venerdì 7 dicembre 2018

Repubblica 7.12.18
Evviva le lingue morte che non smettono di vivere
Il grande successo con "Repubblica" dei libri di Nicola Gardini e Andrea Marcolongo
di Paolo Di Paolo


Una ragazza è alle prese con le versioni di latino. Si sconforta: «No, non ce la faccio!», la madre la sprona, la incoraggia. La ragazza reagisce e fa la domanda delle domande: «Ora tu mi spieghi a che serve il latino». La madre azzarda una spiegazione: «Oh! Il latino è importante, eh! Il latino serve a ragionare, a costruire così... un discorso, a scrivere». Si confonde, parla della "struttura logica" che viene dal latino, scoppia a ridere: «Non mi ricordo, so che serve a qualcosa, ma non mi ricordo più a cosa, va bene?». È una scena di un film di Nanni Moretti, Mia madre. È la domanda che generazioni di studenti si sono portati dietro: a che cosa servono il greco e il latino? Forse il successo di La lingua geniale e Viva il latino allegati a Repubblica — oltre cinquantamila copie in pochi giorni — è già una risposta. Due bestseller — decine di edizioni in libreria — diventano bestseller anche nella riproposta in edicola. È il segno che le lingue cosiddette morte restano vive prima di tutto in noi, come una specie di muscolo dimenticato, o un secondo cuore. Chi ha trafficato con i paradigmi, con le declinazioni — lì per lì, magari, maledicendole — si porta dietro una strana cassetta degli attrezzi. Inutilizzabili, o almeno pare, nel quotidiano: con chi parli la lingua di Sofocle o di Seneca? Con nessuno, in effetti. Inapplicabili alle emergenze pratiche: una perifrastica non salva e non risolve. Ma quanto più te la porti dietro nella vita, quella cassetta degli attrezzi fuori tempo, tanto più si alleggerisce.
Al punto che dimentichi di averla con te. E dopo quarant’anni di assenza dai banchi di scuola, se qualcuno se ne esce con "rosa, rosae" sbianchi, ti allarmi, sospiri, metti le mani avanti: non mi ricordo niente. Non è così: di tutto resta un poco; e del greco e del latino una specie di scia, un sentimento. Sono convinto che i libri di Andrea Marcolongo e di Nicola Gardini abbiano rimesso in gioco, prima ancora che un sapere, quel sentimento. E il desiderio — in decine di migliaia di studenti, in corso e fuori corso — di alimentarlo, risvegliarlo, di non disperderlo. Un tesoro, o tesoretto che, seguitando a mandare il proprio bagliore, illumina imprevedibilmente la quotidianità, il presente.
Inciampi su una parola — e la vedi meglio, ne cogli la storia, il tempo, lo spazio.
Ma non basta. Senti risuonare, nelle frasi che dici, una musica complessa e misteriosa. Mentre provi a leggere i segni del mondo — concetti, idee, conflitti — il fascio di luce investe un dettaglio, lo rivela e insieme lo complica. E magari fa sbucare un’altra strada, sempre all’improvviso. Una grande della fisica, Fabiola Gianotti, una che ha lavorato sul bosone di Higgs, ha raccontato una volta il suo amore per le lingue "morte": «Amavo il greco e il latino, e soprattutto la filosofia antica. Lì ho intuito che la fisica mi avrebbe permesso di aiutare in maniera pratica le domande filosofiche».
Non è questione dunque di accanimento grammaticale, il punto è la sfida che le lingue di un passato remoto — e la vastissima sapienza dell’umano che traghettano — lanciano al presente. Ars interrogandi.
Tutto qua. L’arte di non smettere di farsi domande, di tenere viva e vitale una staffetta tra moderni e antichi, a costo di ritrovarci nei panni di quelli che stanno più indietro.