sabato 8 dicembre 2018

Prima della Scala: sei minuti di applausi per Mattarella. Ma niente, non s’è svegliato www.forum.spinoza.it


Il Fatto 8.12.18
Il progetto Bassetti: così la Chiesa prepara il ritorno in politica
Il capo della Cei - Formare e reclutare nuovi dirigenti - Idee
di Carlo Tecce


Il cardinale Gualtiero Bassetti è l’uomo che spinge per il ritorno dei cattolici in politica e non proprio per il semplice e sterile ritorno di un partito cattolico, scomparsa l’egemonia culturale con la Democrazia Cristiana e smorzati i rantoli dei cartelli elettorali sempre più piccini che per oltre vent’anni hanno alimentato la diaspora nella seconda Repubblica. Il fiorentino Bassetti è un prete di provincia, di una frazione di Marradi, appennino toscano, oratoria non arzigogolata, cita spesso Giorgio La Pira, don Luigi Sturzo, Alcide De Gasperi, spedito a Piombino nell’epoca agitata dell’industria siderurgica, arcivescovo metropolita di Perugia, capo dei vescovi italiani nominato da papa Francesco.
Oggi i cattolici e pure la Chiesa rischiano l’irrilevanza nell’Italia degli arrabbiati, per usare un’espressione di Camillo Ruini, menzionato con discrezione dai vertici Cei e forse con un po’ di pudore perché il ruinismo – una presenza a tratti invadente per l’autonomia politica – appartiene al passato. Quello che la Cei di Bassetti persegue è l’ambizione di rianimare il pensiero cattolico in politica, adesso che il dialogo con il governo dei gialloverdi di Giuseppe Conte è inesistente, mentre la destra moderata e la sinistra progressista sono in agonia. Nel vuoto che circonda i gialloverdi, in assenza di interlocutori e di autorevoli politici di professione, per contrastare soprattutto l’ascesa di Matteo Salvini, la Conferenza episcopale asseconda i movimenti che, per banalizzare, si creano dal basso. Come l’associazione “Insieme” di Giuseppe Simoni, vescovo emerito di Prato. Come il ruolo più attivo dell’istituto don Luigi Sturzo o della comunità di Sant’Egidio. Come le battaglie culturali di Leonardo Becchetti, Alessandro Rosina, Mauro Magatti, e tanti altri sociologi, economisti, intellettuali.
I vescovi con le chiese deserte comprendono lo spirito del tempo che ha distrutto i riferimenti classici, le categorie storiche e i cosiddetti corpi intermedi, sono consapevoli che il rientro dei cattolici in politica debba passare per i laici e non per il clero. Perché, spiegano sommessi, anche il clero è screditato. Allora il progetto di Bassetti, che sarà all’ordine del giorno del consiglio permanente Cei di gennaio, prevede la nascita di una strumento – un partito mascherato? – per intervenire nel dibattito politico e per formare i futuri politici. Un anno fa, ancora prima di Salvini al governo, durante un convegno su La Pira, Bassetti ha condensato il suo manifesto politico in poche righe: “Solo con una politica che abbia veramente a cuore la dignità della persona umana e che utilizzi il bene comune come unico criterio di scelta, si possono trovare delle soluzioni responsabili e realiste alle grandi sfide del mondo moderno: ai temi dello sviluppo, del disarmo, della mobilità umana, della bioetica, della convivenza di culture e religioni diverse, degli equilibri ecologici”.
Il sentimento che attraversa la Chiesa per un più forte impegno in politica – “di umanità e santità”, per dirla con La Pira – non riguarda soltanto il vento leghista che avanza, ma anche il rapporto con il pontificato di papa Francesco. Jorge Mario Bergoglio s’è trasferito a Roma con un doppio (pre)giudizio negativo: la Curia troppo italiana che trama (e non s’è sbagliato) e la Cei schiacciata dal Vaticano. Il cardinale Angelo Bagnasco ha tentato di muovere la Cei con la stessa efficacia dell’illustre predecessore Ruini, ma s’è scontrato con la figura ingombrante di Tarcisio Bertone, il Segretario di Stato di Joseph Ratzinger, il vice-papa.
Francesco ha riportato la Cei al centro dell’agone politico con scarsi risultati, quasi disinteressato alle vicende interne italiane, e adesso la Chiesa è marginale, dà l’impressione di essere afona pure se grida. Con la promozione-rimozione di Angelo Becciu, il sostituto agli Affari generali in Segreteria di Stato rimpiazzato dal venezuelano Edgar Pena Parra, il Vaticano ha ridotto l’influenza dall’altra parte del Tevere. E dunque la Cei è costretta a uscire dalle sagrestie, a parlare ai fedeli che sono cittadini e ai cittadini che sono o possono diventare politici. I vescovi hanno investito le residue speranze sui Cinque Stelle, ma il governo gialloverde è percepito lontano. Così la Chiesa si organizza per dare un’opposizione all’Italia.

il manifesto 8.12.18
Oggi la protesta è globale: tutti in piazza da Katowice all’Italia
Clima. Le battaglie territoriali si fondono con quelle per il pianeta. Oggi manifestazione in Polonia e in altri 20 paesi del mondo. In Italia in piazza i No Tav, i No Tap e i No Muos
di Maura Peca


KATOWICE Sono passati due mesi esatti dalla pubblicazione del report dell’Ipcc che ha lanciato l’ennesimo allarme sui rischi dell’aumento di temperatura di un grado e mezzo, e solo pochi giorni dal clamore creato dall’annuale Emission Gap Report dell’Unep che conferma la necessità di un impegno 5 volte maggiore di quello attuale per scongiurare il peggio.
Eppure – di fronte al tepore delle posizioni degli Stati, al negazionismo di America, Brasile e Australia, alla smaccata difesa del carbone promossa dal leader polacco qui alla Cop24 – sembra che a cogliere la gravità della situazione siano solo cittadini, movimenti e associazioni che oggi, in maniera coordinata, scendono in piazza a Katowice e nel resto del mondo.
«Sveglia! È arrivato il momento di salvare la nostra casa», è lo slogan scelto dagli attivisti polacchi. In controtendenza rispetto agli slogan razzisti dell’impressionante marcia nera a Varsavia qualche settimana fa, si prova a restituire senso nuovo al concetto di casa comune, minacciata non dai falsi pericoli indicati dalla xenofobia dei rappresentanti politici ma dagli impatti dei cambiamenti climatici. Inondazioni, acidificazione degli oceani, innalzamento dei mari, scomparsa di preziosi ecosistemi, siccità e desertificazione, intensificazione degli eventi estremi, migrazioni climatiche sono solo alcuni dei fenomeni che minacciano la sopravvivenza di sempre più persone e comunità.
Per ragionare sull’importanza di reti a livello globale contro i cambiamenti climatici, il Climate Hub, qui a Katowice, situato proprio di fronte alla sede ufficiale della Cop, prova a raccogliere quella collettività globale che poco si sente rappresentata dalle decisioni ufficiali e a mettere assieme i pezzi di un mosaico di analisi e pratiche tese a una riconversione ecologica di economia e società. Dopo giorni di folla e discussioni, oggi l’Hub sociale è vuoto: attivisti e ricercatori sono usciti nonostante il freddo pungente per partecipare alla Marcia per il Clima che ha luogo qui e in almeno altri 20 paesi, da una parte all’altra del globo.
A Katowice il corteo è programmato alle 12 da piazza Wolnosci, nel centro della città industriale. I cartelli e gli striscioni richiamano l’urgenza di agire a livello globale e chiedono a gran voce l’uscita del paese dal carbone. Anche in Italia la chiamata globale a mobilitarsi è stata raccolta su più fronti.
Oggi molte iniziative e azioni sono in programma in molte città. È una delle proposte emerse dall’assemblea dei comitati No Triv svoltasi a Roma a novembre: nei territori colpiti da progetti estrattivi le azioni contro i combustibili fossili sono diffuse e numerose. Altri appuntamenti: in piazza a Padova la Marcia Mondiale per il Clima, a Niscemi la manifestazione No Muos, a Melendugno il corteo No Tap e a Torino la Marcia No Tav.
La coincidenza della data scelta quest’anno a livello internazionale per le manifestazioni sul clima con la giornata contro le grandi opere inutili e imposte, da anni celebrata da differenti realtà territoriali italiane, ha approfondito la riflessione sulla connessione profonda tra battaglie ambientali e crisi climatica.
Cosa accomuna la lotta a Tap, Tav, ai nuovi metanodotti auspicati nella Strategia energetica nazionale del 2017,  il revamping degli inceneritori esistenti e la costruzione di altri 8 impianti di termovalorizzazione se non la loro preoccupante azione clima-alterante che gli scienziati ci dicono di azzerare? Per questo in piazza, tra le diverse bandiere delle battaglie territoriali, ci saranno richiami alla giustizia climatica. A muoverle, oltre al vento, la consapevolezza che per salvare il pianeta occorre parlare un linguaggio comune e guardare nella stessa direzione.
*A Sud

