondo il quale «se non si è socialisti a vent’anni si è senza cuore, se lo si è ancora a quaranta si è senza cervello». Un aforisma che in fondo potrebbe fare suo pure l’antico «comunista padano» Matteo Salvini, ed ovviamente, come ha scritto poco prima della fondazione del Pd un giornalista colto, «anche Massimo D’Alema e Walter Veltroni» (S. Romano, «Corriere della Sera», 10 ottobre 2007).
IL DEPUTATO del Pd Morassut, nell’argomentare il suo non pentitismo per non aver militato in gioventù nel Pci («il manifesto», 17 gennaio), ci dà invece chiara dimostrazione del «pentimento reale». «Oggi parlare del Pci è fuori luogo o al meglio è nostalgia», afferma il deputato.
NON È VERO. Ragionare sulla vicenda del Pci, ed in particolare sui modi della sua fine, significa riflettere storicamente sulla nostra realtà di oggi. Anche sulle ragioni per cui Salvini e i suoi corifei possano esercitare il suddetto becerume propagandistico in assenza di una contrapposizione analitica forte relativa alle radici di questo tipo di anticomunismo.
Come ragionano sulla loro militanza comunista i Morassut, i Veltroni, i Fassino. ecc., quei giovani dirigenti del Pci che nel 1991 hanno preteso di «guardare avanti» e sono stati invece protagonisti del «grande balzo all’indietro»? Ebbene erano nel Pci, ma non erano veramente comunisti. Erano nel Pci perché quel partito era decisamente schierato contro il terrorismo e «il capo dei comunisti era Enrico Berlinguer». E poi nella cultura di quel partito c’erano Labriola e Gramsci, marxisti antidogmatici.
MA BERLINGUER non era un comunista à la carte. Era un comunista moderno, certo, ma di una concezione della modernità antitetica a quella di cui erano portatori, negli anni Ottanta, Craxi, Berlusconi e molti altri anche nel Pci. La sua diversa modernità era saldamente ancorata all’uso delle categorie connesse alla critica dell’economia politica, senza le quali il termine comunista rimane un puro flatus vocis. Gramsci poi, il pensatore italiano più tradotto e studiato nel mondo dopo gli italiani del Rinascimento, era addirittura un comunista del Comintern, insomma «un criminale ideologico». Senza parlare di Labriola che ben prima dell’esistenza delle scissioni che avrebbero dato luogo ai partiti comunisti, definiva se stesso, in virtù dell’uso della metodologia de Il capitale, un «comunista critico».
L’ABBANDONO, anzi il rifiuto, di questo nocciolo duro metodologico, vero elemento unificante di una storia complessissima e fortemente diversificata come quella dei «comunismi», significa una modifica sostanziale dello sguardo su quella storia.
Se si toglie il momento fondante dell’antitesi dalla storia dei «comunismi», dalla storia del Pci, si tolgono le pratiche politiche organizzative attraverso cui in quella storia ci sono i punti più alti dell’emancipazione umana, insieme all’orrore della disumanità.
È esattamente quello che hanno fatto coloro che dicono di essere stati nel Pci, anche al vertice del Pci, «senza essere comunisti» (Veltroni, «La Stampa», 16 ottobre 1999). Quella storia dimidiata, allora, diventa solo una storia di sangue, ed il sangue, si sa, attira gli sciacalli.
il manifesto 25.1.19
Salvini non poteva bloccare la Diciotti, «va processato»
Catania. Il tribunale dei ministri accusa il vicepremier leghista di sequestro di persona, aggravato dalla presenza di minori a bordo. Inviata al Senato la richiesta di autorizzazione a procedere
di Alfredo Marsala
Sul «caso Diciotti», Matteo Salvini ha abusato del suo potere. Per questo motivo, sostiene il Tribunale dei ministri di Catania, va processato. Per i giudici, che hanno avanzato al Senato la richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti del capo della Lega (e senatore), il ministro dell’Interno non poteva bloccare, come ha fatto, per cinque giorni i 177 migranti impedendogli di scendere dalla nave, ormeggiata nel porto di Catania. Ponendo «arbitrariamente il proprio veto all’indicazione del Pos (Place of safety, un porto di sbarco sicuro, ndr) da parte del competente dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione» ha determinato «la forzosa permanenza dei migranti a bordo della Diciotti, con conseguente illegittima privazione della loro libertà personale per un arco temporale giuridicamente apprezzabile e al di fuori dei casi consentiti dalla legge».
SEQUESTRO DI PERSONA è il reato che gli viene contestato, aggravato dall’abuso di potere e perché era consapevole che sulla nave militare c’erano 27 minori non accompagnati. Anche perché, sostengono i giudici, non c’era «un problema cogente di ordine pubblico per diverse ragioni» e in particolare perché in concomitanza con il caso Diciotti, «si era assistito ad altri numerosi sbarchi dove i migranti soccorsi non avevano ricevuto lo stesso trattamento». Non solo. «Nessuno dei soggetti ascoltati dal tribunale – si legge nella richiesta a Palazzo Madama – ha riferito, come avvenuto invece per altri sbarchi, di informazioni sulla possibile presenza, tra i soggetti soccorsi, di ‘persone pericolose’ per la sicurezza e l’ordine pubblico nazionale».
Non c’era alcun motivo, dunque, per trattare in quel modo i migranti costretti a ripararsi sotto tendoni di fortuna allestiti sul ponte per ripararsi dalla pioggia e dal sole d’agosto. Il ministro ha agito «per volontà meramente politica di affrontare il problema della gestione dei flussi migratori invocando, in base a un principio di solidarietà, la ripartizione dei migranti a livello europeo tra tutti gli Stati membri». Insomma, Salvini avrebbe usato la Diciotti per il braccio di ferro politico con Bruxelles. Ma le scelte politiche «non possono ridurre la portata degli obblighi degli Stati di garantire nel modo più sollecito il soccorso e lo sbarco dei migranti».
Perché «l’obbligo di salvare la vita in mare costituisce un preciso dovere degli Stati e prevale su tutte le norme e gli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell’immigrazione irregolare»: concetto che ribalta di netto la motivazione con cui il capo della procura di Catania, Carmelo Zuccaro, aveva chiesto l’archiviazione per Salvini sostenendo che «una scelta politica non è sindacabile dal giudice penale».
Il provvedimento inviato al Senato ricorda che anche la «stessa Corte Costituzionale, in diverse circostanze, ha avuto modo di evidenziare che la discrezionalità nella gestione dei flussi migratori incontra chiari limiti, sotto il profilo della conformità alla Costituzione e del bilanciamento di interessi di rilievo costituzionale, nella ragionevolezza, nelle norme di trattati internazionali che vincolano gli Stati contraenti e, soprattutto, nel diritto inviolabile della libertà personale (articolo 13 della Costituzione), trattandosi di un bene che non può subire attenuazioni rispetto agli stranieri in vista della tutela di altri beni costituzionalmente tutelati». Per i giudici «la decisione del ministro ha costituito esplicita violazione delle Convenzioni internazionali in ordine alle modalità di accoglienza dei migranti soccorsi in mare».
Salvini sceglie la linea dura, attaccando i giudici. «Ci riprovano – dice in una diretta Facebook – Torno ad essere indagato per sequestro di persona e di minori, con una pena prevista da 3 a 15 anni. Manco fossi uno spacciatore o uno stupratore». Spavaldo, aggiunge:
Prova a smascherare il ministro, Pietro Grasso: «Come membro della giunta per le immunità del Senato dovrò esaminare la richiesta del Tribunale dei ministri di Catania: Salvini ha dichiarato a tutta pagina, non più tardi di qualche mese fa, che avrebbe rinunciato all’immunità e chiesto al Senato di farsi processare. Ripete continuamente di essere uno che mantiene la parola: non ho dubbi che lo farà anche in questo caso. Vero?».
Corriere 25.1.19
I giudici: violata la legge per una battaglia politica
Ha imposto la sua linea
L’ordine diretto:«La direttiva data per ribadire la sfida alla Ue
Non c’erano motivi di ordine pubblico»
di Giovanni Bianconi
ROMA «Il ministro ha agito al di fuori delle finalità proprie dell’esercizio del potere conferitogli dalla legge, in quanto le scelte politiche o i mutevoli indirizzi impartiti a livello ministeriale non possono ridurre la portata degli obblighi degli Stati di garantire nel modo più sollecito il soccorso e lo sbarco dei migranti in un luogo sicuro». Così i tre giudici del tribunale dei ministri di Catania — Nicola La Mantia, Sandra Levanti e Paolo Corda — riassumono l’atto d’accusa contro Matteo Salvini sul «caso Diciotti». Il titolare del Viminale continua a rivendicare la legittimità di una scelta politica derivante dal proprio ruolo, quindi insindacabile da parte dell’autorità giudiziaria, ma i giudici sono di diverso avviso: «Non è ravvisabile la scriminante ipotizzata, in quanto la decisione del ministro ha costituito esplicita violazione delle convenzioni internazionali sulle modalità di accoglienza dei migranti soccorsi in mari».
Tutto si gioca nella differenza tra un «atto politico», indenne dalle valutazioni dei magistrati, e un atto «dettato da ragioni politiche», che invece rientra nelle competenze dei giudici per verificare se costituisca un reato oppure no. E il tribunale, a differenza della Procura di Catania, ha ritenuto che la decisione di Salvini di non concedere l’approdo in un porto sicuro (Pos) rientrasse nella seconda categoria. Non c’erano ragioni legate alla «tutela dell’ordine pubblico o della sicurezza pubblica», di cui il ministro dell’Interno è responsabile, che lo giustificassero. «Lo sbarco di 177 cittadini stranieri non regolati non poteva costituire un problema cogente di “ordine pubblico” per diverse ragioni», puntualmente indicate dai giudici.
Tutto è dipeso, piuttosto, dal braccio di ferro sulla distribuzione dei profughi ingaggiato da Salvini con l’Europa; è questa la ragione politica di un ordine arrivato direttamente dal ministro, come risulta dalle numerose testimonianze. A cominciare dal capo di gabinetto del Viminale, Matteo Piantedosi che ha dichiarato ai magistrati: «La disposizione che i migranti restassero a bordo della nave Diciotti fino alla definizione delle trattative intraprese a livello europeo è stata assunta dal ministro Salvini ... Ho avuto molte interlocuzioni con il ministro, e mi sono preoccupato di concretizzare la volontà politica ripetutamente da lui espressa... È altresì notorio che il ministro Salvini è intervenuto e interviene in maniera marcata sull’argomento, che rappresenta uno dei punti centrali del suo programma politico».
Il 25 agosto, quando ancora la situazione a Catania non si era risolta, i prefetti Gerarda Pantalone e Buono Corda che guidavano il Dipartimento per l’immigrazione avevano confermato: «La richiesta di Pos è stata girata al prefetto Piantedosi, il quale ribadì che non poteva indicare un Pos e occorreva attendere... Tutta la catena di comando, dal centro verso la periferia, rimane bloccata in attesa delle determinazioni di carattere politico del signor ministro», ha detto la Pantalone. E Corda: «Ho più volte conferito e sollecitato il prefetto Piantedosi, il quale in un paio d’occasioni mi ha detto di attendere perché questa era l’indicazione del ministro Salvini».
Nella città etnea tutto era pronto per far scendere gli extracomunitari e applicare le normali procedure, e questo particolare «manifesta il carattere illegittimo della conseguente condizione di coercizione a bordo patita dai migranti». Piantedosi ha sostenuto che la Diciotti già era un «approdo sicuro» garantito ai profughi, ma per i giudici esistono risoluzioni e direttive condivise che non consentono questa valutazione. E a nulla vale che fosse in corso la trattiva con l’Unione europea: si trattava di «meri auspici politici» che «non legittimavano il ministro a disattendere le Convenzioni internazionali ancora vigenti».
Ne deriva una conclusione che, in attesa delle valutazioni del Senato sull’eventuale «preminente interesse pubblico, suona anche come un’autodifesa preventiva da parte dei tre magistrati del collegio: «Va sgomberato il campo da un possibile equivoco e ribadito come questo tribunale intenda censurare non già un “atto politico” dell’Esecutivo, bensì lo strumentale e illegittimo utilizzo di una potestà amministrativa del Dipartimento per l’Immigrazione, articolazione del ministero presieduto dal senatore Matteo Salvini, essendo stata l’intera vicenda caratterizzata da un’evidente presa di posizione di quest’ultimo, che ha bloccato ed influenzato l’iter della procedura amministrativa».
