Corriere 24.1.19
Tre anni dopo
Il delitto Regeni senza risposte e il muro d’Egitto
di Giovanni Bianconi
Tre
anni fa l’omicidio di Giulio Regeni. Il Cairo continua a fare muro. I
magistrati italiani sono al capolinea. Per proseguire servirebbe una
collaborazione delle autorità egiziane giudiziarie. Ora tocca alla
politica fare luce e dare giustizia al giovane ricercatore italiano
sequestrato il 25 gennaio 2016 e ritrovato morto una settimana dopo sul
ciglio della Desert road per Alessandria d’Egitto.
ROMA Tre anni,
cinque nomi. Di più non si è riusciti a ottenere. E viste le premesse,
se non succede qualcosa che al momento nessuno sa immaginare, sarà
difficile andare oltre. Gli inquirenti e gli investigatori italiani
hanno fatto il massimo che era consentito loro dalla situazione, dalle
relazioni internazionali e dalle leggi. Ora tocca ad altri.
Giulio
Regeni fu sequestrato al Cairo la sera del 25 gennaio 2016, tre anni
fa. Una settimana più tardi lo fecero ritrovare cadavere sul ciglio
della Desert road per Alessandria d’Egitto. L’autopsia svolta in Italia
ha permesso di stabilire che venne tenuto in vita fino all’1 febbraio,
subendo torture in momenti diversi, fino all’esecuzione avvenuta con una
«separata e violenta azione contusiva sull’osso del collo». Su questo
orrendo crimine la Procura di Roma ha aperto un’indagine che s’è potuta
basare esclusivamente su ciò che i magistrati egiziani hanno
acconsentito di condividere, attraverso incontri e comunicazioni fondate
su buona volontà e spirito d’iniziativa, giacché tra i due Paesi non
esistono trattati di cooperazione giudiziaria.
La conclusione del
procuratore Giuseppe Pignatone e del sostituto Sergio Colaiocco è stata
raggiunta nel dicembre scorso, quando hanno iscritto sul registro degli
indagati i nomi di cinque militari egiziani: un generale, due
colonnelli, un maggiore e un assistente. Sulla base di un rapporto
elaborato dai poliziotti del Servizio centrale operativo e dai
carabinieri del Ros dov’è riassunto «quanto si è raccolto sul conto del
generale Tabiq Sabir, del maggiore Magdi Ibrahim Abdel Sharif, del
colonnello Uhsam Helmi e dell’assistente Mahmoud Najem, espressioni
della National Security del Cairo, e del colonnello Athar Kamal Mohamed
Ibrahim, all’epoca capo delle Investigazioni giudiziarie della
capitale». Nei loro confronti, «in concorso con altri soggetti rimasti
ignoti», ci sono «elementi che ne evidenziano il coinvolgimento nel
sequestro di persona di Giulio Regeni».
A vario titolo sono le
cinque persone che hanno indagato su Regeni fino alla vigilia della sua
scomparsa, a partire dalle denunce del sindacalista-finto amico di
Giulio, Mohamed Abdallah, arruolato dalla National security . Di qui la
decisione di inquisirli formalmente per il rapimento del ricercatore
italiano.
La scorsa settimana, Pignatone e Colaiocco sono andati
al Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, a
spiegare, in seduta segreta, che più in là la magistratura italiana non
è in grado di andare. Normalmente l’iscrizione sul registro degli
indagati è l’inizio di un’indagine, ma in questo caso rischia di essere
la fine. Per proseguire servirebbe una collaborazione delle autorità
egiziane, giudiziarie e non solo, ben maggiore di quella accordata
finora (consentire di assistere agli interrogatori e porre le domande
giuste, per dirne una), senza la quale l’inchiesta romana è destinata
all’archiviazione. In alternativa dovrebbe essere la Procura del Cairo a
perseguire in patria le persone che ragionevolmente si possono ritenere
responsabili della scomparsa di Giulio, ma non sembra averne
l’intenzione.
Dunque, per provare a ottenere «verità e giustizia»
per Giulio Regeni resta aperta l’altra strada, quella
politico-diplomatica. Pressione e stimolo non più solo dei magistrati.
Il ritorno dell’ambasciatore italiano in Egitto deciso a ferragosto del
2017 (dopo il richiamo ad aprile 2016) non ha prodotto i risultati
sperati. E nemmeno le ripetute missioni dei rappresentanti del governo
di Roma al Cairo. Il premier Conte e i suoi due vice, Di Maio e Salvini,
hanno ottenuto molte promesse dal presidente Al Sisi, che però non
hanno avuto seguito. Come quelle più recenti dell’ambasciatore egiziano
al ministro degli Esteri Moavero.
Ad agosto Di Maio raccontò che
Al Sisi gli disse addirittura «Regeni è uno di noi», poi a novembre 2018
dettò una sorta di ultimatum al Cairo: se non arriveranno risposte
entro l’anno, affermò il vicepremier grillino, «ne trarremo le
conclusioni, tutto ne risentirà». Il 2018 è finito da quasi un mese: le
risposte non sono arrivate, e nessuno ne ha tratto le conseguenze.
Ieri
Salvini ha spiegato di essere ancora ottimista: «Continuiamo e
continueremo a chiedere giustizia, non mi sono sentito preso in giro da
Al Sisi, sono fiducioso». Aggiungendo: «Non fatemi fare il magistrato,
conto sul buon lavoro dei magistrati italiani e di quelli egiziani».
Solo che, come spiegato da loro stessi al Parlamento, il lavoro dei
magistrati italiani è sostanzialmente finito, mentre quello degli
egiziani è fermo da tempo. Dopo tre anni e cinque nomi.