Corriere 8.12.18
Raphaël Glucksmann
«Perso il controllo della situazione
È una svolta per la storia del Paese»
dal nostro corrispondente Stefano Montefiori


PARIGI La protesta dei gilet gialli rappresenta un momento cruciale per Macron?
«È una svolta nella storia della Francia, non solo nel mandato Macron. Una crisi sociale profonda abbinata a una crisi di regime», dice Raphaël Glucksmann, autore del saggio primo in classifica I figli del vuoto, dall’impasse individualista al risveglio dei cittadini e fondatore poche settimane fa del movimento di sinistra «Place Publique».
Il presidente attira tutto l’odio su di sé, ma le colpe sono solo sue?
«Non è colpa solo di Macron, abbiamo alle spalle quarant’anni di politiche fallimentari. Lui, con l’arroganza e alcune misure ingiuste, è stato il fiammifero gettato su un barile di polvere da sparo».
Eppure Macron ha vinto le elezioni solo un anno e mezzo fa, come si spiega un crollo così rapido?
«Guardiamo a cosa è successo in Italia. Renzi era celebrato in Europa come il salvatore della democrazia liberale, e oggi avete il governo sovranista Lega-5 Stelle. Noi viviamo uno scenario simile, con istituzioni diverse. Macron non è mai stato forte come molti credevano, ha preso solo il 24 per cento dei voti al primo turno delle presidenziali, eppure la sua maggioranza controlla l’80 per cento dell’Assemblea nazionale. Lo scontento che non si esprime in Parlamento si riversa nelle piazze».
Quali sono stati i suoi errori più gravi?
«Di stile, e di sostanza: ha parzialmente soppresso l’Isf (la tassa patrimoniale, ndr) e diminuito gli aiuti alle famiglie. Non se lo poteva permettere, non aveva un sostegno sufficiente nel Paese».
Ci sono state avvisaglie della crisi?
«Certo, pensiamo a Nicolas Hulot, ex ministro per la Transizione ecologica, che aveva avvisato il governo sui rischi di una carbon tax non accompagnata da misure sociali. Non è stato ascoltato, e si è dimesso. È il problema di un partito nato attorno a un solo uomo, Macron, e all’ideologia au même temps, “allo stesso tempo”, che permette di tenere dentro qualsiasi idea e il suo opposto pur di conquistare il potere».
Qual è la sua opinione sui gilet gialli?
«Sono un “allo stesso tempo” opposto, quello della protesta. Dentro c’è tutto, i gilet gialli sono di estrema sinistra e allo stesso tempo di estrema destra, vogliono più servizi pubblici e allo stesso tempo meno tasse. Il rischio è che in questo movimento pigliatutto finisca per imporsi la corrente dall’ideologia più coerente e strutturata, l’estrema destra».
In questo contesto come reagisce «Place Publique»?
«Cerchiamo di ridare la parola alla politica. Tre priorità: una fiscalità più giusta e più attenta ai bisogni delle classi meno privilegiate; riforme istituzionali per superare la Quinta Repubblica; una transizione ecologica socialmente giusta. Poi speriamo di federare la sinistra attorno a una proposta comune, a gennaio decideremo se e come presentarci alle europee».
A breve termine che cosa può succedere?
«Macron ha voluto incarnare la figura del re, e ha generato i sanculotti. Un immenso problema perché per ora abbiamo un re e dei ghigliottinatori, ma non proposte alternative credibili. Il presidente si è rifugiato nel mutismo, ha detto che parlerà la settimana prossima. Può cambiare primo ministro e dare una svolta più sociale alla presidenza, oppure indire nuove elezioni legislative. Ma la gestione attuale è preoccupante. Quando lo stesso Eliseo evoca migliaia di persone che verranno a Parigi ”per uccidere”, significa che si sta perdendo il controllo della situazione».

il manifesto 8.12.18
Il «mostro» s’aggira per la Francia. Parigi oggi è città chiusa
Il paese brucia, Macron fa la sfinge. Oggi l'atto IV della protesta. La capitale si barrica, c’è anche la Marcia per il clima. Il governo attacca: «Movimento fuori controllo». I liceali indignati dal video sui 153 fermi a Mantes-la-Jolie
di Anna Maria Merlo