Il Fatto 25.1.19
L’alleato nei guai: ora M5S dovrà decidere chi salvare
Entro un mese la Giunta per le autorizzazioni dovrà rispondere al Tribunale dei ministri: determinante il voto 5 Stelle
“Vedremo chi voterà” – Così il ministro Matteo Salvini a proposito del pronunciamento del Senato
di Ilaria Proietti
La linea va definita il più presto possibile. Perché la decisione che si prenderà sulle sorti giudiziarie di Matteo Salvini è per tutti “uno snodo fondamentale” per il proseguimento della legislatura. Come voteranno i 5 Stelle sulla richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti del capo della Lega recapitata dalla procura di Catania che gli contesta l’accusa gravissima di sequestro aggravato dei profughi della nave Diciotti? Per ora le bocche sono cucite, ma da quel poco che trapela si sta verificando ogni ipotesi. E ogni ipotesi è politicamente impervia, persino quella di un’astensione tecnica.
Il confronto è aperto: le ragioni politiche per negare il via libera ai magistrati sono evidenti a tutti. Come pure è evidente che dire sì all’autorizzazione a procedere affinché Salvini possa difendersi nel processo non equivarrebbe a smentire la linea della fermezza rispetto agli sbarchi che è comune in seno al governo. Lo ha ricordato giusto ieri Luigi Di Maio sul caso della nave Ong Sea Watch, in rotta verso la Sicilia. “La nave, qualora ne avesse bisogno, avrà supporto medico e sanitario. Ma invito a puntare la prua verso Marsiglia, anziché aspettare inutilmente nelle acque italiane per giorni” ha commentato, come a suggerire che i 5 Stelle restano sulla stessa lunghezza d’onda di Salvini. Che sulla faccenda contestata dai magistrati di Catania rischia una pena che va da 3 a 15 anni: insomma rischia grosso da un punto di vista giudiziario, che però potrebbe fruttargli un enorme vantaggio in termini di consensi in vista delle Europee di maggio.
A rischiare l’osso politicamente sono invece i 5 Stelle. Che appena avuta notizia dell’indagine avevano sperato fosse lo stesso Salvini a cacciarli d’impiccio rinunciando all’immunità. E invece no. Quasi a volere stanare l’alleato di governo, il capo del Carroccio ha detto chiaramente: “Ora la parola passa al Senato e ai senatori che dovranno dire sì o no, libero o innocente, a processo o no. Sono sicuro del voto dei senatori della Lega. Vedremo come voteranno tutti gli altri, se ci sarà una maggioranza in Senato”. Una maggioranza disponibile a salvarlo dalle aule di giustizia è probabile che alla fine ci sarà: Forza Italia e Fratelli d’Italia da sempre per la linea della fermezza sui migranti, sembrano pronti a dare man forte. E forse anche il Pd che finora in Giunta per le autorizzazioni a procedere a Palazzo Madama ha sempre votato col centrodestra. Facendo finire in minoranza i 5 Stelle in maniera sistematica.
Ma ora la questione attiene alla tenuta stessa della maggioranza gialloverde e l’occasione è ghiotta un po’ per tutti. Superate le fibrillazioni sull’affare delle trivelle su cui si è faticato parecchio per trovare un compromesso onorevole, sono già alle viste nuove tensioni sulla legittima difesa che per un errore tecnico scoperto solo alla Camera dovrà tornare alla Palazzo Madama. Tanto per alimentare i sospetti di un boicottaggio del M5S. Salvini ha rilanciato subito sul Tav “che va fatto”. Una serie di tornanti pericolosi che avranno uno snodo fondamentale a Palazzo Madama.
Dove la Giunta entro 30 giorni è chiamata a decidere se l’inquisito Salvini “abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo” e preliminarmente se si tratti di un reato di natura ministeriale. Con tre esiti possibili: può convenire sul riconoscimento della natura ministeriale e tuttavia negare l’autorizzazione; oppure concedere l’autorizzazione a procedere con rimessione degli atti al Tribunale dei ministri; o disconoscere la natura ministeriale del reato e disporre la restituzioni degli atti all’autorità giudiziaria affinché il procedimento prosegua nelle forme ordinarie. Una tris in ogni caso micidiale.
Il Fatto 25.1.19
Il Consiglio d’Europa striglia l’Italia: “Politici razzisti”
Dopo l’Onu anche il Consiglio d’Europa critica l’Italia alludendo a un’emergenza razzismo. L’Assemblea Parlamentare dell’organismo internazionale con sede a Strasburgo ha pubblicato i risultati del suo monitoraggio sul nostro paese. E nel documento si definisce “preoccupata dall’aumento degli atteggiamenti razzisti, della xenofobia e delle posizioni anti Rom nel discorso pubblico, in particolare sui media e su Internet, e dall’aumento dei discorsi d’odio da parte dei politici”. Un testo che non cita personalmente Matteo Salvini ma che si riferisce in modo chiaro all’attività e alla comunicazione politica del ministro dell’Interno. La delegazione italiana, bipartisan, ha tentato di apportare delle modifiche al testo con degli emendamenti, ma sono stati tutti respinti. Nella relazione si esprime anche preoccupazione per la politica di chiusura dei porti ai migranti. E si scrive esplicitamente che il governo italiano è formato da un movimento di estrema destra, la Lega, e uno anti sistema, i Cinque Stelle. II Carroccio ha subito replicato: il testo “è scandaloso e inaccettabile”.
La Stampa 25.1.19
L’ex ministro ed ex presidente della Corte Costituzionale, Giovanni Maria Flick
“Spetta alla politica valutare se il ministro ha difeso l’interesse nazionale o meno”
di Francesco Grignetti
Diceva qualche tempo fa, l’ex ministro ed ex presidente della Corte Costituzionale, Giovanni Maria Flick, mai tenero nei confronti di Matteo Salvini: «Il principio della separazione dei poteri non è un passepartout per commettere reati». E ora che pensa, il professor Flick, di questa richiesta del tribunale dei ministri di Catania?
«Che la legge è chiara, e anche logica: se il ministro ha commesso un reato, abusando dei suoi poteri, lo dovrà stabilire la magistratura ordinaria. Perché nessuno, neanche un ministro, è superiore alla legge. Allo stesso tempo, c’è una garanzia assoluta per i ministri, l’ultima forma di autorizzazione a procedere che è rimasta nell’ordinamento: spetta al Parlamento valutare se vi sia stata una “tutela dell’interesse costituzionalmente rilevante” oppure un “perseguimento del preminente interesse nazionale”. Nessun automatismo, come vede, né in un senso, né nell’altro».
Ecco, parliamo di questa sfera che è quella dell’interesse «costituzionalmente rilevante» e del «preminente interesse nazionale», ciò che banalmente definiamo «prerogative» dell’Esecutivo?
«Attenzione, piano con le parole: non è la generica attività politica che viene esentata dal rispetto della legge. Altrimenti ci salvi Iddio. Qui parliamo dei cosiddetti reati ministeriali, ovvero reati commessi da ministri nell’esercizio delle loro funzioni. Fino al 1989, sarebbe stata la Corte Costituzionale a procedere ed eventualmente processare il ministro imputato. Unico caso che si ricordi, la Lockheed. Dopo il 1989, si è fatta una profonda riforma e adesso il giudizio su un eventuale reato spetta alla magistratura ordinaria. Il Parlamento però può e deve fare una valutazione politica se l'atto in questione non sia stato giustificato per le ragioni di cui sopra».
La vecchia famigerata autorizzazione a procedere?
«Dico che sarebbe un errore che una onnipotente magistratura entri nel merito politico dell’atto così come, all’opposto, sarebbe sbagliato se il Parlamento volesse entrare nel merito penale e rubare il mestiere al giudice. Il Parlamento deve esaminare l’atto e se del caso interrompere il percorso giudiziario qualora ritenga che il ministro si è mosso secondo uno di quei due motivi di cui sopra».
C’è un evidente contrasto tra procura e tribunale a Catania: per la prima, Salvini ha fatto un legittimo uso dei suoi poteri; per il secondo potrebbe esservi un abuso. È tutto qui?
«L’atto in sé è chiaro, e addirittura rivendicato. Dico subito che non siamo noi, tantomeno le rispettive tifoserie, a dover decidere se fu uso legittimo o abuso dei poteri. C’è per questo la magistratura».
Il tribunale richiama anche l’esistenza di convenzioni internazionali e di leggi conseguenti. Quanto pesano?
«Nel nostro caso, limitatamente a quanto le leggi italiane hanno recepito le convenzioni. D’altra parte il tribunale ha motivato le ragioni per cui ritiene di non archiviare e rinvia gli atti al Parlamento per la sua valutazione. Ma c’è anche una premessa costituzionale: non ci può essere restrizione della libertà personale se non autorizzata dall’autorità giudiziaria».
In conclusione, lei che voterebbe?
«Per fortuna non sono parlamentare e sono ben contento di non avere questa responsabilità».
La Stampa 25.1.19
Il caso Diciotti evidenzia i limiti dei poteri che un ministro può esercitare
di Ugo De Siervo
Diversamente da come era stato largamente diffuso nell’opinione pubblica dopo la diversa opinione espressa dal Procuratore della Repubblica di Catania, lo speciale collegio giudiziario competente in materia di reati ministeriali ha trasmesso al Senato la richiesta di sottoporre il senatore Salvini al processo penale scaturito dalla nota vicenda della nave Diciotti. Come si ricorderà, si imputa al ministro - tra l’altro - di aver trattenuto nella nave, ormai ormeggiata nel porto di Catania e quindi nel territorio nazionale, un numeroso gruppo di migranti senza farli scendere a terra per tutti i vari controlli di polizia e le diverse forme di assistenza sanitaria e sociale, nonché per la presentazione delle diverse domande di accoglienza; ciò senza che alcuna legge preveda e disciplini un potere ministeriale del genere. Vi sarebbe stata, in altri termini, una vistosa e prolungata limitazione della libertà personale, in violazione del principio di legalità, uno dei grandi principi degli Stati democratici contemporanei, secondo il quale gli organi amministrativi e di governo possono limitare le libertà solo se e nella misura in cui il legislatore lo abbia previamente previsto e disciplinato.
Naturalmente il ministro ha dato tutt’altra rappresentazione della attuale situazione, sostanzialmente cercando di denigrare i giudici ed il loro lavoro e di giustificare il suo comportamento in nome della sua ben nota assoluta opposizione ai flussi migratori transmediterranei (ma a tutti gli altri, assai più numerosi, come si sta reagendo?). Addirittura ora si è riferito, come norma che egli avrebbe tutelato con la sua azione, al dovere di difesa della Patria (di cui all’art. 52 della Costituzione), che in realtà si riferisce invece a tutt’altra cosa e cioè alla difesa armata del Paese e non certo all’adempimento delle importanti funzioni che un ministro della Repubblica deve garantire, ma nel pieno rispetto delle leggi, specie là dove sono in gioco le libertà delle persone.
Ora si apre una nuova fase, che sarà molto significativa anche sul piano politico perché il Senato deve rapidamente concedere all’autorità giudiziaria ordinaria competente l’autorizzazione a procedere nei confronti del ministro; ma la legge costituzionale del 1989 prevede pure che, a maggioranza assoluta, la Camera di appartenenza del ministro possa anche negarla, ove ritenga che l’inquisito abbia agito «per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante, ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo».
A questo proposito, alcuni mesi fa il ministro Salvini più volte si era dichiarato assolutamente contrario a utilizzare una scappatoia del genere e dichiarava in modo perentorio di voler semmai eventualmente affrontare il processo senza appellarsi ad un arcaico e vistoso privilegio del vertice della classe politica dirigente, ma ora invece - a seguire le eccitate e demagogiche dichiarazioni da lui diffuse via Internet - sembra che abbia radicalmente cambiato idea: infatti parla della decisione del Senato come di una decisione sul merito della questione (lì si deciderebbe se è colpevole o innocente) e chiaramente fa intendere che i senatori del suo partito saranno decisamente impegnati per far negare l’autorizzazione.
