Corriere 21.1.19
La Ue, Atene, Roma
Lacrime da non ripetere
di Paolo Mieli
C’è
qualcosa di stridente e di inautentico nell’autocritica europea per le
sofferenze che quattro anni fa furono inflitte dalla Ue, dalla Bce e dal
Fmi alla Grecia. Ha iniziato, ai primi di gennaio, Angela Merkel che,
in occasione di una visita ad Atene, ha esibito cauti segni di
contrizione e ha detto essere la Germania «cosciente della propria
responsabilità storica per la sofferenza inflitta al popolo greco
durante l’occupazione nazista nella Seconda guerra mondiale». Parole
doverose pronunciate forse anche per cancellare la memoria dei
violentissimi moti di piazza che misero la stessa Merkel in grande
imbarazzo qualche anno fa allorché, al culmine della crisi, si recò
nella capitale ellenica per incontrare l’allora premier Antonis Samaras.
Ma il riferimento all’occupazione hitleriana rimanda — non si sa se
volontariamente — alla richiesta di risarcimento per la suddetta
«sofferenza» che qualche esponente politico greco avanzò nel 2015
spingendosi a quantificarla in un ammontare sbalorditivo: 162 miliardi
di euro. Indennizzo che, lo scorso settembre, durante una visita a
Creta, l’attuale primo ministro Alexis Tsipras ha ritenuto di
conteggiare al rialzo: ben 279 miliardi. La signora Merkel non ha preso
ovviamente nessun impegno a ripagare i greci per i patimenti inflitti
loro dai tedeschi tra il ’41 e il ’44, ma si può essere certi che la sua
— ripetiamo: doverosa — ammissione di colpa avrà ripercussioni.
Sul
caso greco ha poi ritenuto di dover tornare, in modo assai meno cauto
di quello della cancelliera, il presidente della Commissione Ue
Jean-Claude Juncker il quale, in occasione del ventesimo compleanno
dell’euro, ha definito «avventata» e «scriteriata» la politica di
austerità che nel 2015 fu adottata dall’Europa e dal Fondo monetario
internazionale nei confronti della Grecia, ha accusato se stesso e
l’intera élite europea di «mancanza di solidarietà» verso quel popolo
«da noi coperto di contumelie». E di questo si è detto «profondamente
rammaricato». Siamo in presenza di un tipo di autocritica assai
particolare. Da quel 2015 è trascorso troppo poco tempo perché si sia
persa memoria della circostanza che Juncker, all’epoca presidente
dell’Eurogruppo, si schierò dalla parte opposta a quella degli
intransigenti impersonatasi nel ministro tedesco dell’Economia Wolfgang
Schäuble. Siamo in presenza perciò di un caso (non infrequente) di
«autocelebrazione» travestita da atto di contrizione. Senza che poi
l’autore di tale appena dissimulato encomio a se stesso avverta
l’esigenza di essere più circostanziato su tempi e modi in cui all’epoca
sarebbe stato commesso l’errore. E su cosa, a suo avviso, si possa fare
adesso per ripararlo.
Per stare ai fatti di quattro anni fa, è
vero che la Ue si irrigidì e che in molti già all’epoca sostennero che
la Grecia fosse troppo piccola per giustificare tale irrigidimento. Ma è
altrettanto vero che erano trascorsi già sei anni da quando Papandreou
nell’ottobre del 2009 aveva pubblicamente ammesso il trucco dei conti
del suo Paese al momento di entrare in Europa. Ed è incontestabile che
la Grecia sembrava ormai essersi rassegnata a una sorta di fisiologia
del default (del resto, dalla sua indipendenza, nel 1830, ne aveva
conosciuto uno per ogni biennio); che dagli anni Settanta aveva
aumentato gli occupati al ritmo dell’uno per cento ogni dodici mesi nel
settore privato e del quattro in quello pubblico; che al momento di
ridefinire le pensioni era riuscita a individuare ben 580 professioni
usuranti tra le quali i presentatori tv «a rischio» per l’accumulo di
flora batterica nei microfoni.