PARIGI Dodici blindati nella capitale, terribile presenza senza precedenti, in appoggio a ottomila agenti (89mila in tutta la Francia, perché la violenza è diffusa anche in provincia) sul piede di guerra, che cambiano tattica e andranno “al contatto” dei manifestanti. Parigi sarà città chiusa nella giornata dell’atto IV della rivolta dei gilet gialli: chiusi i musei, Louvre, Grand e Petit Palais, Quai Branly, Palais Royal, i due musei delle Tuileries, Fondation Vuitton, tutte i luoghi della Réunion des Musées Nationaux, chiusa l’Opéra, chiusi tre teatri sui Champs Elysées, chiusa la Comédie française, le biblioteche, la Tour Eiffel, sospesi tutti gli spettacoli a Radio France, tutte le partite di calcio, chiusi i grandi magazzini sul boulevard Haussmann, tutte le boutique di lusso, varie fermate del metro e dell’Rer. Non si barrica solo il triangolo d’oro attorno ai Champs Elysées preso di mira sabato 1° dicembre, con tavole di compensato per proteggere le vetrine, ma anche altri quartieri si preparano, dalla Bastiglia al Panthéon. E in piazza oggi non ci sono solo i gilet gialli, ma anche la Marcia per il clima (175 marce in tutta la Francia), che deve essere protetta e per questo nella capitale ha dovuto cambiare percorso (sarà da Nation a République).
Ieri, alcune centinaia di licei erano in agitazione, c’è stata una manifestazione improvvisata a Parigi al grido di “Macron dimissioni”, al di là delle rivendicazioni specifiche (riforma del Bac, contestazione di ParcourSup, il sistema di accesso all’università). Il video di 153 ragazzi in ginocchio con le manette dietro la schiena, girato a Mantes-la-Jolie nella banlieue parigina la vigilia in un cortile di un’associazione di fronte a un liceo in agitazione, con un sonoro che registra frasi di disprezzo da parte dei poliziotti, ha fatto esplodere ancora di più la protesta. Anche il ministro dell’Educazione nazionale, Jean-Michel Blanquer, si è detto “choccato”, ma il governo precisa le circostanze estremamente violente che hanno portato a questi fermi: dopo tre giorni di grossa agitazione e di scontri, sarebbero state rubate delle bombole di gas che i ragazzi, in parte non studenti, stavano per gettare sull’incendio che avevano appiccato al liceo, con il rischio di un’esplosione e di fare molte vittime (l’arresto è inquietante, ma non ci sono feriti tra i ragazzi). La sinistra attacca sulla repressione a Mantes-la-Jolie, Benoît Hamon parla di scena “inammissibile” e prevede “la collera come reazione”, Eric Coquerel della France Insoumise di “violenza inaccettabile e umiliante”. La presidente della regione Ile-de-France, Valérie Pécresse (Républicains), si schiera invece con la polizia.
Il governo drammatizza. “Il movimento dei gilet gialli è un mostro che è sfuggito ai suoi iniziatori”, afferma il ministro degli Interni, Christophe Castaner. Prevede una presenza di gilet gialli inferiore al 1° dicembre, ma un forte nucleo di estremisti, “un movimento fomentato da complottisti di ogni tipo – dice Castaner – e sfruttato da gruppuscoli estremisti che vogliono far vacillare la Repubblica” (circola l’accusa a Macron di aver “venduto la Francia all’Onu” con l’accordo di Marrakesh, che significherebbe “la grande sostituzione” della popolazione francese con degli immigrati). Oltre a una serie di fermi di violenti trovati in possesso di armi, due denunce alla giustizia: una della Procura di Parigi per il gilet giallo Eric Drouot, che ha postato un appello a “prendere l’Eliseo” e un’altra da parte del ministero degli Interni per il parlamentare Nicolas Dupont-Aignan di Debout la France, alleato di Marine Le Pen, che ha accusato i “casseurs di Castaner” (cioè dei provocatori) di aver vandalizzato l’Arco di Trionfo il 1° dicembre, un assalto a un simbolo che ha fatto il giro del mondo. Dall’Eliseo, è uscito solo un appello alla calma. “Il presidente è lucido sul contesto e sulla situazione”, afferma il presidente dell’Assemblea nazionale, Ferrand, “aspetta a parlare per non mettere olio sul fuoco” perché la collera è rivolta prima di tutto contro di lui, la sua persona, quello che rappresenta, il suo modo di rivolgersi ai cittadini, considerato arrogante. Emmanuel Macron dovrebbe parlare ai francesi “all’inizio della prossima settimana”. Ma la giornata di oggi potrebbe segnare una svolta decisiva per la presidenza. Un deputato della République an Marche del Pas-de-Calais ha ricevuto una pallottola per posta, con un biglietto: “la prossima volta la riceverai in mezzo agli occhi”. Molti sono stati minacciati. Hanno paura. La parte “moderata” dei gilet ha chiesto di non venire a Parigi. Alcuni sono stati ricevuti ieri dal primo ministro, Edouard Philippe. La sindaca di Parigi, Anne Hodalgo, chiede ai gilet di “prendere cura di Parigi”.
Il governo ha lanciato un appello alla calma. I sindacati, che si sono riuniti giovedi’, hanno ottemperato. Ieri sono stati ricevuti dalla ministra del Lavoro, Nicole Penicault (non c’era la Cgt), perché bisognerà aprire una lunga discussione sui salari, sul carovita, sul potere d’acquisto, sui diritti. Ma anche i sindacati hanno problemi di credibilità. Le persone, “a forza di incassare, esplodono” afferma Philippe Martinez della Cgt, che accusa il governo di “giocare con il fuoco”, mentre ritiene che la convergenza delle lotte con i gilet gialli non sia possibile “a livello nazionale”, anche perché “tra loro c’è gente infrequentabile”. La France Insoumise rifiuta l’appello alla calma, “la Francia è entrata in una rivolta generale contro l’ordine ingiusto”, afferma il leader Jean-Luc Mélenchon. Marine Le Pen trova patetico l’appello del governo. Un suo consigliere, Jean Messiha, afferma che chiedere di “fermare la violenza da parte del potere è legittimo solo quando metterà fine alle violenze economiche,  sociali e fiscali e smetterà di detestare la Francia e il suo popolo”. La destra di governo, invece, cambia rotta. Dopo l’assalto e l’incendio alla Prefettura di Puy-en-Velay, dove è stato a lungo sindaco, Laurent Wauquiez, leader dei Républicains e presidente della regione Rhône-Alpes-Auvergne (la cui sede ieri è stata occupata a Lione da gilet gialli), ha voltato le spalle al movimento, che sosteneva fino a quando era anti-tasse, ma che adesso lo preoccupa con le richieste di tipo sociale. Macron crolla nei sondaggi, ma nessuno nell’opposizione sale.

La Stampa 8.12.18
La Francia in ginocchio
di Cesare Martinetti


Ecco una classe che si comporta bene («qui se tient sage») dice in sottofondo la voce del poliziotto anonimo nel video che ci arriva dalle Yvelines, banlieue di Parigi, non certo la peggiore. Ma noi, una classe così ci ricordiamo di averla vista in Cina durante la rivoluzione culturale o in Cile durante il golpe di Pinochet, o da qualche altra parte, qualunque, che non fosse la Francia. Ragazzi in ginocchio, le mani legate dietro la schiena, qualcuno - i più «cattivi»? - con la faccia contro il muro ad aspettare la punizione. Saggi? Domati, come ribelli da umiliare, pronti alla punizione collettiva, un autodafé.
E invece ci siamo, Mantes-la-Jolie, liceo Saint-Exupéry diventato da ieri un altro pezzo simbolico del puzzle di parossismi che sta incendiando la Francia.
Quei ragazzi che vediamo inginocchiati non erano certo stati «saggi», ma dubitiamo che lo saranno d’ora in poi.
Bisogna esserci stati in quelle banlieues per riconoscere i gelidi elementi di décor semi-urbano che le caratterizzano, il vuoto d’orizzonte circoscritto dalle sagome bianche dei condomini-torre delle cités.
E invece no, pochi chilometri dal cuore di Parigi, si arriva col treno che parte dalla Gare di Saint-Lazare, si attraversa una giungla di cemento «taggata» da infiniti graffiti, quasi un geroglifico che scandisce come un rap ininterrotto quella Francia che bolle sotto la crosta della Francia. Uno di quei pezzi di mondo che emergono dalla rivolta di questi «gilets jaunes», attesi e temuti per il quarto sabato consecutivo nel cuore della capitale, là dove i fuochi della protesta si sono mangiati le «lumières» delle feste che dovrebbero arrivare.
Mentre i servizi segreti diffondevano inquietanti allarmi su tentativi di golpe da parte dei gilets jaunes i poliziotti delle Yvelines rispondevano con quest’azione esemplare contro i ragazzi del liceo Saint-Exupéry. I quali, il giorno prima, stando ai testimoni citati dai giornali, avevano svolto con perizia e determinazione un esercizio di guerriglia che poteva finire molto male. Si legge su Le Monde che mentre i compagni tiravano pietre e altro sui poliziotti, un gruppo di questi giovanotti hanno rubato una decina di bombole di gas dal deposito di un condominio e le hanno gettate tra le fiamme di una pattumiera incendiata. Non sono esplose. Per fortuna.
Ma intanto, violenza tira violenza e sembra una spirale fatale, in Francia, radicata nel Dna della sua storia, le esplosione della «colère» sociale sono infinite. Come spiega il politologo Marc Lazar in un’intervista sul «Figaro», c’è «un’attrazione quasi romantica per la violenza purificatrice e i riferimenti al Maggio ’68 sono automatici nella speranza di un esito radicale». C’è nell’inconscio collettivo francese una propensione a legittimare e addirittura a esaltare la violenza nel nome del vecchio precetto «ribellarsi è giusto» che - ricorda Lazar - spingeva i maoisti degli Anni 70 a sostenere le azioni violente idealmente uniti agli artigiani e ai commercianti che oggi rifiutano il liberalismo politico e la democrazia rappresentativa.
Bisognerebbe saper distinguere, scriveva ieri su «Libération» Said Benmouffok, ex allievo e poi ex insegnante del liceo Saint-Exupérix, tra i provocatori e i ragazzi di Mantes-la-Jolie che nella stragrande maggioranza vogliono soltanto «riuscire nei loro studi». In altre parole riscattare l’emarginazione ancestrale. Sarà utile allo scopo la punizione collettiva dell’altro giorno? Duecento fermi (quasi tutti poi rilasciati), molti tra i minori, in quest’esercizio autoritario di pedagogia statale servirà? Difficile pensarlo, ma si capisce che è anche difficile per la polizia affrontare tanta «colère».
Però questi comportamenti, scriveva ieri il direttore di «Le Monde» Jerome Fenoglio, servono soltanto a spargere un’immagine di guerra che invece andrebbe spezzata. E invece anche il presidente Macron e il suo ministro dell’Interno hanno dato l’impressione di saper solo alimentare la tensione. E oggi sarà un’altra giornata difficile.