Come era immaginabile, il modo semplicistico di esercitare i poteri ministeriali sta portando a confondere in modo grave i poteri che i vertici ministeriali possono e devono esercitare, con il mutamento e con l’arricchimento dei loro poteri, che dipendono dalle modificazioni legislative, da conseguire nelle sedi proprie e cioè nei liberi confronti parlamentari.
il manifesto 25.1.19
La Cgil ritrova l’unità e elegge Landini segretario
Il congresso di Bari. All’ex leader della Fiom il 92,7% dei voti: «Sento una grande responsabilità». Primo problema da affrontare, quello della «rappresentanza dei giovani»
di Massimo Franchi
Mentre tutto sembra andare a rotoli politicamente e socialmente, la Cgil dà una prova di unità e di cambiamento in completa controtendenza. Maurizio Landini è stato eletto segretario generale con il 92,7% dei voti dopo aver fatto un discorso programmatico pieno di citazioni di Claudio Sabattini – «autonomia e indipendenza per un soggetto di trasformazione sociale oltre i luoghi di lavoro» – e di centralità della questione giovanile.
Lo fa riprendendosi la scena e rimettendo ilo lavoro al centro dopo una mattinata in cui i bagliori della divisione erano ricomparsi per la possibilità che Susanna Camusso restasse in segreteria confederale e un pomeriggio in cui un innocuo ordine del giorno che condannava il golpe in Venezuela era usato strumentalmente dai grandi media per dire «la Cgil sta con Maduro».
EMOZIONATO COME MAI, ha preso la parola per spiegare la sua Cgil. «Quando Susanna Camusso mi ha proposto ho sperato con tutto il cuore che quella indicazione fosse condivisa da tutta l’organizzazione per riunificare tutto il mondo del lavoro e per rafforzare tutta la Cgil. Il fatto che questa mia dichiarazione programmatica sia unitaria mi emoziona e mi fa sentire grande responsabilità. La soluzione unitaria e complessiva è importante perché valorizza il nostro pluralismo, la nostra democrazia e i 5 milioni di persone che pagano ogni mese la nostra tessera». «Tutti insieme abbiamo dimostrato intelligenza: la Cgil è una o non è, è plurale o non è, è democratica e partecipe o non è la Cgil».
Come primo problema da affrontare Landini ha citato «la rappresentanza dei giovani», visto che «ci sono più giovani costretti a lasciare l’Italia che migranti che arrivano» e per i quali «dobbiamo saperci innovare e aprirci» partendo dalla «Carta dei diritti che riconosce diritti a tutti a prescindere dal contratto che si ha».
CHI SI ASPETTAVA AFFINITÀ con il governo e i 5S è subito rimasto deluso: «Andremo in piazza il 9 febbraio e la riempiremo, il governo del cambiamento non sta cambiando un bel niente. Non sta intervenendo sulle cause della situazione economica e la manovra è miope e recessiva, non certo la bussola del cambiamento delle politiche economiche e sociali, non si cambia il Paese contro e senza il contributo del mondo del lavoro» e serve «una legge sulla rappresentanza per dare ai lavoratori la libertà di scegliere il sindacato che meglio li rappresenti senza dover sottostare ai ricatti».
Negativo il giudizio sul reddito di cittadinanza: «Il problema è la confusione che sta facendo questo governo che comunque non ha mai ripristinato l’articolo 18 come annunciato. La povertà c’è ma non si può pensare di affrontarla mescolandola con le politiche del lavoro. Fai solo una grande confusione e non affronti né l’una né l’altro».
SULLA TAV (Landini ha appoggiato la lotta No tav negli anni scorsi) la risposta è articolata: «La scelta di andare verso un blocco generalizzato di tutti i cantieri non è intelligente, c’è un problema di piano straordinario delle infrastrutture, materiali ma anche sociali, non solo di grandi opere. Di sicuro serve potenziare le ferrovie anche da altre parti, come la linea adriatica: serve un piano straordinario di investimenti e per il Mezzogiorno».
Ma la chiusura dell’intervento è ancora sull’unità interna. Proponendo come vice Gianna Fracassi e Vincenzo Colla («abbiamo fatto la scelta giusta per l’unità della Cgil, Landini è leale, sarà il mio segretario», ha commentato l’ex avversario) dice tra gli applausi: «Se qualcuno qua dentro si sente landiniano, colliano o camussiano sappia che sono sintomi di una malattia da curare subito». E rilancia anche l’unità con Cisl e Uil.
ALLA FINE ARRIVA una dichiarazione d’amore per il sindacato: «La collegialità fatta di uomini e donne deve dare sempre importanza alla rappresentanza di genere. So di poter contare su una bella organizzazione di donne e uomini libere. Posso garantirvi che la Cgil mi ha fatto innamorare così come le persone che per vivere hanno bisogno di lavorare. Questa causa val bene un impegno, val bene una vita», chiude per il «tutti in piedi» di rito.
La prima uscita pubblica sarà al Cara di Bari a sottolineare la centralità della questione migranti. E al nuovo segretario della Cgil arrivano anche le congratulazioni del Pd.
La Stampa 25.1.19
La svolta di Landini
“Torni l’unione sindacale per incalzare il governo”
di Fabio Martini
È già un’altra Cgil. Nel suo primo discorso da leader, il tribuno Maurizio Landini ha riscaldato la platea del congresso, che lo ha avvolto in applausi corali soprattutto quando ha spinto il pedale sul «fattore umano», con quel suo lessico semplice che potrebbe diventare la sua forza: «La Cgil mi ha fatto innamorare, perché mi ha insegnato a voler bene a tutti coloro che per vivere hanno bisogno di lavorare!». Parole in odor di demagogia ma che pronunciate dall’ex operaio Landini, col suo linguaggio popolare, di solito risultano veraci e anche alla Fiera del Levante hanno smosso la platea: i delegati fino a quel momento divisi in due - e che erano restati freddi durante l’ultimo discorso di Susanna Camusso - hanno accompagnato le parole di Landini con un applauso crescente che ha coperto le parole finali del discorso col quale chiedeva la fiducia dei delegati.
Il piglio del leader
È un’altra Cgil per il piglio umano e la grinta sindacale ma anche per due messaggi politici: è finita la stagione di stand-by verso il governo e nei confronti della Tav, Landini supera sé stesso e la sua passata opposizione. Il messaggio rivolto al governo sovranista è stato energico: «Il nostro giudizio sulla manovra è chiaro: chi si definisce il governo del cambiamento non sta cambiando un bel niente!». E ancora: «La manovra è miope e recessiva. E non si cambia il Paese contro e senza il contributo del mondo del lavoro!».
Svolta sulla Tav
E durante la sua prima conferenza stampa da segretario, Landini, sia pure con espressione contorta, ha fatto capire di essere favorevole alla Tav: «La Cgil ha sulla Tav, sulle grandi opere, una posizione precisa: andare verso il blocco di tutti cantieri non credo sia una cosa grandemente intelligente. Ma allo stesso tempo c’è anche un problema relativo ad un piano straordinario di investimenti in infrastrutture non solo materiali ma anche sociali che non viene realizzato».
Plebiscito
Discorso che è piaciuto ed ha convinto: a scrutinio segreto i delegati lo hanno eletto segretario generale col 92,7% dei voti, una percentuale superiore a quelle ottenute, sempre a scrutinio segreto, dalla segretaria uscente negli ultimi due congressi. Discorso complicato, quello di investitura, per Landini, un ex movimentista che ora è chiamato a guidare la Cgil, che con gli oltre 5 milioni di iscritti, è la più grande organizzazione italiana e una delle più grandi d’Europa. Complicato perché sino all’ultimo hanno pesato gli strascichi di un pre-congresso nel quale i delegati formalmente uniti dallo stesso documento, in realtà si erano divisi su due fronti, pressoché equivalenti.
Unità interna
Dopo la decisione del riformista Vincenzo Colla di ritirare la propria candidatura, in zona Cesarini sono emersi dettagli sostanziosi. Ieri mattina l’ala riformista è stata informata della possibilità che Susanna Camusso entrasse in segreteria, procedura senza precedenti in Cgil. Un’ipotesi che Camusso ha smentito come sua volontà, ma che ha prodotto malumori anche nel fronte vicino a Landini. L’accordo stava per saltare, il congresso stava per avvitarsi su una questione apparentemente minore, tanto è vero che era stata già avviata la raccolta firme per far tornare in auge la candidatura di Colla. Ma a salvare la «baracca» ha provveduto la lettura, un po’ tardiva, dello Statuto che rendeva ardita la soluzione.
E proprio in chiave interna Landini ha usato parole da garantista: «La Cgil ha bisogno di pensiero critico e di lealtà da parte di tutti», «non abbiamo paura delle idee», «se qualcuno parla di landiniani, colliani e camussiani, sappiate che questi sono sintomi di una malattia che va curata subito». Una lettura diversa da quella che nei giorni scorsi aveva bollato la decisione di Colla di candidarsi come uno sfregio alla «cultura del noi». E proprio Colla, molto applaudito dai delegati, ha sigillato una prima intesa col nuovo leader, rivendicando la decisione di aver salvaguardato l’unità interna.
Cisl e Uil
Una «nuova» Cgil, almeno nelle intenzioni, anche sul fronte dei rapporti con Cisl e Uil. L’ex «autarchico» Landini ha detto che occorre «avviare una nuova stagione unitaria, che non sia solo la somma di Cgil Cisl e Uil ma che ricostruisca l’unità sociale del mondo lavoro». E ancora, riferendosi alla prossima mobilitazione unitaria: «Il 9 febbraio dobbiamo riempire la piazza e dare voce e parola al lavoro». In serata a Landini hanno risposto sia Annamaria Furlan, leader della Cisl e Carmelo Barbagallo, segretario della Uil, entrambi con parole incoraggianti, con una consonanza che non si registrava da tempo.
Corriere 25.1.19
Landini va all’attacco di Salvini
«Si fa bello chiudendo i porti»
Il neoleader Cgil: si è fatto eleggere in Calabria, ma lì ci sono ancora gli schiavi
di Enrico Marro
BARI Non appena eletto segretario generale della Cgil al congresso di Bari, Maurizio Landini ha convocato una conferenza stampa e ha attaccato a testa bassa il governo. Il primo ad essere preso di mira è stato il vicepremier, Matteo Salvini: «Si è fatto eleggere in Calabria e io lo inviterei a tornarci. Sono stato nelle tendopoli di San Ferdinando, dove ci sono masse di lavoratori sfruttati, schiavismo puro nel 2019. E invece lui si fa bello chiudendo i porti e facendoci sapere che gli piace la nutella».
Landini ha quindi annunciato che la sua prima iniziativa da leader della Cgil sarà quella di andare oggi pomeriggio al Cara di Bari, il centro di accoglienza dei richiedenti asilo. Ha quindi ironizzato sul presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, «che, quando si è accorto che Cgil, Cisl e Uil faranno il 9 febbraio una manifestazione nazionale a Roma, ci ha finalmente incontrato per dirci: “ma perché? che noi del governo siamo così bravi”». Landini ha bocciato anche il reddito di cittadinanza, «misura confusa che rischia di non affrontare né la povertà né la disoccupazione» e gli incentivi/disincentivi sull’acquisto delle auto: «Un provvedimento a capocchia, di un governo che non ha un’idea di mobilità». In Italia, ha aggiunto, si producono «forse 3-4 mila auto elettriche» e quindi gli incentivi andranno ai marchi esteri, anche perché Fca «non ha investito e fino a qualche anno fa diceva che l’auto elettrica era superata».
Il neosegretario della Cgil ha anche messo in guardia i 5 Stelle sul salario minimo orario: «Noi chiediamo una legge sulla rappresentanza che dia validità erga omnes ai minimi di retribuzione stabiliti nei contratti, non una legge che abbassi questi minimi». Infine, no anche al blocco delle opere pubbliche: «Fermarle in modo generalizzato non è una scelta intelligente ».
Insomma, allo stile fermo ma pacato di Susanna Camusso, la Cgil sostituisce l’irruenza focosa dell’ex leader della Fiom, deciso a ridare un protagonismo politico al maggiore sindacato italiano. Protagonismo che si annuncia come una decisa opposizione a un governo che Landini ritiene non solo sovranista, ma anche reazionario e di destra. Detto ciò, sul piano sindacale, il segretario della Cgil ha rilanciato anche l’idea di un «sindacato unitario con Cisl e Uil», che però difficilmente farà strada se la Cgil assumerà un marcato profilo politico.
