venerdì 28 dicembre 2018

Repubblica 28.12.18
Sì, compagni il comunismo si è realizzato
Marxisti immaginari
Dal plusvalore all’alienazione, dalla lotta di classe al capitale, ecco come si sono realizzate nell’era dei social, della globalizzazione e dei documedia le profezie di Marx in un modo del tutto inaspettato
di Maurizio Ferraris


Il cellulare con cui creiamo valore? Controllo dei mezzi di produzione Sempre connessi? Fine dell’alienazione: lavoro e tempo libero sono la stessa cosa. Dati sensibili ai privati? Fine dello Stato. Una provocazione filosofica
Il bicentenario marxiano ha prodotto un bilancio prevedibile: gran pensatore, ha capito tutto del capitale, ma il suo sogno, il comunismo, non si è realizzato. Ma ne siamo sicuri? A ben vedere, è vero il contrario: Marx ha perso un elemento centrale del capitale, il fatto che potesse trascendere la dimensione industriale e finanziaria, e proprio per questo il comunismo si è realizzato.
Incomincio a giustificare la seconda affermazione, che appare la più sorprendente.
Malgrado quello che si dice e si pensa, siamo la società più vicina al comunismo che la storia abbia mai conosciuto.
Sicuramente, più vicina di quanto lo fossero le esperienze storiche di comunismo realizzato, e senza dimenticare che la più grande esperienza di comunismo realizzato è tutt’ora in corso e tutt’altro che in crisi, visto che la Cina si sta avviando a diventare il potere egemone del XXI secolo. Conviene dunque smettere il gioco futile del condannare il capitalismo e rimpiangere il comunismo. Il comunismo è già qua, nella rivoluzione in corso. Si tratta di comprenderlo e di concettualizzarlo. Controllo dei mezzi di produzione da parte dei lavoratori, fine della alienazione e della divisione del lavoro, società senza classi e senza stato, nuova internazionale, dittatura del proletariato, ossia tutte le caratteristiche che Marx attribuiva al comunismo sono una moneta corrente in moltissime società contemporanee che si credono capitaliste.
Il telefonino con cui creiamo dati, cioè ricchezza, ci appartiene (ma ce lo danno praticamente gratis, se ci impegniamo a usarlo) così come la casa che diamo in affitto con Airbnb o l’auto di cui ci serviamo per lavorare con Uber. Finisce così l’alienazione, perché vien meno la differenza tra tempo del lavoro e tempo della vita (siamo perennemente mobilitati sul web); si assottiglia la differenza tra lavoro intellettuale e lavoro manuale (una parte sempre crescente dell’umanità delle società occidentali usa le braccia e le gambe per tenersi in forma, e per lavorare usa le dita che si muovono sulla tastiera); ci si avvia verso una società senza classi, sebbene permangano e si accentuino le differenze di reddito; verso una società senza Stato (le prerogative statali della conoscenza analitica della popolazione, del batter moneta, della posta e dell’esercizio della forza passano progressivamente ad agenzie extra-statali); inoltre — malgrado i sussulti sovranisti, non meno inattuali della Restaurazione del 1814 — si è affermata una società globalizzata, ossia una nuova internazionale, questa volta effettiva: per questo fa paura, essendo una realtà e non un vago ideale romantico. Per finire, i populismi costituiscono la prima realizzazione storica di quella dittatura del proletariato che Marx vedeva come un momento di transizione tra la società borghese e la società comunista.
Questa realtà è il frutto di una rivoluzione, non meno grande della rivoluzione industriale di due secoli fa. Dalla fine del Settecento conosciamo il mondo del capitale industriale: produceva merci, generava alienazione, faceva rumore, quello delle fabbriche. Poi è stata la volta del capitale finanziario: produceva ricchezza, generava adrenalina e faceva ancora un po’ di rumore, quello delle sedute di borsa. Oggi si sta facendo avanti un nuovo capitale, il "capitale documediale": produce documenti, genera mobilitazione e non fa rumore. Il suo ambiente, e la sua condizione di possibilità, è il web, che ha prodotto quella che chiamo rivoluzione documediale, innescata dall’incontro fra una sempre più potente documentalità (la sfera di documenti da cui dipende l’esistenza della realtà sociale) e una medialità diffusa e pervasiva, sia quantitativamente (i cellulari sono due miliardi) sia qualitativamente (grazie ai social media, ogni ricettore è anche un broadcaster).
Quanto sappiamo di questa rivoluzione? Abbiamo davvero capito di che cosa si tratta? Dopo un momento di euforia, in cui il web è stato interpretato anzitutto in modo estetico, come portatore di nuova bellezza e delle esperienze di un mondo virtuale, è venuta l’ora della morale. Inteso ai suoi esordi come una prateria dove scorrazza la libertà, il web si è trasformato oggi nel Grande Fratello che spia i nostri comportamenti e prepara dossier sulle nostre vite. Per quanto importante, questa lettura non è meno settoriale di quella che si manifestava nell’incanto estetico per la rete e sembra di essere ritornati ai tempi della Società delle Nazioni e alla sua astratta illusione di governare il mondo in base alla pura produzione di norme. In taluni casi si potrebbero trasferire al web (augurando loro maggiore fortuna) i 14 punti del Presidente Wilson aggiungendo un po’ di dichiarazioni del 1789, e qualcosa delle dichiarazioni delle Nazioni Unite del 1948, compreso l’articolo 19: «Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione», senz’altra precisazione (ad esempio, che l’opinione sia vera, che non inciti all’odio ecc.). Il ciberspazio è pieno di etica, di buone intenzioni, cioè della materia di cui, come sappiamo, sono lastricate le vie che portano all’inferno: perché — mentre si dibatte sui principi e sulle norme — un sisma politico ed economico porta al potere, oggi come negli anni Trenta, i populisti spaventati da una trasformazione che non comprendono.
Che cosa si può fare per comprendere? L’etica è una parte importante della filosofia, come l’estetica, ma pretendere di capire davvero la rivoluzione documediale con il solo ricorso a queste due nobili branche del sapere è come mandare una carica di cavalleria contro i carri armati. È necessaria una analisi che non si limiti a sviluppare le implicazioni etiche ma affronti la trasformazione con tutti gli strumenti fornitici dalla filosofia: la metafisica, che ci aiuti a dire che cos’è il mondo della rivoluzione documediale; l’ontologia, che ci dica che cosa c’è, quali sono le componenti di questo nuovo universo in cui ci siamo trovati a vivere, e nel quale le merci sono diventate documenti; la tecnologia, che ci spieghi che cosa è diventato il lavoro, trasformatosi in una mobilitazione senza confini di spazio e di tempo, e che spessissimo produce valore senza essere retribuito; l’epistemologia, che ci aiuti a capire che cosa non va nella rivoluzione, e in particolare l’enorme asimmetria (che chiamo "plusvalore documediale") che, in quella che a torto è definita una economia della conoscenza, contrappone le informazioni ottenute da chi si mobilita e quelle che cede gratuitamente alle piattaforme; e infine la teleologia, la risposta alla domanda "che fare?", una domanda che la politica, ridotta ad analisi dei sondaggi e a una campagna elettorale senza fine, è incapace di soddisfare.
– 1. Continua