il manifesto 8.12.18
Val di Susa sbarca in città: «È il giorno della liberazione»
Alta velocità. Oggi a Torino la risposta dei No Tav alla «marcia dei 40 mila» favorevoli al contestato Tunnel. Attese migliaia di persone
di Mauro Ravarino


TORINO L’8 dicembre non è una data scelta a caso per rispondere alla nuova marcia dei 40 mila, che un mese fa portò in piazza Castello, cuore di Torino, i Sì Tav con tanto di «sviluppismo d’antan» e l’invito agli oppositori dell’alta velocità Torino Lione a «comprarsi una mucca e una pecora», sloggiare dalla Val di Susa per andare a vivere su qualche montagna isolata. È il giorno dell’anniversario della liberazione di Venaus, vero mito fondativo del movimento No Tav: l’8 dicembre del 2005, pochi giorni dopo il violento sgombero del presidio da parte delle forze dell’ordine, un nutrito corteo partito da Susa rimosse le reti di recinzione del futuro cantiere e invase i prati, bloccando così i lavori.
A Torino, quest’oggi sono attese decine di migliaia di persone. È una tappa nodale della lunga lotta contro una grande opera ritenuta inutile, impattante e costosa. La partenza è fissata per le ore 14 da piazza Statuto, il serpentone si dirigerà, poi, verso piazza Castello, luogo che più volte il movimento ha riempito. La scossa del 10 novembre si è sentita, il movimento si è rimesso in moto.
«Se sottotraccia ci è stata lanciata una sfida, noi, sottotraccia, l’accettiamo e per questo saremo a Torino a portare le nostre idee con temi chiari e non potremo certo essere presentati come qualcosa di vecchio e, a differenza di altri, non tiferemo per Cavour», ha commentato Lele Rizzo, uno dei leader della protesta, presentando la manifestazione. Contro gli slogan retorici dei Sì Tav «le madamin e gli imprenditori» e «la loro ideologia ottocentesca», i No Tav oppongono «dati, fatti e argomenti», per smontare le cicliche «fake news» (come la chimera che porti lavoro) nonché una trentennale storia di partecipazione, invidiata da Nord a Sud.
La priorità italiana, come ha detto su queste pagine lo storico dell’arte Salvatore Settis, è la messa in sicurezza di un territorio fragilissimo come quello della nostra penisola. Un’iniziativa che porterebbe molto lavoro, come la ristrutturazione indispensabile di strade, scuole ed ospedali. «Stiamo assistendo – ha raccontato, durante la presentazione, il sindaco della Val di Susa, Sandro Plano, Pd non allineato al pensiero unico – a una omissione delle vere necessità del Paese. Quando si dice “prima gli italiani” bisognerebbe veramente pensare al bene di tutti gli italiani e che si vada rapidamente da Torino a Lione mi sembra, invece, una questione irrilevante. Il collegamento tra Italia e Francia per merci e persone è già ampiamente assicurato».
Arriveranno a Torino da ogni parte d’Italia per testimoniare come la lotta No Tav sia tutto fuorché nimby. Ci saranno anche i No Terzo Valico. Nei cantieri dell’infrastruttura, a Voltaggio in provincia di Alessandria, è rimasto gravemente ferito un operaio, caduto per 3-4 metri durante le operazioni di «impermeabilizzazione» di un pozzo di aerazione. Ci saranno, tra gli altri, Legambiente, Arci, Rifondazione, Sinistra italiana, Dema, la Fiom, molti sindacalisti della Cgil, la Cub. Ci sarà anche il M5s, un tempo grande sostenitore della lotta ora, al governo con la Lega, in una posizione meno lineare. Sarà contestato? Per ora, non ci sono segnali in questa direzione, ma non è da escludere.
Il movimento No Tav in questi giorni ha tenuto un profilo basso sulle diatribe politiche a Palazzo Chigi. È atteso Beppe Grillo, non si è sicuri, però, se verrà. Alberto Perino ha detto di averlo direttamente invitato cogliendo l’occasione di annunciargli via sms la prescrizione del reato di violazione dei sigilli alla baita della Maddalena di Chiomonte. Ci sarà, probabilmente, anche qualche gillet giallo transalpino, i provenienti dalla zona della Maurienne.
Alla manifestazione sarà presente, con la fascia tricolore, il vicesindaco di Torino Guido Montanari. La sindaca Chiara Appendino, auspicando «una manifestazione pacifica», intercettata davanti al Mise prima dell’incontro con Di Maio ha dichiarato: «Credo che entro fine mese si conosceranno i costi e i benefici e anche i costi di una eventuale uscita dall’opera. È opportuno che si faccia in fretta perché l’indecisione ha un peso, quindi bene le analisi, poi il governo deve decidere».
Il ministero dei Trasporti, ieri, ha descritto come «fake news in piena regola» le millantate analisi costi-benefici che vengono evocate in questi giorni dai favorevoli all’opera. «Esistono sette documenti che valutano vari aspetti del progetto specifico o il Corridoio Mediterraneo nel suo complesso, che non possono però essere definiti come vere e proprie analisi costi – benefici. Non forniscono, infatti, una valutazione della redditività socio-economica dell’intero progetto».
Questa è la giornata internazionale contro le «grandi opere inutili, imposte e per la difesa del pianeta», diversi movimenti si mobiliteranno nei propri territori. Per i No Tav è una giornata campale, ma loro ribadiscono, come riporta il manifesto della manifestazione disegnato da Zerocalcare: «C’eravamo, ci siamo e ci saremo sempre».

il manifesto 8.12.18
Il «sovranismo psichico» di un’Italia povera e incattivita
Rapporto Censis. I migranti il capro espiatorio degli italiani passati alla «difesa delle trincee». Il reddito ristagna: tra il 2000 e il 2017, 400 euro in più all’anno contro i 6 mila in Francia
di Roberto Ciccarelli