Landini è stato eletto a conclusione di un congresso dominato dalla lotta per la successione a Susanna Camusso. Ha preso il 92,7% dei voti solo grazie all’accordo in extremis con il rivale Vincenzo Colla. Su proposta di Landini è stata eletta la nuova segreteria nazionale, con due vicesegretari. Il primo è proprio Colla, che incassa anche il 40% di rappresentanti della sua area (pensionati, trasporti, chimici e tessili, edili, comunicazione, Emilia Romagna e diversi territori) negli organismi dirigenti. Il secondo vice è Gianna Fracassi, in quota Camusso-Landini.
Il nuovo capo della Cgil, consapevole della situazione, ha spronato il sindacato all’unità: «Se qualcuno qui dentro si sente “landiniano”, “colliano” o “camussiano” sappia che questi sono i sintomi di una malattia che va curata subito». E il fatto che questo passaggio sia stato salutato da un applauso liberatorio è il segno più evidente delle ferite che ora la segreteria Landini dovrà rimarginare. Entrano nella segreteria nazionale Cgil, Emilio Miceli (leader dei chimici) in quota Colla e Ivana Galli (leader agroalimentari) in quota Camusso-Landini.
il manifesto 25.1.19
La Cgil fa la cosa giusta
di Norma Rangeri
Tra rituali d’ordinanza (il conclave notturno) e etichette d’antan (il riformista e il movimentista), alla fine il XVIII congresso della Cgil, eleggendo Maurizio Landini segretario, ha scelto un leader popolare, credibile e rappresentativo. L’essere stato prima di tutto un operaio non è una credenziale secondaria. L’essere diventato il segretario della Fiom ne ha segnato la formazione sindacale. E l’essersi poi «laureato» con la tesi vincente della battaglia per i diritti dei lavoratori di Pomigliano contro la Fca di Marchionne, lo ha definitivamente promosso a leader nazionale.
Maurizio Landini eredita una Cgil che ha saldamente tenuto il fronte della battaglia contro il jobs act e le politiche del Pd renziano. La Cgil di Camusso, con la Carta dei diritti e i referendum, ha aperto un processo, teorico e politico, urgente e necessario a tenere tutti e due i piedi in un mondo del lavoro segnato da precarietà e salari di povertà.
L’esito del congresso è anche un buon esempio di unità, si direbbe più unico che raro di questi tempi magri per la sinistra nel nostro paese. Buono perché non governato dai personalismi e perché basato su una condivisione non formale del documento congressuale.
Il battesimo da segretario Landini lo celebrerà in piazza, nella prossima manifestazione unitaria con Cisl e Uil contro la manovra di bilancio del governo.
Si può immaginare facilmente che continuerà a fare proposte e a chiedere confronti con tutte le forze sociali e politiche. Lo ha sempre fatto (attirandosi accuse di renziano e grillino a seconda del momento) da segretario della Fiom tanto più lo farà da segretario della Cgil.
Il vecchio collateralismo è finito da un pezzo e la battaglia contro una crescita senza sviluppo, contro le diseguaglianze, la feroce precarietà, contro il ricatto tra salario e salute è una bussola che Maurizio Landini ben conosce. Il Pd rottamato dalle riforme renziane come i 5Stelle sfigurati dall’alleanza con la destra di Salvini, avranno di sicuro un interlocutore attento, ma anche un osso duro che non farà sconti.
il manifesto 25.1.19
Italia in prima fila nella guerra Usa all’Iran
Medio Oriente. Gli Usa con Israele cercano di convincerci che i mali del mondo sono l’Iran e la Siria di Assad. Quindi è probabile che useranno anche la basi Usa in Italia per condurre questa guerra. Cosa hanno da dire in proposito i nostri sovranisti? Ovviamente nulla, in particolare Salvini che nella sua visita in Israele ha dato il suo pieno appoggio a Benjamin Netanyahu
di Alberto Negri
Non contenti del vaso di Pandora scoperchiato in Iraq nel 2003 con la «bufala» delle armi di distruzione di massa di Saddam, gli Usa con Israele cercano di convincerci che i mali del mondo sono l’Iran e la Siria di Assad. Quindi è probabile che useranno anche la basi Usa in Italia per condurre questa guerra.
Cosa hanno da dire in proposito i nostri sovranisti? Ovviamente nulla, in particolare Salvini che nella sua visita in Israele ha dato il suo pieno appoggio a Benjamin Netanyahu, il premier in piena campagna elettorale. È in questo quadro che vanno letti gli attacchi aerei e missilistici israeliani all’aereoporto di Damasco e l’inevitabile reazione della Siria, il maggiore alleato dell’Iran, che in sede Onu si è detta pronta a replicare attaccando il Ben Gurion di Tel Aviv. Mentre saliva la tensione in Siria e ai confini con il Libano, si sono anche incontrati a Mosca Erdogan e Putin.
Il presidente russo intende contenere le mire di Erdogan, dare una mano ai curdi in vista di un ritiro americano, che per altro non è ancora iniziato, trasferire a Damasco il controllo dei territori a Est dell’Eufrate e liberare Idlib, roccaforte del Nord dove sono avanzati i gruppi jihadisti affiliati ad Al Qaida.
Cosa dobbiamo aspettarci? Il futuro è scritto nel discorso del Cairo del segretario di Stato Mike Pompeo: «Il vero nemico in Medio Oriente è l’Iran», quindi si prepara a convocare a febbraio una riunione in Polonia anti-iraniana.
Insomma serra le file della propaganda per indicare l’Iran, alleato di Assad e degli Hezbollah libanesi, come il prossimo bersaglio di quell’Occidente che ogni sette-otto anni ha bisogno di sferrare una guerra per affermare il primato del suo complesso militare-industriale di cui la politica, come disse Frank Zappa, è la parte di intrattenimento.
Potremmo adesso farci qualche domanda: vi sentite per caso minacciati dall’Iran? L’Iran vi ha attaccato o ha inviato qui un commando di terroristi? Certo che no. Ma questo non ha nessuna importanza. L’Iran è nemico degli Usa e di Israele, quindi anche un vostro nemico.
Non ha forse l’Iran firmato nel 2015 un accordo internazionale cui anche l’Italia partecipa con l’Unione europea, la Russia e la Cina? Che prove ha portato l’America di Trump sulla violazione di questo accordo da cui è uscita? Nessuna. Eppure paghiamo di tasca nostra le sanzioni Usa con perdite consistenti del nostro commercio estero e l’Unione europea esita ancora a mettere in campo un meccanismo di aggiramento delle sanzioni. L’impressione è che gli Usa stiano per confezionare sull’Iran un’altra bufala, come quella di Colin Powell sulle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein. Se andate a vedere il film
dedicato a Dick Cheney vi fate un’idea di come si fa.
L’Unione europea assiste a questo duello muta come una tomba per non irritare troppo Erdogan, custode, ben pagato, di tre milioni di rifugiati siriani. E lui il nostro «Muro» orientale. A combattere questa guerra contro Teheran e i suoi alleati siriani e Hezbollah in questa prima fase non è direttamente Washington: ci pensa Israele, il gendarme americano della regione, con i soldi dei sauditi, con tanti saluti ai diritti umani. Dopo avere distrutto l’Iraq di Saddam nel 2003 e contribuito ad affondare la Libia di Ghedddafi e la Siria, a destabilizzare l’intero Medio Oriente e il Mediterraneo, a bombardare insieme ai sauditi i civili in Yemen, lavandosi velocemente le mani sporche di sangue, il segretario di Stato Usa Pompeo, dice che il nemico è l’Iran. Ma agli Stati Uniti che dovremmo fare per avere provocato in questo ultimo decennio centinaia di migliaia di morti e qualche dozzina di milioni di profughi?
Sono loro i veri destabilizzatori del Mediterraneo, quelli che hanno scoperchiato il vaso di Pandora. In Siria, proprio grazie all’Iran, alleato di Assad, agli Hezbollah libanesi e, soprattutto, all’intervento della Russia di Putin, agli Stati Uniti non è riuscito l’ennesimo disastroso cambio di regime che come quelli precedenti in Iraq e in Libia – qui con l’attivismo decisivo della Francia e della Gran Bretagna – hanno sprofondato nel marasma un’intera regione e aperto le porte a nuove migrazioni.
Agli Usa ogni tanto bisogna rinfrescare la memoria soprattutto quando si scagliano contro Teheran. Se l’Iran sciita è diventato in Iraq un Paese chiave questo è stato dovuto proprio all’iniziativa di Bush junior di far fuori il sunnita Saddam Hussein. E meno male che dopo il ritiro americano dall’Iraq del 2011 deciso da Obama, erano rimaste sul terreno le formazioni iraniane dei pasdaran comandate dal generale Qassem Soleimani: quando nel giugno 2014 l’Isis di Al Baghdadi ha conquistato Mosul, l’esercitò iracheno si sbandò completamente e furono gli iraniani con le milizie sciite a impedire che il Califfato arrivasse alle porte di Baghdad mentre gli Stati Uniti non muovevano un dito.
Questa è la cronaca dei fatti. Pompeo nel suo discorso del Cairo non ha neppure citato il caso di Jamal Khashoggi, il giornalista saudita ammazzato a Istanbul su ordine dall’erede al trono di Riad Mohammed bin Salman, a conferma del sostegno al regno wahabita, il più retrogrado del Medio Oriente, e del fatto che democrazia e diritti umani non sono le vere discriminanti della politica Usa.
Se c’è uno stato contro il quale puntare il dito per avere favorito estremismo e destabilizzazione quello è proprio l’Arabia Saudita che fa di tutto per distruggere anche lo Yemen. È a questa monarchia assoluta che dalla Sardegna arrivano le bombe che massacrano i civili yemeniti fabbricate dalla tedesca Rwm.
E così siamo pronti a dare anche noi il nostro contributo alla guerra contro l’Iran. Non dobbiamo fare nulla per essere dalla parte «giusta». Basta chiudere un occhio sulle 59 basi Usa in Italia, le navi e gli aerei, i 13mila militari americani di stanza qui e le 50 testate nucleari che loro controllano. E il gioco è fatto per la nuova tragica bufala americana.
il manifesto 25.1.19
La memoria di Giulio, qualcosa per cui vale la pena combattere
Ognuno, come può, renda la memoria di Giulio «attiva». Per evitare che diventi solo un rituale e per trasformare quel ricordo in lotta concreta a favore dei diritti umani, ovunque nel mondo
di Federica Graziani, Luigi Manconi
Sono trascorsi precisamente tre anni da quel crudele 25 gennaio 2016 che registrò la scomparsa di Giulio Regeni dalla stazione Al Buhuth della metropolitana del Cairo. Come tutti gli anniversari, anche questo potrebbe avere il destino di stiepidire sotto una osservanza solo rituale o potrebbe riempirsi di promesse e belle speranze, con il risultato di essere una ricorrenza ossequiosa e vuota insieme.
La distanza delle date che, giorno dopo giorno, si avvicendano con il loro cumulo di fatti rischia insomma di separarci sempre di più dalla vicenda materiale di Giulio Regeni, sbiadendone il ricordo e illanguidendone l’urgenza. Come evitarlo? Un modo è quello di porsi questa domanda: a distanza di trentasei mesi dalla scomparsa di Regeni, che cosa è cambiato?
Verrebbe da dire: quasi nulla, se consideriamo esclusivamente il piano politico-diplomatico e istituzionale. Ancora oggi non ci sono stati quei «nuovi e importanti progressi nella cooperazione tra organi investigativi sul caso Regeni».
Quei «progressi» evocati nelle primissime dichiarazioni dell’attuale governo appena insediato e che, secondo quello stesso governo, sarebbero stati ottenuti in virtù del «graduale rafforzamento del dialogo bilaterale con le autorità egiziane». Sul versante delle indagini, non sono emerse novità decisive e l’azione diplomatica, nonostante il rientro dell’ambasciatore deciso dal precedente esecutivo, non ha ottenuto finora risultati concreti producendo di fatto tre anni di stallo. Ma se guardiamo altrove, nelle pieghe della società italiana, si rintraccerà altro.
