Repubblica 27.12.18
Non basta Poe per fare un giallo ci vuole Marx
di Giancarlo De Cataldo
Mentre
usciva il "Manifesto del partito comunista", lo scrittore americano
creava il suo Dupin, padre di tutti i detective. Aveva capito che il
mondo era cambiato: borghesia e opinione pubblica chiedevano un nuovo
genere
Qualcuno commette un delitto e cerca di farla franca.
Qualcun
altro indaga per assicurarlo alla giustizia, a volte riuscendovi, altre
fallendo. Il delitto accompagna l’essere umano sin dalla notte dei
tempi e non c’è narrazione intorno al delitto che non sia riconducibile a
questo schema primordiale: delitto — indagine — soluzione.
C’è
chi rintraccia le origini nella Bibbia — siamo tutti, in definitiva,
progenie di Caino, dal momento che proprio il fratricida, scacciato
dall’Eden, fondò la prima città — e chi le fa risalire alla tragedia
greca, o alle Mille e una notte, o alle avventure dei giudici-poliziotti
cinesi. Il dibattito è aperto, e forse ozioso. Ma su un punto l’accordo
è unanime: il romanzo giallo moderno che da quasi due secoli si legge,
si ammira o si odia, comunque si consuma in tutto il mondo, nasce a metà
dell’Ottocento ad opera di un giovane e geniale poeta, giornalista,
scrittore nativo di Boston, di nome Edgar Allan Poe. Quando, nel 1841,
pubblica un lungo racconto dal titolo I delitti della via Morgue, Poe è
un ragazzo irrequieto. Nato a Boston e presto orfano di due attori
girovaghi, è allevato da un mercante sensibile di Richmond,
ripetutamente espulso per indisciplina da scuole e accademie militari,
segnato da amori sfortunati e talora tragici. I racconti gli danno fama e
fortuna, ma l’assoluta mancanza di senso pratico gli fa perdere
rapidamente tutto. Poe muore a quarant’anni per cause mai del tutto
chiarite: forse l’etilismo, forse l’epilessia, forse il morso di un
animale rabbioso, forse era stato sequestrato e drogato di whisky per
farlo votare più volte in qualche elezione, secondo un costume in voga
al tempo. Sta di fatto che Poe muore in quel fatidico 1849 che vede
l’Europa all’indomani della spallata rivoluzionaria del Quarantotto e
Marx ed Engels danno alle stampe il
Manifesto. La borghesia scalpita per conquistare il ruolo che le compete a spese del vecchio ordine. È solo questione di tempo.
Il grande cambiamento è nell’aria.
Nel
frattempo, da Torino a Londra, passando per Vienna e Parigi, gli Stati
emergenti e i vecchi imperi inventano la moderna polizia e il monopolio
del controllo sociale e della repressione del crimine è sottratto alle
squadre e squadrette di vassalli e signorotti e consegnato una volta per
tutte all’autorità centrale dello Stato.
Quello Stato che presto diverrà dominio, appunto, della borghesia.
Il
primo poliziotto ufficiale, ironia della storia, è un ex-galeotto:
Eugene Francois Vidocq. Nativo di Arras, come Robespierre, dopo una
considerevole carriera di ladro e falsario, con svariate condanne ed
evasioni, si offre come informatore ai servizi di sicurezza napoleonici e
in breve tempo diventa capo della (nuova) polizia. Ritiratosi in
pensione dopo aver servito, con notevole competenza, molteplici padroni,
Vidocq pubblica nel 1828 memorie alle quali attingeranno a piene mani
Balzac, Dumas e Victor Hugo. Secondo qualche suo biografo, Poe stesso si
ispirò a lui per creare Dupin. Il dubbio è quanto mai legittimo. Vidocq
era un uomo d’azione, un avventuriero, un figlio della strada. Dupin è
un gentiluomo di buona famiglia che indaga per diletto, e alle maniere
rudi preferisce il ragionamento.
Nelle prime pagine dei Delitti
della Rue Morgue lascia di sasso il proprio interlocutore elencando
minuziosamente la catena dei pensieri che costui ha formulato mentre i
due passeggiavano oziosamente per le vie di Parigi. E inaugura così una
tecnica di presentazione del personaggio che avremmo rivisto milioni di
volte nei successivi (quasi) duecento anni. Perché ogni volta che un
eroe, nei primi minuti di un film, o di una serie, ci fa restare a bocca
aperta fornendoci un saggio tangibile e indiscutibile delle sue
abilità, lui è Dupin e noi il suo stupido partner. È Poe, dunque, annota
Borges, a stabilire «le leggi fondamentali del genere: il delitto
enigmatico e a prima vista insolubile, l’investigatore solitario che lo
svela mediante l’immaginazione e la logica, il caso riferito a un amico
impersonale e alquanto slavato dell’investigatore».
Non sappiamo
se Poe conoscesse il vero poliziotto, ma sappiamo che seguiva la cronaca
nera. Se l’assassino della via Morgue è un mostruoso orango
(decisamente più grosso e minaccioso di quanto non sia in realtà il vero
scimmione), la seconda avventura di Dupin, Il mistero di Marie Roget,
riprende e "risolve" il caso di Mary Cecilia Rogers, una fanciulla assassinata qualche tempo prima a New York.
Aveva
dunque ragione Gramsci nel segnalare la stretta contiguità fra il
romanzo poliziesco e i resoconti dei processi più seguiti, quelle "cause
celebri" che, allora come ora, attraggono la nostra attenzione, con un
misto di angoscia e morbosità.
Nasce la polizia, si afferma la borghesia, nasce il giallo.
Nessun caso, nessuna coincidenza.
Ha
scritto il grande storico Eric J. Hobsbawn: «Sin dal 1848 c’erano già
quasi tutti i principali ingredienti del moderno mito letterario del
crimine, sebbene non fossero ancora stati combinati insieme nel
detective novel del ceto medio inglese o nella crime story americana,
che oggi è diventata per la società urbana occidentale l’espressione
definitiva di questo mito».