Sovranismo psichico, prima ancora che politico. È la definizione del Censis nel 52esimo rapporto presentato ieri al Cnel a Roma. Più che un’analisi sui dati dell’economia, e della sua crisi, l’indagine trova un suo interesse per il panorama che offre sulla crisi della soggettività nell’epoca del risentimento e del «populismo» al potere.
L’espressione ridondante di «sovranismo» non allude solo al conflitto tra Stato-Nazione e tecnocrazia europea, ma al cittadino-consumatore che «assume i profili paranoici della caccia al capro espiatorio». Si esprime «in un egolatrico compiacimento nei consumi» mentre il suo reddito ristagna – tra il 2000 e il 2017, solo 400 euro in più all’anno contro i 6 mila in Francia dove sono insorti i gilet gialli – ed è drammatica l’emergenza casa (solo 4 mila alloggi sociali costruiti) in un paese di gente senza casa e di case senza gente.
LA CACCIA AL CAPRO ESPIATORIO è auspicata, per motivi elettorali, dai populisti. Dall’alto, sul balcone di Facebook c’è un ministro dell’Interno che gestisce un’economia psichica che ieri aveva al centro il «rancore» e oggi la «cattiveria» contro gli inermi. In basso, si registrano le aggressioni, quella fascista di Macerata o quella a una ragazza rom l’altroieri nella metro di Roma. L’alto e il basso si saldano nelle norme del cosiddetto «Dl sicurezza»: galera contro «l’accattonaggio molesto», oppure per i sindacati e movimenti che fanno blocchi stradali o occupano. In entrambi i casi si prospetta l’uso penale del diritto contro il dissenso e i poveri. «La conflittualità latente, individualizzata, pulviscolare e disperata», rilevata dal Censis, non è uno stato di natura, ma una condizione governata attraverso l’uso mediatico di un’emergenza fittizia.
VIVIAMO IN UN’«ERA biomediatica» dove si è rovesciato il rapporto tra l’io e il sistema dei media. Il soggetto ne è diventato il protagonista centrale, anche perché senza di lui Facebook o Twitter non esistono. Geniale invenzione: piattaforme senza contenuti che realizzano i loro profitti con i contenuti personali prodotti gratuitamente dai loro utenti.
Ciò che legittima questa situazione è la «vetrinizzazione del sé», la vita trasformata in un brand dell’Io. Le fashion blogger, gli «autori» o i politici, ad esempio. Il Censis interpreta questa trasformazione nei termini della «celebrità». Un terzo del suo campione ritiene che la popolarità sui social network sia un ingrediente «fondamentale», a dispetto dei titoli di studio (il 41,6% tra i 18-34enni). Ma, allo stesso tempo, un quarto afferma che i «divi» non esistono più (il 24,6%). Nell’economia digitale, tuttavia, tutti sono sollecitati a mettersi in mostra. La nostra esistenza coincide con la «visibilità» e, talvolta, con la sua monetizzazione. Non è un’eccezione, è la regola. I social media fanno parte della politica – non sono «pre-politica», né sovrastruttura. È politico il lavoro di chi, nello stato e nel mercato, forma il senso comune a partire dal sistema pulviscolare degli account personali. Il «sovranismo psichico» unisce le élite al loro popolo reinventato quotidianamente sulle piattaforme digitali. E lo chiama «popolo».
SIAMO PASSATI DALL’ASSALTO al cielo alla «difesa delle trincee», la formula del Censis è efficace. Segno che per questa soggettività introflessa, vulnerabile e capace di affermare la sua passione per le merci che non riesce più ad acquistare, la salvezza sta nel difendere l’ultima proprietà che resta: la sovranità sull’identità. L’intolleranza verso gli stranieri, sui confini esterni, ha un analogo all’interno.
L’identità è sessuata, maschile, tradizionalista e patriarcale. Il 43,2% del campione interpellato non vuole convivenze tra persone non sposate, il 37,1% è paladino della tradizionale divisione dei ruoli e il 22,7% è convinto che le faccende domestiche debbano essere svolte dalle donne. Lo pensa anche il 19,7% delle interpellate. È in questa torsione reazionaria che nascono le violenze maschili contro le donne, quelle che il movimento femminista Non una di meno denuncia instancabilmente da tre anni, non solo in Italia.
IL RISCHIO DELLE INDAGINI che intrecciano crisi individuali e sociali è limitare la clinica della paura alla dimensione psicologica e morale di un Io desovranizzato. La salvezza non sta in una nuova accumulazione del «capitale umano». Questa è una parte del problema, come emerge, ad esempio, nel libro di Federica Giardini I nomi della crisi. Antropologia e politica (Wolters Kluwer), una diagnosi chirurgica del nostro presente. Concorrenza, prestazione, empowerment – i valori del «capitale umano» – mescolano il tratto vitale delle passioni con una nuova gerarchia tra chi è più o meno concorrenziale.
Il «sovranismo psichico» è una reazione a questa situazione impossibile, prodotta dal mercato e usata dal populismo. E va decostruito con una critica dell’economia politica, e psichica, di quello che siamo diventati in questa bolla dell’odio e dell’impotenza.
Le alternative esistono. Ieri Giuseppe De Rita ha accennato al desiderio di un altro mondo, «un senso diverso del futuro», di un «mondo come società possibile». In Italia c’è una società viva che lo sta cercando. Lo dimostrano, a nostro avviso, anche le manifestazioni antirazziste da Milano, a Catania, a Roma. Ci vuole coraggio nel rendere queste testimonianze politicamente attive.

La Stampa 8.12.18
“Patria, sovranità e confini. È il sovranismo psichico”
di Francesco Grignetti

Quelli del Censis, inventori di definizioni fulminanti, ci sorprendono ancora. Stavolta è il «sovranismo psichico» che segna lo stato d’animo collettivo del 2018. Bella immagine, ma esattamente che cosa è? «Dopo il tempo del rancore, è arrivato il tempo della cattiveria. Ciò che abbiamo definito “sovranismo psichico” è uno stato d’animo pre-politico. È la necessità, di fronte a un mondo sempre più globale, di affermare: Noi sappiamo stare nel mondo globale, ma con un modello che dev’essere tutto nostro», risponde Giorgio De Rita, segretario generale del Censis.
Ci spieghi meglio.
«Premesso che la dimensione economica e quella sociale formano un impasto complesso, noi sosteniamo che l’Italia è delusa perché ha creduto seriamente alla ripartenza dopo la grande crisi, ma se pure l’economia ha dato segni di vitalità, non si sono visti effetti nella società. Ecco perché c’è stata la grande discontinuità del voto del 4 marzo: una larga fetta della società ha voluto mettere in discussione un modello di sviluppo (e anche i partiti tradizionali) che stava dentro i processi sovranazionali. E qui sono riemerse antiche parole d’ordine, come patria, sovranità, confini».
Voi dite che questa reazione è propositiva?
«Il corpo sociale ha reagito con la riaffermazione della sovranità, ovvero della politica, visto che l’economia non è riuscita a risolvere i problemi. Dopo tanti anni di rancore, il corpo sociale ha voluto riaffermare la propria centralità e la voglia di spezzare il declino che si vede avanzare passo dopo passo».
In effetti si sente spesso lo slogan: prima i cittadini, poi i numerini. Salvo che con la legge di Bilancio la maggioranza è chiamata a una prova di realtà.
«Esatto. Un conto è affermare che serve un nuovo modello di sviluppo, altro è riuscirci. Ma è innegabile che già l’anno scorso, come affermavamo nel Rapporto 2017, si stava chiudendo un ciclo. Avevamo visto che era in arrivo una reazione emotiva. Per questo diciamo che è finita la stagione del rancore, e si è aperta quella della cattiveria. La differenza è che il rancore era sterile, fine a sé stesso. Ora, con il sovranismo psichico, c’è voglia di riscatto».
Non è propriamente una lettura di sinistra, vero?
«Mi rendo conto che il mainstream di sinistra non sarà d’accordo, ma resta il fatto, secondo noi, che questa rottura esprime un progetto e abbandona la fase sterile del puro risentimento. C’è una domanda di regole da parte degli italiani che è sempre più forte. Regole per la gestione del territorio, per il welfare, per l’istruzione, per la convivenza civile. E non è soltanto isolazionismo. Gli italiani sono, per certi versi, sempre gli stessi. Riaffermano il mondo come società possibile, come luogo dove esprimere la capacità degli italiani e del modello di sviluppo italiano di essere dentro i processi globali».
Quindi lei, De Rita, vede una reazione positiva?
«Vedo che da parte del corpo elettorale c’è stato un mandato politico forte a una rottura con un modello di sviluppo. Naturalmente la richiesta è accompagnata da alcune condizioni. Ne vedo due in particolare: che il nuovo modello sia aderente alla realtà e che nel procedere non ci siano tentennamenti. Nel momento in cui si vedesse che la politica si perde per strada, non la perdoneranno. Ogni incertezza rispetto agli annunci sarà punita».
Lei dice che comincia anche la stagione della paura. Ma quand’è che gli italiani si acquieteranno?
«Quando ci sarà una risposta al primo dei problemi, che è il lavoro. Se l’economia riparte ma non ci sono dividendi per il lavoro, gli italiani non riconoscono il nuovo senso di marcia. È quel che ha penalizzato Renzi: puoi dare tutti i bonus che vuoi, ma devi riuscire a dare il senso di uno scatto in avanti della società. Questo è il mandato che hanno ricevuto le forze politiche vincenti il 4 marzo».
Che ci riescano, come dicevamo, è tutto da vedere.
«Naturalmente. Ma io sono ottimista. Credo che l’Italia riuscirà ad affermare un nuovo modello di sviluppo».