Certo, non si pretende qui di dettare l’agenda delle prossime azioni diplomatiche dei due governi, né di modificare la politica estera italiana di ordire l’architettura perfetta di un piano che porti allo smantellamento completo del regime dispotico egiziano. E, d’altro canto, non si sottovaluta neanche la miriade di esperienze quotidiane che formano gli affanni e i pensieri di tutti i giorni, di tutti noi.
Quel che chiediamo in questa giornata è di continuare a scavare un sentiero alla ricerca della verità. Ognuno come può. C’è chi ricopre ruoli istituzionali e ha il dovere e i mezzi per aprire quei varchi politico-diplomatici che reclamino senza ombre l’accertamento delle responsabilità giudiziarie nella sparizione, nella tortura e nell’uccisione di Giulio Regeni. E c’è chi può partecipare a una delle tante iniziative promosse quest’oggi in diverse città italiane o limitarsi a indossare il braccialetto giallo che reca la frase «Verità per Giulio Regeni».
Accostare due capacità tanto distanti di intervento e di adesione a quella ricerca di giustizia sembra un espediente beffardo e irriverente. Eppure sono due risposte alla stessa presenza di quel nome, e di ciò che evoca di sofferenza e di male assoluto. Ma il nome di Giulio Regeni evoca anche enormi questioni di diritto e di libertà. Siamo eredi di questa ricchezza incalcolabile, di un patrimonio che tiene insieme la tutela irrinunciabile della persona, della sua incolumità e della sua dignità e la lotta per affermare i diritti umani, ovunque: nei regimi totalitari così come all’interno degli stati democratici.
L’ultima canzone che Giulio Regeni ha ascoltato prima di scendere le scale della metropolitana del Cairo tre anni fa è A Rush of Blood to the Head, dei Coldplay. Un verso di quella canzone dice: «Se mi puoi dire qualcosa per cui vale la pena combattere». La figura, densa di vita, che ricordiamo oggi e il calvario di dolore che lo ha ucciso e che continua a uccidere centinaia su centinaia di egiziani non smette di suggerirci quel qualcosa per cui vale la pena combattere.
Il Fatto 25.1.19
Boom di tessere per +Europa: gli ex dc spingono Della Vedova
La lista di Bonino e Tabacci diventa un partito con Marco Cappato: in arrivo le truppe cammellate di Ferrandelli da Palermo
di Marco Palombi
Più Europa, checché se ne pensi, è per così dire un ristorante in un punto di passaggio: alle Europee, complice lo sfaldamento del Pd e la polarizzazione indotta dal governo gialloverde, rischia seriamente di aumentare i suoi (pochi) voti e superare la soglia di sbarramento del 4%. Per questo è interessante il congresso fondativo che si apre oggi a Milano e, per questo, per la prima volta nelle assise di una formazione della “galassia radicale” si vede agire l’abbozzo di un apparato partitico basato sul controllo degli iscritti con le relative accuse ai “signori delle tessere” che poi sarebbero Bruno Tabacci e il neo-arrivato Fabrizio Ferrandelli da Palermo.
Andiamo con ordine. Da oggi inizia la tre giorni da cui uscirà il nuovo partito con l’elezione degli organi interni e del primo segretario. Le liste presentate per l’Assemblea sono 10, i candidati alla massima carica 3 dopo l’esclusione della “sovranista” Paolo Renata Radaelli, aspirante “piùeuropeista” che sembra però provenire da un’area culturale più vicina ad Almirante (e oggi a Salvini) che a Spinelli: come che sia, Radaelli è stata esclusa dopo l’annullamento della sua iscrizione, avvenuta in blocco con altre e attraverso un solo pagamento.
La lista che la sosteneva, però è ancora in corsa, intitolata allo slogan renziano “Europa sì, ma non così” e qualcosa peserà nel congresso: se non un tentato dirottamento almeno una presa in giro, come quella più scoperta della lista congressuale “+Europa shitposting”, che “sostiene l’idea di un mondo nel quale le coppie transessuali con bambini acquistati su Amazon possano difendere liberamente i propri campi di papaveri da oppio con dei fucili d’assalto M4”.
A segretario si candidano Benedetto Della Vedova, finora coordinatore, l’ex europarlamentare Marco Cappato e il deputato Alessandro Fusacchia. I favoriti sono i primi due, ma in realtà è difficile capire cosa succederà all’hotel Marriott: era previsto che si arrivasse al congresso con meno di duemila iscritti, invece in pochi giorni hanno superato quota 5.000, complice l’adesione alla causa europeista del movimento siciliano I Coraggiosi, cioè del già citato Ferrandelli, classe 1980, ex consigliere comunale a Palermo con Italia dei Valori, poi candidato della sinistra arcobaleno, del Pd, di Forza Italia… Ferrandelli, annunciato a Milano con 200 seguaci, guida la lista congressuale “Stiamo uniti in Europa” in cui non mancano i molti ex democristiani di Centro democratico, uno dei soggetti fondatori di +Europa, da Bruno Tabacci in giù.
Questo bizzarro agglomerato sostiene la candidatura di Della Vedova insieme alle liste “Italia europea” e “Partito dell’orgoglio europeista”, rassemblement di tecnici a vario grado di conservatorismo (Giuliano Cazzola, Ernesto Auci, eccetera). Questa composita area congressuale sogna, in sostanza, un partito capace di egemonizzare il centrosinistra costruendosi come forza di governo.
Certe pratiche della fu “partitocrazia” non potevano passare sotto silenzio in zona radicale. La lista “Europa futura” (Riccardo Magi, Luigi Manconi e altri) mercoledì ha scritto parole assai dure sull’andazzo congressuale citando due recenti “fatti politici rilevanti”: l’accordo tra Ferrandelli, Tabacci e Della Vedova e “un improvviso e inaspettato incremento delle iscrizioni, più che raddoppiate in due settimane, e riconducibili a territori dove i risultati elettorali di +Europa sono stati fra i peggiori”.
Semplicemente, è la tesi, così non si può tenere un congresso democratico, sede di una discussione che dia un indirizzo politico collettivo al nuovo soggetto: “Ci sono molte istanze che possono unire oggi chi non ritiene che +Europa debba essere schiacciata dai campioni delle tessere”. Per fare questo però – è la proposta condivisa con la lista “Lsd” che sostiene Cappato – bisogna fare della tre giorni che parte oggi solo un “primo atto” congressuale: lasciare la possibilità a tutti gli iscritti presenti di parlare (se ne aspettano quasi 1.500), ma rinviare l’elezione di segretario, assemblea e Direzione a “una sessione successiva”.
Difficile che si arrivi a uno stop (la proposta è già stata respinta in Consiglio), il treno è già partito e a fine maggio ci sono le Europee, alle quali il partito di Emma Bonino (e di Bruno Tabacci) dovrà decidere come presentarsi: una nebulosa in cui si agita il listone proposto da Carlo Calenda, il rapporto abbozzato in questi mesi coi Verdi, quello competitivo col Pd post-renziano. Tutti temi su cui, alla fine, potrebbero decidere le nuove tessere o, meglio, i relativi signori.
Repubblica 25.1.19
I latitanti in Francia
Terroristi, Parigi è pronta a riconsegnarli all’Italia
di Anais Ginori
PARIGI Il passo formale non è stato ancora fatto ma ormai è questioni di giorni. I tecnici del ministero della Giustizia francese e gli omologhi italiani sono già in contatto per concordare il percorso che porterà il governo a chiedere l’estradizione di alcuni italiani condannati per reati di terrorismo e rifugiati in Francia. La procedura dovrebbe partire a febbraio, dopo che si sarà svolta la riunione di lavoro prevista negli uffici di place Vendôme, sede del Guardasigilli, con i consiglieri tecnici inviati dal ministro Alfonso Bonafede. Nonostante la crisi diplomatica tra Francia e Italia, la ministra Nicole Belloubet continua a dirsi disponibile a esaminare «caso per caso» le domande dell’attuale governo.
La conferma di quest’apertura sono le discussioni preliminari in corso tra Roma e Parigi. I frequenti scambi hanno già portato a qualche risultato. Dalla lista di quindici nomi, comunicata dall’Italia subito dopo l’arresto di Cesare Battisti, i magistrati del ministero francese hanno per esempio suggerito di togliere il nome di Marina Petrella, l’ex brigatista arrestata nel 2008 per cui alla fine il decreto di estradizione è stato annullato per ragioni umanitarie.
La lista di cui si discute si è ormai ristretta a quattordici nomi: Giovanni Alimonti, Luigi Bergamin, Roberta Cappelli, Enzo Calvitti, Paolo Ceriani Sebregondi, Salvatore Cirincione, Maurizio Di Marzio, Paola Filippi, Gino Giunti, Giorgio Pietrostefani, Ermenegildo Marinelli, Sergio Tornaghi, Raffaele Ventura, Enrico Villimburgo. I tecnici francesi devono prima di tutto occuparsi di valutare in via preliminare l’ammissibilità delle richieste di estradizione portate da Roma. Come spiega Youssef Badr, magistrato e portavoce del ministero della Giustizia, «bisognerà verificare la regolarità giuridica » delle domande. Per la maggior parte dei casi esistono già dossier giudiziari su cui si erano intavolate discussioni con Parigi all’inizio degli anni Duemila. All’epoca era il leghista Roberto Castelli alla Giustizia e l’omologo francese era l’esponente di destra Dominique Perben.
« Avevamo deciso di voltare pagina con la Dottrina Mitterrand senza nessuna ambiguità» ricorda adesso Perben parlando con Repubblica.
Nominato Guardasigilli nel maggio 2002, fu lui a dare il via libera dopo pochi mesi all’estradizione lampo di Paolo Persichetti, l’unico latitante mai rinviato dalla Francia. Sempre il ministro Perben non si oppose alla richiesta di estradizione di Cesare Battisti nel 2004. « Purtroppo l’autorità giudiziaria concesse la libertà vigilata — ricorda — e Battisti ne approfittò per scappare».
In quegli anni, quando all’Eliseo c’era Jacques Chirac, ci furono diverse riunioni tra Roma e Parigi per mettere a punto i dossier giudiziari di altri latitanti. « Sul principio dell’estradizione — prosegue l’ex ministro francese — eravamo d’accordo, siamo sempre stati disponibili a lavorare insieme » . Dopo la fuga di Battisti, le altre procedure non andarono avanti. «C’erano spesso irregolarità giuridiche — conclude Perben — oppure non eravamo sicuri che alcune persone si trovassero effettivamente ancora in Francia».
È su questi dossier pregressi che i tecnici italiani vogliono appoggiarsi. Non sarà così facile. Il portavoce del Guardasigilli sottolinea che sulle richieste inviate negli anni Duemila i magistrati presso il Ministero dovranno «verificare la regolarità giuridica, la non prescrizione dell’azione pubblica o della pena secondo il diritto italiano » . Se la domanda si rivelerà giuridicamente fondata, verrà trasmessa alla procura generale, che a quel punto dovrà investire la Chambre de l’instruction, la sezione della Corte d’appello che si occupa delle richieste di estradizioni. In caso di accettazione della domanda, allora il governo dovrà decidere se adottare un decreto di estradizione. La battaglia giuridica si annuncia lunga e complessa.
il manifesto 25.1.19
Le pistole fumanti di al-Sisi le vendiamo noi
Italia/Egitto. Secondo un rapporto Ue, nel 2017 Roma ha autorizzato la vendita di 7,5 milioni di euro in armi al Cairo e ne ha esportate 17,7 milioni. Nuovo boom nel 2018. A metà gennaio al Copasir il procuratore Pignatone ha denunciato lo stallo nelle indagini su Regeni. Ma ci sono i primi nomi
di Chiara Cruciati
Lo scorso agosto, in veste di ministro dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio volava al Cairo (terzo di una sfilza, dopo i ministri Moavero Milanesi e Salvini). Con al-Sisi ha discusso dello sviluppo dei rapporti commerciali ed economici tra i due paesi del Mediterraneo. Sono oltre 150 le aziende italiane attive al Cairo e l’interscambio nel 2017 ha toccato quota 4,7 miliardi di euro (+2,5% rispetto al 2016) che fanno di Roma il quinto esportatore in Egitto e il secondo importatore.