È vero anche che all’epoca, 2015,
dopo l’ammissione di Papandreou, l’Europa le aveva già «prestato» 240
miliardi di euro (anche se poi gran parte di quei soldi erano finiti a
rimettere in sesto le banche); che la spesa per gli statali — un settore
che nei primi dieci anni del terzo millennio si era espanso a dismisura
crescendo del 6,5% l’anno — tale spesa, dicevamo, aveva continuato a
crescere; che le retribuzioni e le pensioni minime greche ancora nel
2015 erano più elevate di quelle di alcuni Paesi europei chiamati a
partecipare ai programmi di aiuti (una pensione media in Grecia
ammontava a tre volte quella dello stesso tipo in Polonia). Veronica De
Romanis ha giustamente fatto notare che per andare in soccorso ai Paesi
europei in difficoltà (non solo la Grecia, anche Irlanda, Spagna,
Portogallo e Cipro) l’Italia ha sborsato circa 60 miliardi di euro, di
cui la metà hanno preso la direzione di Atene. E che nelle tavole della
Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza pubblicato nel
settembre scorso è evidenziato come nel 2017 il rapporto debito/Pil al
lordo degli aiuti si attesti al 131,2 per cento mentre al netto degli
aiuti scenda al 127,8. Non poco per un Paese, come il nostro, reduce da
un dibattito sulla manovra di Stabilità nel corso del quale si è potuto
costatare quanto fossero stretti i margini per portare a termine, con il
consenso europeo, la manovra suddetta .
Va aggiunto che persino
l’allora leader socialdemocratico nonché vicecancelliere Sigmar Gabriel
si disse favorevole a un’uscita della Grecia dall’euro (sia pure solo
per una durata di cinque anni). Del resto la mancata percezione della
gravità della crisi in Grecia si può intuire da un episodio
significativo: nel 2010 Andreas Georgiou, funzionario del Fondo
monetario internazionale, era stato richiamato in patria e messo a capo
dell’Eistat, l’Istituto di statistica ellenico, per fare chiarezza sulla
reale entità del debito; Georgiou aveva rivisto tutti i conti, aveva
scoperto che erano stati falsificati e — come era doveroso — ne aveva
denunciato pubblicamente la contraffazione. Poi nel 2015, cioè al
momento in cui il suo Paese avrebbe dovuto essere stabilmente in cammino
sulla via del ravvedimento, per quella sua denuncia Georgiou — sulla
base di una norma stabilita all’epoca dei regime dei colonnelli — fu
accusato di violazione dei doveri fiduciari e persino di tradimento nei
confronti dello Stato; dopodiché per difendersi dovette affrontare spese
proibitive e si rese persino necessario aprire, in suo favore, una
colletta internazionale.
Così quando proprio in quel 2015 quelli
che oggi sono oggetto dell’«autocritica» di Juncker si mostrarono meno
indulgenti con la Grecia si giunse a un divorzio tra Tsipras rassegnato a
fare i conti con la realtà e il ministro dell’Economia Yanis Varoufakis
deciso a insistere nella politica di sfida all’Europa. Tsipras rimase
al suo posto, il Paese si rimise in carreggiata e poté conoscere un
costante, progressivo allontanamento dall’orlo del precipizio.
Quell’atto di Tsipras fu da considerarsi, secondo l’esponente Cdu
tedesco Norbert Röttgen, importante come Bad Godesberg, evento che
prende il nome della località in cui i socialdemocratici tedeschi alla
fine degli anni Cinquanta accantonarono la dottrina marxista.
Fin
troppo facile scoprire adesso quanto sia stato poi doloroso per i greci
percorrere i sentieri dell’austerità e quanto sarebbe stato meglio per
tutti, a cominciare dai greci stessi, se fosse stato possibile
incamminarsi per quella via con lo spirito di chi sta compiendo una
normale passeggiata. Così come è possibile, guardando all’indietro,
identificare i numerosi errori che — come sempre — sono stati compiuti
lungo quell’itinerario. Ma è assai pericoloso in un frangente come
l’attuale lasciarsi andare a considerazioni come quelle di Juncker.
Soprattutto se poi non vengono indicati percorsi alternativi destinati a
produrre, tra qualche anno, un minore «rammarico». Per la Grecia e
domani, può darsi, anche per l’Italia.