La Stampa 8.12.18
“Spaventati e incattiviti”
Il Censis fotografa gli italiani
Il Rapporto 2018: “Solo due su dieci guardano al futuro con ottimismo”
di fra. gri.


È dura da dirlo, ma gli italiani si sono «spaventati e incattiviti». Eppure non è detto che sia un male. «Nel sottofondo delle dinamiche collettive, si vede una efficacia dei processi in atto. E si conferma l’antica verità che solo le risoluzioni delle crisi inducono uno sviluppo».
È l’ultimo Rapporto del Censis a certificare che siamo entrati in una fase nuova, sociale prima ancora che politica. «C’è stato nel 2018 un rabbuiarsi dell’orizzonte di ottimismo». Al contrario, gli italiani vedono sempre più nero. Di qui la scoperta di un «sovranismo psichico» che precede il sovranismo economico. La fase della cattiveria. C’entra l’immigrazione, che per una larga fascia del corpo sociale «ruba» lavoro: il 69,7% degli italiani non vorrebbe i rom come vicini di casa e il 52% è convinto che si fa di più per gli immigrati che per gli italiani (ma si sale al 57% tra le persone più povere).
C’entra un senso di profonda insicurezza: su 100 italiani, secondo il Censis, 30 si dicono «arrabbiati perché troppe cose non vanno bene e nessuno fa niente per cambiarle»; 28 sono «disorientati» in quanto ammettono di «non capire cosa stia accadendo»; 21 sono negativi, «le cose andranno sempre peggio». Appena il 21% guarda alla realtà con uno stato d’animo «positivo» in quanto «viviamo un’epoca di grandi cambiamenti».
Dopo la grande crisi
Il Rapporto Censis racconta di una società in crisi di spessore e di profondità. «Gli italiani sono incapsulati in un Paese pieno di rancore e incerto nel programmare il futuro». Dilaga il risentimento «di chi non vede riconosciuto l’impegno, il lavoro, la fatica dell’aver compiuto il proprio compito di resistenza». Si citano le imprese che hanno saputo ristrutturarsi, anche attraverso vie dolorose di sacrifici e tagli all’occupazione, ma non vedono risposte. Non è pervenuta la modernizzazione degli assetti pubblici, del fisco, della giustizia, delle reti infrastrutturali, della ricerca. «L’operaio, il dirigente, il libero professionista o il commerciante che hanno affrontato la crisi economica hanno atteso, troppo spesso invano, il miglioramento del contesto che a quegli sforzi dava senso e direzione».
È dura da dire, ma la risposta è appunto il «sovranismo psichico», ovvero un popolo che «si ricostituisce nell’idea di una nazione sovrana supponendo, con un’interpretazione arbitraria ed emozionale, che le cause dell’ingiustizia e della diseguaglianza sono tutte contenute nella non-sovranità nazionale». Non sono mancati i commenti del governo. Luigi Di Maio: «Il rapporto parla di italiani sempre più arrabbiati: hanno ragione, noi siamo i primi arrabbiati per quello che non si è fatto in questi anni». E Matteo Salvini: «Stiamo cercando di gettare acqua sul fuoco che qualcun altro ha acceso».


il manifesto 8.12.18
Paura dei migranti, e il rancore diventa cattiveria
Rapporto Censis. Un quadro allarmante, su cui pesa molto la condizione lavorativa dei giovani. Precarietà, sottoccupazione, part-time involontario
di Luigi Pandolfi