In attesa dei dati del 2018, ad agosto Di Maio aveva individuato il target: superare i 5 miliardi, soprattutto in vista della crescita demografica egiziana e dell’avvio delle estrazioni di gas naturale da parte dell’Eni nel mega giacimento sottomarino di Zohr. Tra i più assidui frequentatori del palazzo presidenziale egiziano c’è Claudio Descalzi, ad Eni e punta di lancia del business che avanza compatto.
In tale contesto, la verità sull’omicidio di Giulio Regeni è d’intralcio. Per tutti e tre i governi dal 2016 a oggi. Lo dice la Relazione europea sull’export di armamenti, pubblicata nella Gazzetta ufficiale della Ue il 14 dicembre scorso: nel 2017 Roma ha autorizzato l’esportazione in Egitto di 7.538.209 euro in armi mentre le aziende con licenza hanno esportato 17.764.174 euro in forniture militari.
«Sia il governo precedente che l’attuale – ci spiega Giorgio Beretta dell’Osservatorio sulle Armi Opal di Brescia – hanno continuato a fornire armi al regime di al-Sisi anche dopo l’omicidio di Giulio Regeni. Dalla Relazione Ue risulta che nel 2017 il governo Gentiloni ha autorizzato l’esportazione all’Egitto di armi leggere, agenti chimici e antisommossa e apparecchiature elettroniche».
Nello specifico le licenze di export hanno riguardato armi ad anima liscia (38.674 euro), munizioni per armi leggere (3.599.536 euro), bombe, missili e siluri (18.250 euro), agenti chimici, biologici e antisommossa (2.848.921 euro) e apparecchiature elettroniche e spaziali ( 852.828 euro).
«Sempre nel 2017 il governo Gentiloni ha permesso forniture di materiali militari all’Egitto per 17.764.174 euro – continua Beretta – superando ampiamente le esportazioni negli anni precedenti all’omicidio Regeni. L’attuale governo Conte non ha interrotto queste forniture». Lo dicono i dati Istat: nel mese di luglio 2018 si è registrato il boom, quasi 2 milioni di euro di armi vendute da aziende italiane all’Egitto.
Ora andrà seguito il probabile incremento dopo la fiera dedicata alla produzione militare che New Cairo ha ospitato tra il 3 e il 5 dicembre: sponsorizzata da esercito egiziano e presidenza della Repubblica, la Expo Defence Egypt ha visto la partecipazione di oltre 300 espositori, tra cui le italiane Beretta, Fincantieri, G&G, Iveco, Leonardo (che ha già firmato un contratto per fornire radar per la difesa), Telegi, Tesylab.
Un intreccio insano che fa il paio con le parole che il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone ha affidato dieci giorni fa al Copasir: a tre anni dalla scomparsa di Giulio Regeni al Cairo, la situazione investigativa è a un punto morto. L’Italia ha fatto tutto il possibile, ha aggiunto il capo degli investigatori della Procura di Roma, ma l’Egitto non collabora. Nulla di nuovo, Piazzale Clodio lo ripete da anni, indefesso come indefesso è stato finora il lavoro per giungere alla verità. L’omicidio – barbaro, inimmaginabile – di Giulio è questo. Un ripetersi di frasi, dichiarazioni, prese di posizioni. Granitiche nonostante le indagini abbiano dato un nome ad alcuni dei suoi aguzzini e nonostante i palesi depistaggi egiziani.
Ogni attore ripete la sua lezioncina: il governo italiano (qualunque esso sia) continua a considerare Il Cairo del golpista al-Sisi, il più brutale e disfunzionale regime che l’Egitto moderno abbia avuto, «partner ineludibile» (l’ex ministro degli Esteri alfano) o «partner speciale» (l’attuale vicepremier Di Maio). Il Cairo ripete che quello di Giulio è «un caso isolato», che le autorità politiche e giudiziarie egiziane sono impegnate al massimo nella ricerca della verità e che comunque è tutto un complotto di agenti stranieri (o erano i Fratelli Musulmani?) per minare gli storici rapporti tra i due paesi.
Ma c’è un terzo attore, questo davvero ineludibile. Anche questo ribadisce, dal 3 febbraio 2016, quando il corpo di Regeni fu ritrovato, identica posizione. È quella parte di Italia che vuole verità e giustizia. La famiglia di Giulio, le associazioni per i diritti umani, i cittadini, le piazze dei comuni colorate di «giallo-Giulio». E poi la Procura di Roma che è riuscita per quanto possibile a svicolare gli insabbiamenti del regime e a mettere nero su bianco almeno cinque dei 20 (forse 40) funzionari di polizia e servizi segreti coinvolti nel sequestro, la tortura e l’uccisione del giovane ricercatore. Sono i vertici della National Security Agency, la temibile agenzia di intelligence che ogni egiziano conosce e che nemmeno Tahrir è riuscita a seppellire.
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I numeri della repressione
20 giornalisti in carcere. Sono almeno 60mila i prigionieri politici e di opinione nel paese 39 condanne a morte eseguite da dicembre 2017 a marzo 2018. 29 egiziani in attesa nel braccio della morte 1530 casi di sparizioni forzate da luglio 2013, data del golpe, ad agosto 2018 3000 case distrutte in Sinai dall’esercito nel 2018 nella campagna anti-islamista
il manifesto 25.1.19
Sindacati e lavoratori sono ancora il nemico numero 1 del regime
Egitto. Licenziamenti, arresti, torture ma la mobilitazione non cessa e al-Sisi trema: i lavoratori sono stati tra i pochi a non abbassare la testa anche dopo il colpo di stato militare del 2013
di Pino Dragoni
Il 30 gennaio 2011 in piazza Tahrir, nell’epicentro della rivolta, veniva fondata la prima federazione egiziana dei sindacati indipendenti ( sui cui Giulio Regeni incentrò la sua ricerca). Pochi giorni dopo, l’8 febbraio, lo sciopero generale proclamato dalla federazione paralizzava l’Egitto dando la spallata finale al regime di Mubarak.
Oggi quei giorni sembrano lontanissimi. Da allora tutti i governi che si sono succeduti hanno sempre osteggiato le mobilitazioni dei lavoratori e il movimento sindacale indipendente che si andava affermando. Oggi al-Sisi sembra aver imparato la lezione, e dopo aver neutralizzato qualsiasi opposizione politica vuole spegnere definitivamente anche la miccia del movimento operaio.
“Cominciavamo a ottenere conquiste con i nostri scioperi, uno dopo l’altro. La gente imparava il potere della protesta”, dice un attivista citato in un recente rapporto dell’organizzazione Front Line Defenders, interamente dedicato alla repressione dei lavoratori. “Nel giro di dieci anni, Mubarak è caduto. È chiaro che per al-Sisi i lavoratori sono il nemico numero uno”.
“Gli attivisti che hanno partecipato agli scioperi di fabbrica sin dagli anni ’60 – continua il rapporto – raccontano di non aver mai assistito in tutta la loro vita a questo livello di violenza e ritorsioni”. I lavoratori sono stati tra i pochi a non abbassare la testa anche dopo il colpo di stato militare. È vero, le proteste sono diminuite drasticamente a causa della repressione, ma le misure durissime di austerità imposte dal Fondo Monetario hanno scatenato continue mobilitazioni sui salari.
“Il regime è terrorizzato dalla mobilitazione dei lavoratori e dalle proteste sociali diffuse”, spiega al manifesto Moataz el-Fegiery, ricercatore 37enne tra gli autori del rapporto, che risponde al telefono da Dublino, sede di Front Line Defenders. “Rappresentano una minaccia anche più pericolosa degli attivisti al Cairo o delle grandi organizzazioni per i diritti umani”.
Il rapporto è un lungo elenco di violazioni: arresti, licenziamenti di massa, trasferimenti forzati, minacce, con una particolare attenzione agli aspetti di genere e alle donne, come protagoniste delle lotte e doppiamente vittime. Ma lo studio va anche oltre la denuncia, per analizzare da vicino il sistema di potere egiziano e l’intreccio sempre più forte tra esercito, politica ed economia. I militari in Egitto hanno sempre avuto un ruolo fondamentale, ma da quando al-Sisi è al potere il loro coinvolgimento negli affari del paese è cresciuto a dismisura.
Costruzioni, industrie manifatturiere, trasporti, agricoltura: l’esercito ha allungato i suoi tentacoli in tutti i settori strategici, direttamente tramite società che dipendono dal ministero della Difesa, oppure indirettamente attraverso una nuova élite di ex alti ufficiali con le loro imprese private. Di pari passo è andata la militarizzazione della giustizia, della politica e dei media.
Per i lavoratori (civili) alle dipendenze dell’esercito questo significa in caso di proteste essere soggetti direttamente ai tribunali militari. Lo sanno bene i 26 operai dei cantieri navali di Alessandria ancora sotto processo, e i loro 900 colleghi rimasti senza lavoro per uno sciopero del maggio 2016. Le mobilitazioni dei lavoratori “sfidano il regime sul piano politico e su quello economico allo stesso tempo, e occupano uno spazio fisico ed economico cruciale in un paese in difficoltà,” spiega il rapporto.
“Prima riuscivamo a ottenere qualche piccolo risultato. Oggi non più – dichiara Fatma Ramadan, storica attivista sindacale citata nel rapporto – Il governo vuole mandare un messaggio, far capire che oggi se scioperi non conquisti diritti. Ti becchi soltanto licenziamenti e processi militari”. E anche le tattiche repressive del regime sono cambiate. “Gli arresti legati alle lotte dei lavoratori sono casuali. Non riusciamo più a decifrarne la logica, a decidere quali attività fare e quali invece escludere. È inutile elaborare una strategia sotto un regime irrazionale. Il messaggio delle autorità è semplicemente che chiunque può essere arrestato, in qualsiasi momento. Molti dei miei colleghi – conclude Ramadan – sono ormai impauriti e inattivi”.
Dopo la pubblicazione del rapporto di Front Line Defenders alcuni sindacalisti sono stati interrogati dalle forze di sicurezza in merito a una presunta collaborazione allo studio, e lo stesso Moataz el-Fegiery (che ormai danni è in esilio all’estero) è stato oggetto di una campagna diffamatoria in una TV egiziana.
Ma in una cosa al-Sisi non è riuscito: cancellare la cultura dei diritti umani. “Anzi – spiega el-Fegiery – con la rivoluzione c’è stato un proliferare di rivendicazioni. C’è una nuova generazione di attivisti, oggi ventenni, che sono anche più radicali della mia generazione. Per loro l’eredità della rivoluzione è molto forte”. E anche se in tanti hanno deciso di abbandonare la militanza, tutti gli altri stanno sperimentando nuove tattiche per combattere le loro battaglie, in stretta collaborazione tra chi è rimasto in patria e chi vive in esilio.
Infine il rapporto non risparmia l’Europa, e denuncia la complicità degli stati. Che possono fare molto di più per mettere al-Sisi alle strette. A cominciare dal traffico di armi e dai rapporti economici, fino a iniziative molto più semplici, come assistere e monitorare i processi agli attivisti oppure incontrare i difensori dei diritti umani. La mossa con cui Fico ha interrotto le relazioni tra i parlamenti italiano ed egiziano ad esempio, per quanto simbolica, “ha provocato un grande imbarazzo al Cairo, scatenando una forte reazione – secondo El-Fegiery – L’Italia non deve abbandonare questa battaglia”. Lo deve a Giulio Regeni, ma lo deve anche a tutti i difensori dei diritti umani in Egitto.
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Cronologia – Dalla rivoluzione alla restaurazione
25 gennaio 2011. Milioni di egiziani scendono in piazza al Cairo e nel resto del paese al grido di «Pane e libertà». Chiedono le dimissioni del dittatore Hosni Mubarak, al potere ininterrottamente dal 1981.
1 febbraio 2011. In tv Mubarak promette di non candidarsi più alla presidenza ma rifiuta di dimettersi. Sono già centinaia i morti nella repressione.
11 febbraio 2011. Mubarak si dimette. La presidenza ad interim passa al Supremo Consiglio delle Forze Armate.
28 novembre 2011. Alle elezioni i Fratelli Musulmani ottengono la maggioranza.