Un Paese incattivito. Cupo, anziano, diffidente, senza speranza. Non è la Francia dei Gilet jaune, che molto sta facendo parlare di sé in questi giorni. E’ l’Italia di oggi, raccontata alla luce delle sue frustrazioni nell’ultimo Rapporto del Censis.
L’Italia che il 4 marzo aveva affidato la cura della sua rabbia sociale ai partiti populisti, oggi uniti in matrimonio nel governo giallo-verde, che adesso non nasconde un certo disincanto per come stanno andando le cose, a cominciare dall’andamento dell’economia (pesa lo shock per l’arretramento del Pil dopo 14 trimestri di crescita).
Complice lo «sfiorire della ripresa», monta la convinzione che gli anni a venire non saranno affatto quelli del miglioramento delle condizioni materiali di vita della stragrande maggioranza della popolazione, di quelli che maggiormente hanno pagato il prezzo della crisi nell’ultimo decennio.
Non c’è un crollo del consenso verso i partiti di governo, non ancora, ma l’idea che «anche questa volta» le aspettative su un cambio radicale di marcia del Paese possano andare deluse è già presente in una fetta larga dell’elettorato. Nessuna rivalutazione di «quello che c’era prima», beninteso. La rabbia, che nel frattempo è diventata «cattiveria», si sta tramutando in «sovranismo psichico», nella ricerca di un «sovrano autoritario» al quale affidare le sorti del Paese.
Per decenni, in Europa, le nuove generazioni hanno vissuto nella certezza che la loro vita sarebbe stata migliore di quella dei propri padri. Ora non è più così. In Italia più che altrove. Nel nostro Paese, secondo le rilevazioni del Censis, solo il 23% dei cittadini dichiara di aver migliorato la propria condizione socio-economica rispetto ai genitori, contro una media Ue del 30%.
Quasi nessuno, poi, tra le persone con un basso titolo di studio o a basso reddito pensa che il futuro possa riservare alla propria esistenza materiale qualcosa di meglio.
Un salto indietro di un secolo, almeno. L’ascensore sociale si è di nuovo bloccato, è andato in frantumi il patto sociale su cui si è retta l’Italia per oltre un sessantennio. Cala la fiducia nella politica, cresce il risentimento verso le istituzioni europee (solo il 43% degli italiani pensa che l’appartenenza alla Ue abbia fatto bene all’Italia, a fronte di una media europea del 68%), gli immigrati fanno sempre più paura (sono un problema per il 63% degli italiani).
Il dominio del capitale è entrato in una fase nuova. Se ieri i nostri problemi derivavano dal fatto che avevamo vissuto «al di sopra delle nostre possibilità», oggi la causa dei nostri mali andrebbe ricercata nella concorrenza e nell’invadenza di chi sta sotto di noi. Per il 58% degli italiani gli immigrati sottrarrebbero posti di lavoro ai connazionali e minaccerebbero la tenuta di ciò che resta del welfare state.
Coperta corta, risorse scarse, ognuno a casa propria. Il problema non è l’iniqua distribuzione della ricchezza ma la sottrazione di risorse da parte di chi entra in casa nostra «senza averne diritto».
Eppure, se in Italia i salari sono aumentati soltanto dell’1,4% dal 2007 al 2017, mentre in Francia e in Germania l’aumento è stato nello stesso periodo, rispettivamente, del 13,6 e del 20,4%, una domanda bisognerebbe porsela sullo stato delle nostre relazioni industriali, su come le stesse si siano via via modificate in questi anni.
Il Rapporto del Censis dice anche che il potere d’acquisto delle famiglie italiane è sceso del 6,3% rispetto al 2008 (in termini reali) e che negli ultimi tre anni si è allargata la forbice nei consumi tra i diversi gruppi sociali (-1,8% le famiglie operaie, +6,6% quelle degli imprenditori). Il problema è di coperta corta o di distribuzione della ricchezza?
A maggior ragione se si tiene conto di un altro squilibrio: quello tra nord e sud del Paese. Dopo la crisi, c’è stata una parte dell’Italia che ha recuperato quasi tutto il terreno perduto ed un altra che è andata ancora più indietro, che rischia spopolamento e desertificazione economica.
Squilibri sociali, squilibri territoriali. Un quadro allarmante, su cui pesa molto la condizione lavorativa dei giovani. Precarietà, sottoccupazione, part-time involontario. In dieci anni, da 236 giovani laureati occupati ogni 100 anziani si sarebbe scesi a 99. Eppure, proprio i giovani avrebbero più fiducia nel progetto di integrazione europea: il 58% dei 15-34enni e il 60% dei 15-24enni.

Il Fatto 8.12.18
“Ho pianto, vivo un dolore” “Mica so se Renzi mi chiama”
I fedelissimi di Matteo - Dopo lo choc del ritiro di Minniti: la confessione di Emanuele Fiano e lo sfogo del falco Michele Anzaldi
di Antonello Caporale


Aperto al mondo, estroverso, con una significativa massa corporea, il milanese Emanuele Fiano è stato deputato renziano di primissimo complemento, membro della seconda segreteria del matador fiorentino. Oggi segue un pallido percorso revisionista, tenuemente afflittivo. Chiuso di carattere, gran lavoratore, di mezza età e mezza altezza, il palermitano Michele Anzaldi, esperto di comunicazione, vive da parlamentare la renzianitudine con sobrietà e un qualche disincanto.
Fiano: Ero in aula, è accaduto tutto d’un colpo. Quando lo stress si accumula, e anche il dolore (la notizia delle dimissioni di Minniti è stato un colpo fortissimo), non restano che le lacrime. Anche un evento privato angoscioso mi ha indotto nel pianto liberatorio. I miei compagni di gruppo mi si sono fatti intorno. Viviamo un lutto politico.
Anzaldi: Quando hanno saputo della rinuncia di Minniti sono sbiancati in volto, tutti a domandarsi: mamma mia che succede? Era il loro destino a fargli paura o quello del partito? (Opterei per la prima considerazione).
Fiano: Io resto nel Pd. È la mia casa e la mia vita.
Anzaldi: Il Pd è distrutto, finito.
Fiano: Questo mondo ha bisogno della sinistra.
Anzaldi: Minniti ha fatto tre dichiarazioni. La prima che non era renziano, la seconda anche, la terza pure. Sarà concesso a Matteo Renzi di dire: ma bello mio, se questa è la considerazione che hai di me allora sai che c’è? Bye bye.
Fiano: Ho avuto una grande passione per la stagione di Matteo, oggi gli chiedo sempre se ha preso decisioni diverse dalla storia del Pd, di spiegarle, di condividerle, di non farle durante il congresso del Pd.
Anzaldi: Nel partito nessuno fa più nulla. Non solo non si parla più di politica, ma nemmeno si lavora. Possibile che sulla questione delle auto ibride siamo stati solo in tre ad essere intervenuti?. E gli altri?
Fiano: C’è un mondo nuovo e ci sono temi urgenti che hanno bisogno di una risposta. Ho capito che qualcosa andava storto quando i Cinquestelle hanno portato in Parlamento precari, giovani, laureati disoccupati. Era un mondo che ci apparteneva.
Anzaldi: Non dimentico che è stato Paolo Gentiloni a portarmi qua dentro ma non dimentico che è stato Renzi a togliermi dal frigo. Mi avevano messo in un frigorifero e lì stavo.
Fiano: Io non dimentico che la politica è passione.
Anzaldi: Renzi taglia teste come se fossero cocomeri, quindi che ne so se mi porterà con lui, se farà qualcosa, se andrà via oppure no. So che è uno dei pochi che si dà da fare.
Fiano: Sono affranto, mi sono stati vicini mia moglie, i miei figli.
Anzaldi: A me non piace il signorsì. Se Renzi un giorno dice: bastoniamo quel coglione, un suo portaordini dirà: “Sì, è un fascista di merda”. E l’ultimo della fila pur di fare l’inchino proporrà di tagliargli la testa. Io sono di diverso parere. Se Renzi fa una cazzata bisogna dirglielo. E lui magari apprezzerà anche.
Fiano: È la nostra unità a rischio. Ma quale bene più supremo c’è? Oggi è il Pd e guardi, glielo dico col cuore, domani magari, dovessero presentarsi le occasioni, potremmo valutare in quale modo presentarci, sotto quale forma, con quale coalizione.
Anzaldi: Renzi si fa il suo partito? Embè? Il cinque, il sei il sette o il dieci per cento? È comunque una cosa. Qui c’è il deserto. Manca una testa che diriga, delle menti che organizzino l’opposizione, un metodo di lavoro. Ciascuno fa quel che gli pare. Ma dove ti imbarchi, andiamo!
Fiano: So che l’avventura politica presto o tardi finirà ma non ho paura del domani. Verrà il mattino e il sole sorgerà di nuovo, diceva mio padre. Sono architetto, qualcosa mi inventerò.
Anzaldi: Mica so cosa farò? Mica so se Renzi mi chiamerà? Le ho detto che con lui ho un rapporto di lealtà ma non di fedeltà. Capisco però le sue buone ragioni. E dai, Minniti, muovi il culo dalla sedia. Sei candidato alla segreteria? E incontra i sindacati, incontra la Fnsi che è sotto botta, fatti vedere, sentire. Invece tre dichiarazioni. Per dire cosa? Che non era renziano.
Fiano: Io ho pianto per Berlinguer, la politica è anche sentimento, passione pura. La politica è corpo, è fegato. La politica ti riempie la vita.
Anzaldi: Quando Minniti si è ritirato c’era chi piangeva ma c’era anche chi rideva. Uno su tutti: Zingaretti. Grazie, ora corre da solo!
Fiano: I grandi temi della contemporaneità: dall’immigrazione, all’ecologia, al potere di internet. Dico ai miei compagni: dobbiamo esserci ora che siamo dentro lo snodo della storia. Ripeto sempre: leggete i libri, leggete cosa è successo tra il 1929 e il 1932 (ma non ho alcuna sicurezza che leggano i libri).
Anzaldi: Io ho lavorato con Rutelli, poi con Gentiloni, infine con Renzi. Mi sono sempre occupato della comunicazione e si trottava. Adesso mi sa dire l’ufficio stampa che fa? Battagliamo in tre o quattro, il resto della truppa è assente. Spettatori di un film, ecco cosa siamo divenuti.
Fiano: Trovo un po’ astratta la discussione sul domani. Pensiamo all’oggi.
di Antonello Caporale | 8 dicembre 2018