16-17 giugno 2012. Al ballottaggio delle presidenziali, vince con il 51,73% il candidato della Fratellanza Musulmana, Mohammed Morsi. Il 30 giugno giura: Morsi è il primo islamista e il primo civile eletto presidente in Egitto.
12 agosto 2012. Morsi nomina il generale Abdel Fattah al-Sisi, ex capo dell’intelligence militare, suo ministro della Difesa.
22 novembre 2012. Il governo islamista emana decreti che attribuiscono alla presidenza poteri straordinari e immunità totale, provocando nuove proteste.
Aprile 2013. Nasce il movimento Tamarod («ribelle»): chiede nuove elezioni e chiama a manifestazioni di massa contro il governo dei Fratelli Musulmani.
20 giugno 2013. Dopo mesi di proteste, in occasione del primo anniversario dal giuramento di Morsi, milioni di egiziani scendono in piazza: 8 morti.
3 luglio 2013. L’esercito, guidato da al-Sisi, depone Morsi e lo mette ai domiciliari. La costituzione viene sospesa. I sostenitori di Morsi protestano contro il golpe.
14 agosto 2013. Il sit-in dei Fratelli Musulmani a Rabaa al Cairo è attaccato da polizia ed esercito. Un massacro: si stimano tra 800 e mille morti.
25 dicembre 2013. Il governo mette la Fratellanza Musulmana fuori legge.
26-28 maggio 2014. Presidenziali, l’ex generale al-Sisi è eletto con il 97%.
25 gennaio 2016. Il giovane ricercatore italiano Giulio Regeni scompare al Cairo. Il suo corpo, martoriato dalle torture, viene ritrovato il 3 febbraio lungo l’autostrada tra Il Cairo e Alessandria.
15 aprile 2016. In migliaia manifestano contro il trasferimento delle isole di Tiran e Sanafir, sul Mar Rosso, all’Arabia saudita. Sono le prime proteste di massa dall’insediamento di al-Sisi.
11 novembre 2016. Il Fondo Monetario Internazionale approva un prestito da 12 miliardi di dollari a favore dell’Egitto in tre anni, in cambio di riforme di austerity che nei mesi successivi colpiranno le fasce più deboli della popolazione, con un incremento stellare dei tassi di inflazione e di povertà.
8 aprile 2016. Alla luce dei numerosi depistaggi egiziani, l’Italia richiama a Roma l’ambasciatore in Egitto Massari.
14 agosto 2017. L’Italia nomina un nuovo ambasciatore nonostanze l’assenza di progressi nelle indagini sul caso Regeni. Cantini vola al Cairo il mese dopo.
2 aprile 2018. Al-Sisi viene rieletto con il 97% dei voti in elezioni farsa, senza reali avversari e con un’affluenza bassissima, al 41,5%.
4 dicembre 2018. La Procura di Roma iscrive nel registro degli indagati cinque cittadini egiziani, funzionari e vertici dei servizi di intelligence del Cairo.
Corriere 25.1.19
«L’Italia ha violato i diritti di Amanda Knox»
La condanna della Corte di Strasburgo dopo il caso di Perugia. Risarcimento di 18.400 euro
di Ivo Caizzi
BRUXELLES La statunitense Amanda Knox, incarcerata per anni e poi assolta nel clamoroso procedimento per l’omicidio a Perugia della sua amica britannica ventunenne Meredith Kercher, vide violato il suo diritto alla difesa.
Lo ha sentenziato la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, che ha parzialmente accolto le sue denunce sugli interrogatori degli investigatori relativi alla sua condanna per diffamazione a tre anni per aver accusato il barista congolese Patrick Lumumba, in carcere due settimane e poi prosciolto. «Sono stata interrogata per 53 ore in cinque giorni, senza un avvocato, in un linguaggio che capivo forse come un bambino di 10 anni», ha lamentato Knox dagli Stati Uniti, ricordando le pressioni psicologiche della polizia e commentando la sentenza di Strasburgo, che condanna lo Stato italiano a risarcirle 18.400 euro (rispetto alla richiesta di oltre due milioni).
La Corte di Strasburgo ha stabilito che la studentessa Amanda «non ottenne una indagine in grado di fare luce sui fatti e le responsabilità in relazione alle sue denunce di essere stata maltrattata il 6 novembre 2007, quando era trattenuta dalla polizia».
Il governo italiano non è riuscito a dimostrare che «l’impedimento del ricorso a un avvocato, nell’interrogatorio della polizia del 6 novembre 2007 alle 5.45 del mattino, non abbia irrimediabilmente compromesso la correttezza dell’intero procedimento». In più non ha verificato «la condotta di una interprete, che aveva adottato una attitudine materna» e di «mediazione» verosimilmente per influenzare Amanda.
Ma gli eurogiudici aggiungono di non aver trovato prove certe che la studentessa «abbia subito il trattamento inumano o degradante» denunciato.
Knox e il suo fidanzatino Raffaele Sollecito furono processati per omicidio e prosciolti definitivamente in Cassazione, dopo controverse condanne e assoluzioni nei precedenti gradi di giudizio. Unico responsabile della morte della giovane Meredith è stato giudicato l’ivoriano Rudy Guede, che sta scontando 16 anni in carcere e si è sempre dichiarato innocente.
La vicenda ebbe rilevanza internazionale sui giornali, in tv, con film e libri. Provocò pesanti accuse al sistema giudiziario italiano. Lumumba fu prosciolto dopo aver dimostrato di aver passato nel suo bar la notte dell’omicidio della studentessa britannica.
Il Fatto 25.1.19
L’America Latina s’è destra
Barricate e prigioni. Gli scontri a Caracas e, sotto, el Helicoide, l’ex centro commerciale fiore all’occhiello di Caracas divenuto poi centro di tortura della Sebin, il servizio di intelligence della polizia politica
di Guido Gazzoli
Dieci anni fa, il volto del Sudamerica era composto dai tratti indio di Evo Morales, quelli meticci di Hugo Chávez, quelli europei di Lula, tutti incorniciati dalla barba di Fidel Castro. E grande era il seguito delle loro figure dall’altra parte dell’Atlantico settentrionale. L’alba del 2019 sorge su un continente che ha cambiato completamente indirizzo politico e ideologico: il presidente indigeno è ancora in sella in Bolivia, ma la sua aura di sinistra si è molto appannata – offuscata anche dal presidente-contadino uruguaiano “Pepe” Mujica – i due giganti dell’America meridionale sono in mano a un liberista moderato (l’argentino Macrì) e a un iper-populista (il brasiliano Bolsonaro) e i due rivoluzionari “caraibici” Chávez-Castro, deceduti, sopravvivono abbracciati nell’immaginario, sempre meno collettivo, antiamericano.
La crisi venezuelana rappresenta solo l’ultimo atto della disgregazione del modello populista e progressista, che ha provocato politicamente una svolta verso un ritorno del liberalismo che ha investito gran parte dei Paesi del continente. Le ragioni del cambio, per fortuna avvenuto finora attraverso lo strumento elettorale, sono molteplici e differenti per ogni Paese, ma hanno due caratteristiche comuni: la concezione di “potere eterno” che ha ridotto in alcuni casi le garanzie democratiche e conseguentemente l’estrema corruzione che ha portato, complice anche la crisi mondiale, a un aumento della povertà. Nel 2003, l’elezione del sindacalista Lula costituì l’atto più significativo della svolta progressista sudamericana.
Chi pensava in un principio di “cubanizzazione” del Brasile venne presto smentito dai fatti, visto che “l’eterno perdente” (Lula era stato sconfitto in tutte le elezioni cui aveva partecipato) si rivelò un conciliatore di grande spessore politico puntando alla partecipazione di tutti i settori della società verso un cambio che, complice anche la situazione internazionale e la scoperta di ingenti giacimenti petroliferi, portò non solo nel giro di pochi anni il Paese tra le principali potenze economiche mondiali ma ridusse notevolmente la povertà: dopo l’India, il Brasile è la nazione dove si è registrata per anni la percentuale più alta di incremento dalle classi meno abbienti a quelle medie.
Scaduto il mandato, nel 2011 venne rimpiazzato dalla sua delfina politica nel PT (Partido do trabalhadores) Dilma Rouseff che purtroppo ha smentito le aspettattive. Lo scandalo del Lava jato, che ha coinvolto lo stesso Lula, la mutata situazione internazionale e l’insicurezza nel Paese l’hanno portata a decisioni che hanno trascinato il Brasile in una crisi totale, culminata con la destituzione di Rousseff e l’assunzione prima di Temer e successivamente del “duro” Bolsonaro eletto nell’autuno scorso ed entrato in carica il 1° gennaio.
Caso simile quello dell’Argentina, dove dopo la crisi del dicembre del 2001, nel 2003 assume la carica di presidente il peronista Nestor Kirchner. La soluzione dei problemi del debito del Paese con il Fmi fatta dal suo predecessore Eduardo Duhalde e il contemporaneo rincaro della soia, di cui l’Argentina è tra i principali produttori, nel mercato mondiale provocano anche qui un certo benessere ma anche la mancanza di uno sviluppo, dovuto principalmente all’utilizzo dei giganteschi introiti statali in una corruzione mai registrata nella storia (calcolata in 35 miliardi di euro dall’Università di Buenos Aires) del Paese e nella creazione di piani sociali concepiti come intercambio politico, fatti continuati anche durante la presidenza di sua moglie, Cristina Fernandez de Kirchner. Nel 2015 il liberale Mauricio Macri vince le elezioni, ma sia a causa della pesante situazione economica ereditata, sia per incapacità del suo governo, la situazione non migliora e le elezioni di quest’anno si svolgeranno in una Argentina con un’inflazione vicina al 50%.
Da sottolineare che nei casi di Cile e Uruguay, la grande tradizione democratica promuove da sempre un’alternanza di potere, sebbene la socialista Bachelet abbia perso le elezioni a causa della corruzione e la conduzione di Mujica in Uruguay non abbia brillato soprattutto a causa dell’incapacità dei suoi governi nelle scelte economiche del Paese.
Il Fatto 25.1.19
Il tic degl’imperialisti: disarcionare Maduro nuova farsa di Trump
L’ennesima ingerenza Usa, mascherata da “intervento umanitario”. Al-Sisi va bene, il leader bolivariano no
di Massimo Fini
L’avevamo scritto sul Fatto del 15 agosto 2017: “Il prossimo obiettivo è Nicolàs Maduro”. Ieri, dopo che il leader dell’opposizione parlamentare venezuelana Juan Guaidó si era autoproclamato presidente del Paese, Donald Trump è subito intervenuto non solo incoraggiando l’opposizione ma pronunciando la sinistra frase “tutte le opzioni sono sul tavolo”. Il che significa: intervento militare. Del resto erano mesi che altri importanti esponenti del governo americano, da Mike Pompeo a James Mattis, auspicavano un intervento armato in Venezuela in nome dei “diritti umani”, che in quel Paese sarebbero violati, e sobillando le forze armate venezuelane perché si ribellassero a Maduro. Quando sento parlare di “diritti umani” metto, metaforicamente, mano alla pistola. Perché, come la storia recente insegna, vuol dire che si sta per aggredire qualcuno.
Il metodo per eliminare leader sgraditi all’Impero americano, in genere socialisti, come per esempio Slobodan Milosevic, è sempre lo stesso, con qualche variante: prima si comminano sanzioni al Paese indesiderato, lo si strangola economicamente, nasce così uno scontento popolare e con esso un’opposizione che, sempre incoraggiata da fuori, si dà a manifestazioni più o meno violente. Prima di quelli degli ultimi giorni gli scontri fra sostenitori dell’opposizione e sostenitori di Maduro avevano causato in tutto 147 morti, equamente divisi fra le due fazioni. Si badi bene: non erano stati scontri con polizia o esercito, ma scontri fra fazioni politiche opposte. La reazione del governo venezuelano non deve essere poi, a differenza di quello che avviene nelle dittature propriamente dette o mascherate come quella di Putin in Russia, così truce se il leader dell’opposizione Juan Guaidó, sequestrato qualche giorno fa mentre era in auto con la moglie, dai servizi segreti, è stato liberato dopo poche ore e il governo ha affermato che “è stata un’iniziativa non autorizzata” e che punirà i responsabili. Maduro è stato rieletto per la seconda volta a maggio del 2018, col 70% dei consensi, e si è reinsediato due settimane fa.
L’opposizione sostiene che si sia trattato di elezioni taroccate, perché in lizza non c’erano validi oppositori di Maduro, perché si sospetta di gravi brogli e perché sarebbero stati violati alcuni articoli della Costituzione venezuelana che danno potere di intervento al presidente dell’Assemblea nazionale, il Parlamento, “in caso di necessità e vuoto di potere”. Che ci sia un vuoto di potere in Venezuela ci par dubbio, quello che è vero è che Maduro ha svuotato il Parlamento delle sue funzioni. Se di golpe si tratta è un golpe istituzionale (alla Napolitano), non un golpe con le armi. Il golpe con le armi, cioè un golpe propriamente detto, lo ha realizzato Abd al-Fattah al-Sisi rovesciando nel luglio 2013 il governo dei Fratelli Musulmani, usciti vincitore, con tutti i crismi della legalità, dalle prime elezioni libere in Egitto, mettendo in galera, non per due ore ma a vita, il presidente legittimamente eletto Mohamed Morsi e tutta la dirigenza dei Fratelli, assassinando in varie riprese 2.500 oppositori (ma potrebbero essere molti di più) e facendone sparire altrettanti. Eppure nella cosiddetta comunità internazionale, una gran parte della quale ora si scandalizza e si scaglia contro Maduro definendolo “un usurpatore”, non si levò una sola protesta.
Il fatto è che quello di Maduro è un socialismo, un socialismo largamente imperfetto, ma un socialismo, che ha due obiettivi di fondo: il tentativo di una maggior perequazione sociale in un Paese dove un migliaio di famiglie detiene la maggior parte della ricchezza e tutto il resto della popolazione vive in povertà, e il tentativo di prendere le distanze dall’inquietante vicino americano. È la cosiddetta ‘linea bolivariana’, che fu ripresa da Chavez, il predecessore di Maduro, e di cui Maduro è il continuatore. Linea che per parecchi anni ha avuto un certo successo coinvolgendo molti altri Paesi sudamericani. Ma ora la situazione è cambiata. Perché molti di questi Paesi, a eccezione della Bolivia, del Messico e dell’Ecuador, sono governati dalle destre e in qualche caso da destre estreme, vedi Bolsonaro. Se una previsione l’avevo azzeccata, un’altra l’ho sbagliata. Avevo scritto che con Trump non ci sarebbero più state guerre ideologiche, ma solo economiche. A quanto pare – speriamo di sbagliarci e che The Donald torni sui suoi passi – non è così.
Due osservazioni per finire. Fa ridere, fa ridere amaro, che gli Stati Uniti si scaglino contro la presunta ‘dittatura’ di Maduro quando per decenni hanno sostenuto i più feroci e sanguinari dittatori sudamericani, da Noriega a Somoza a Batista a Pinochet. Certi esponenti europei, da Tusk a Tajani, hanno affermato che in Venezuela alcuni oppositori sono in galera, sono quindi “prigionieri politici”, una situazione inaccettabile. Ma in Spagna Puigdemont, che dopo un referendum si era proclamato presidente della Catalogna, senza che ci fosse stata alcuna violenza da parte dell’Indipendentismo catalano, è stato costretto all’esilio, mentre altri esponenti del governo catalano, sono in galera da più di un anno con l’accusa di “sedizione”. Questi sì veri detenuti politici nel mezzo della democratica Europa.
Due pesi e due misure. Come al solito, come sempre. Maduro è un golpista, Al Sisi no, gli oppositori di Maduro, dopo manifestazioni violente, sono “detenuti politici”, Junqueras e gli altri, dopo un referendum, e senza violenze, sì. Ma ora, per usare un linguaggio feltriano, ci siamo rotti i coglioni. Saremo probabilmente i soli, in un panorama occidentale tutto allineato all’imperialismo americano, che in Sudamerica si riassume con la frase di Henry Kissinger dedicata al Brasile, definito “satellite privilegiato degli Usa”, a difendere Maduro e quel che resta del socialismo, che non è il comunismo, internazionale.
Corriere 25.1.19
Brasile
Le brigate della morte e Bolsonaro junior ora spunta un filo nero dietro la fine di Marielle
di Paolo Galassi
Di che cosa stiamo parlando
Marielle Franco era una consigliera comunale di Rio de Janeiro, membro del Partito Socialismo e Libertà, e attivista per i diritti umani. Il 14 marzo del 2018, dopo essere uscita da una riunione sulla violenza contro le donne, la sua auto venne accostata da persone armate che iniziarono a sparare uccidendola insieme al suo autista. Nata e cresciuta in una zona povera di Rio de Janeiro, per anni Marielle aveva criticato la polizia per la sua violenza nelle favelas.
BUENOS AIRES Un teschio su sfondo nero trafitto da un pugnale e due pistole incrociate al posto delle tibie dei pirati: è lo stemma del Bope, il Battaglione di Operazioni Speciali di Polizia di Rio de Janeiro. Un corpo d’elite per raid in stile Swat nelle favelas più violente, teste di cuoio addestrate alla guerra, autonomia d’azione ed esecuzioni sommarie. Gli agenti espulsi si riciclano come mercenari in milizie dedite al racket e all’assasinio su commissione, con arsenali sequestrati dalla stessa polizia alle bande narcos e poi rimessi in circolazione nella rete paramilitare.
La trama dell’agghiacciante Tropa de Elite– Gli squadroni della morte di José Padilha, Orso d’oro a Berlino 2008, rivive in questi giorni sulle cronache carioca e coinvolge in maniera inquietante Flavio Bolsonaro, primogenito del neopresidente Jair nonchè senatore dello stato di Rio. La sensazione è che vi sia un filo che lo unisca agli assassini di Marielle Franco, 38 anni, consigliera di Rio assassinata la sera del 14 marzo 2018 insieme al suo autista Anderson Gomes.
«Franco era nera, lesbica, abitante di una favela e socialista. Sono passati 300 giorni dalla sua uccisione e le autorità non hanno ancora individuato nè mandanti nè esecutori» scriveva su Repubblica la sua ex compagna Monica Benicio, all’indomani dell’insediamento di Jair Bolsonaro al Planalto. All’uscita dalla Casa delle Nere del quartiere Lapa, un Chevrolet Cobalt argento l’aveva seguita per 4 chilometri.
Poi l’esecuzione con le mitragliatrici di uso exclusivo del Bope, non una 9 mm qualsiasi come detto in un primo momento.
I suoi ultimi j’accuse andavano proprio contro l’impunità degli squadroni della morte e la militarizzazione come disastrosa politica di sicurezza. Uno dei suoi assassini, Adriano Magalhaes, probabile capo del commando, è ricercato in quanto boss dell’Escritorio do Crime, il braccio armato della milizia che gestisce la favela Rio das Pedras, dove telecamere hanno registrato i movimenti della Chevrolet argento nelle ore precedenti l’agguato. Ex capitano del Bope, espulso nel 2014 dalla polizia militare per vincoli con il jogo do bicho, il gioco d’azzardo, Magalhaes è sfuggito all’Operazione Intoccabili andata in scena martedì 22 gennaio.
«Estremamente pericoloso» secondo Simone Sibilio del nucleo anticrimine che lo arrestò nel 2011: eppure nel 2003 e nel 2004, su parere di Flavio Bolsonaro, era stato insignito del maggior riconoscimento dell’Assemblea Legislativa di Rio (Alerj), la Medaglia Tirandentes, insieme all’ex polizia militare Ronald Paulo Alvez Pereira, caduto nel blitz di martedì scorso. Secondo quanto riportato dal Consiglio di Controllo delle Attività Finanziarie, Flavio Bolsonaro teneva a libro paga, come funzionarie del suo gabinetto dell’Alerj, la madre e la moglie dell’oggi latitante Magalhes.
Proprio Raimunda Veras Magalhães sarebbe l’autrice dei consistenti bonifici all’ex autista e assessore di Flavio, Fabricio Queiroz, ex polizia militare e amico di vecchia data del clan Bolsonaro, sul cui conto sarebbero passati circa 1,2 milioni di reales nel 2016 (e 7 milioni in tre anni), una cifra singolare per chi ne guadagnava 8500 al mese. L’indagine è stata bloccata dal Supremo Tribunale Federale lo scorso 17 gennaio su ordine del suo ex datore di lavoro Flavio Bolsonaro. La questione era emersa durante l’operazione antiriciclaggio Lava Jato, che aveva visto l’ascesa dell’attuale ministro di Giustizia, Sergio Moro, implacabile nel mandare in carcere Lula ma silenzioso quando di mezzo ci sono gli affari della famiglia del presidente.
Mentre Flavio prendeva le distanze da quella che non ha esitato a definire «campagna diffamatoria», a Davos suo padre Jair ha risposto con un ambiguo «chi sbaglia paga» in riferimento allo strano flusso di denaro rilevato in questi giorni sul conto di suo figlio (48 bonifici dello stesso valore, per un totale di 96.000 reales), proveniente da uno sportello dell’agenzia bancaria interna all’Assemblea Legislativa di Rio.
Nel frattempo, i dirigenti del Psol pretendono chiarezza sul filo che porta dai conti di Flavio ai paramilitari coinvolti nell’assassinio di Marielle Franco, perchè se la relazione venisse confermata non si parlerebbe più di prestanomi e corruzione, ma della collusione di un membro della famiglia presidenziale con il crimine organizzato.
Repubblica 25.1.19
La memoria e i sogni dello scienziato Primo Levi
di Marco Cattaneo
Il 6 maggio 1948, chiamato a recensire Se questo è un uomo sulle pagine dell’Unità, Italo Calvino prendeva spunto da un dettaglio che forse a molti sarebbe passato inosservato. «C’era un sogno, racconta Primo Levi, che tornava spesso ad angustiare le notti dei prigionieri dei campi di annientamento: il sogno di essere tornati a casa e di cercare di raccontare ai famigliari e agli amici le sofferenze passate, ed accorgersi con un senso di pena desolata ch’essi non ascoltano, che non capiscono nulla di quello che loro si dice » . E continuava sottolineando che l’impossibilità di comunicare tutto l’orrore dei campi di concentramento avrebbe perseguitato tutti gli scampati che cercavano di testimoniarla, « come un proseguimento della pena».
Calvino aveva visto giusto. Gli incubi che tormentavano le notti di Auschwitz sarebbero diventati un argomento ricorrente, nell’opera dello scrittore torinese, ma anche di altri scrittori che hanno raccontato la Shoah. Stranamente, però, finora nessuno sembra aver studiato sistematicamente il tema dei sogni della deportazione nei racconti di Primo Levi.
Prova a darne una lettura Anna Meldolesi sulla pagine di « Mind » di febbraio, in edicola da domani. I sogni, messi in fila, « appaiono come traduzioni facilmente comprensibili delle grandi paure e delle residue speranze di vita nel campo », scrive. Sono i sogni, per esempio, ad aprire le pagine de La tregua, con i versi scritti pochi mesi dopo il lungo viaggio di ritorno dalla prigionia narrato nel libro. Sogni che riportano ad azioni all’apparenza scontate, come se anche l’immaginario onirico fosse «schiacciato, impoverito anch’esso dalla prigionia ». Tanto che in quei versi de La Tregua i « Sogni densi e violenti/ Sognati con anima e corpo » sono « Tornare; mangiare; raccontare ».
L’aspetto dominante, nella testimonianza di Primo Levi, è la memoria. « Chi è finito nei lager “ per disgrazia” – scrive ancora Anna Meldolesi – cerca con tutte le forze di dimenticare». Ma per chi aveva un impegno politico o una forte fede religiosa o ancora una coscienza morale raccontare quella tragica esperienza è un dovere. E per raccontare si fa ricorso alla memoria. Ed è proprio in funzione della preservazione e dell’analisi dei ricordi che lo scrittore si concentra sui sogni. Sono uno strumento – secondo Francesco Cassata, storico del fascismo all’Università di Genova e studioso di Primo Levi – per indagare la memoria sensoriale, proprio come gli odori e la musica: «sono tutti elementi che accendono i ricordi». E qui emerge la formazione di Levi, in cui la voce del testimone e dello scrittore si esprimono sullo sfondo dello scienziato, interessato anche ai processi biologici della memoria.
https://spogli.blogspot.com/2019/01/corriere-25.html