La Stampa 8.12.18
Machiavelli riappare in america
di Gianni Riotta

Nel 1942 il filosofo francese Maritain, in esilio dal nazismo, scrisse un desolato pamphlet, «La fine del machiavellismo», implorando gli Stati Uniti di impegnarsi contro tutte le dittature (in italiano La Locusta 1962). Washington appariva isola di libertà in un pianeta totalitario, in America tanti diffidavano invece dall’idea di farsi giustizieri degli oppressi. Perfino dopo Pearl Harbor, molti parlamentari non intendevano dichiarar guerra a Germania e Italia, solo al Giappone. Da sempre, la politica internazionale americana non risponde agli accorati appelli alla Maritain, ma a quattro, classiche, scuole di pensiero.
Ci sono i seguaci di Thomas Jefferson, che detestano l’America «imperiale» che impone valori, campioni il presidente Eisenhower e il diplomatico Kennan; contro di loro i paladini di Alexander Hamilton puntano su forza militare ed economica, vedi Theodore Roosevelt e Bush figlio; poi i fedeli del presidente Wilson, l’America predica il suo credo, certa che ogni popolo lo condividerà, in prima fila John Kennedy; infine i discepoli di Andrew Jackson scommettono sulle armi, insofferenti al negoziato, come i consiglieri di Trump, Bolton e Bannon.
E il presidente stesso, Donald Trump, da che parte sta in politica internazionale? A lungo gli analisti lo hanno iscritto alla scuola del presidente Jackson, ma, tranne lo sporadico raid in Siria, Trump è scettico sui raid bellici e, solo a malincuore, accetta di mantenere contingenti in Afghanistan e Medio Oriente. Sogna un’America libera da impicci.
Il suo atteggiamento davanti all’Arabia Saudita, dopo l’assassinio feroce del giornalista dissidente Jamal Khashoggi, conferma infatti che Trump crede solo ai rapporti di forza, nudi e crudi. Non vuol predicare dal pulpito sermoni democratici, come Kennedy e Reagan al Muro di Berlino, o Obama all’Università del Cairo. Crede, come avesse imparato a memoria il nostro cancelliere fiorentino Niccolò Machiavelli, alla realtà, punto e basta. Una ricerca su Google, «Trump-Machiavelli», apre a sorpresa 901.000 siti solo in inglese. È dunque Trump l’ultimo dei machiavellici, quando dichiara di tenere più a petrolio e contratti militari con i sauditi, che alla giustizia su Khashoggi, smentendo perfino la Cia sulle colpe di Riyadh? Beninteso, Trump non è il primo presidente Usa che, in nome della Realpolitik, sostiene regimi sanguinari, Eisenhower abbracciò il dittatore spagnolo Franco e lasciò scattare il golpe in Iran contro il premier Mossadegh, 1953, organizzato da una spia nipote del presidente Roosevelt. I democratici Kennedy e Johnson appoggiarono i despoti di Saigon in Vietnam e la stessa Cia tramò contro il presidente Allende in Cile. Ma, sempre, questi interventi vennero coperti dalla diplomazia del «male minore», l’America faro di libertà, solo a volte costretta dalla Storia a dolorose azioni.
Non così Trump. Già in campagna elettorale, nel ’16, aveva usato i toni scabri che Machiavelli eterna nel «Principe» e di cui si occupa nel suo nuovo saggio «Nondimanco» (Adelphi) lo storico Carlo Ginzburg: credere solo alla realtà, nessuna utopia, nessuna «missione speciale». Funzionerà? Accetterà l’America scettica del XXI secolo il pragmatismo scabro di Niccolò e Donald, dimentica dei tempi di Kennedy e Reagan quando si vedeva, a sinistra e a destra, maestra di civiltà? Si è esaurita, dopo due secoli e mezzo, la sua missione salvifica? I prossimi anni ce lo diranno, davanti alla sfida di Cina e Russia. Studiosi conservatori come Mearsheimer pensano di sì, diplomatici veterani come Haass o Burns, pur repubblicani, pensano sia impossibile. E Henry Kissinger, il miglior allievo che il grande Machiavelli abbia avuto nel Novecento, certo che «L’America non abbia amici o nemici eterni, solo interessi» si schiera a sorpresa, durante un seminario privato: «Son sempre stato un realista, ma sarà impossibile per l’America rinunciare alla tradizione di difesa della democrazia, almeno nelle intenzioni».

il manifesto 8.12.18
Israele vuole dagli alleati via libera a guerra “preventiva”
Libano del sud. Un ministro fa sapere che l'esercito potrebbe espandere in Libano l'operazione “Scudo del Nord” per distruggere i tunnel di Hezbollah al momento in corso sul versante israeliano del confine. Una mossa che innescherebbe un nuovo conflitto
di Michele Giorgio


GERUSALEMME Sembravano un bollettino di guerra ieri la prima e la seconda pagina dello Yediot Ahronot. Per il quotidiano israeliano, Kufr Kela, il villaggio libanese da dove ha inizio il tunnel scavato da Hezbollah sotto il confine e scoperto dall’esercito israeliano, sarebbe una base di lancio dell’attacco che Hezbollah intenderebbe scagliare contro il nord dello Stato ebraico. Una cartina pubblicata dal giornale indicava i presunti punti di osservazione dei combattenti del movimento sciita, le postazioni dei razzi, i depositi di munizioni. Tutto pronto, tutto pianificato dall’Iran, sosteneva due giorni il premier Netanyahu chiedendo altre sanzioni contro Tehran, durante un tour organizzato con gli ambasciatori stranieri nelle zone dove sono attive le unità militari impegnate nell’operazione “Scudo del Nord”, per smantellare i tunnel.
Per il premier israeliano la battaglia, per ora a distanza, con l’Iran si combatte in Libano e non più in Siria. E nuove munizioni alla sua offensiva diplomatica sono state fornite dall’Unifil, il contingente dell’Onu schierato nel sud del Libano. Un comunicato dei caschi blu agli ordini del generale italiano Stefano Del Col, conferma l’esistenza di un tunnel denunciato da Israele. Tel Aviv subito dopo ha fatto trapelare che potrebbe espandere in territorio libanese l’operazione “Scudo del Nord”. L’ha detto un ministro ancora a Yediot Ahronot. Israele vuole ottenere una sorta di via libera internazionale per entrare in territorio libanese a “scopo preventivo”, per eliminare i pericoli posti lungo il confine da Hezbollah. E se questo dovesse poi innescare una guerra – Hassan Nasrallah, il leader del movimento sciita, ha più volte avvertito, anche di recente, che qualsiasi attacco o operazione israeliana in territorio libanese sarà seguita da una dura reazione dei suoi uomini – la responsabilità sarebbe fatta ricadere interamente sull’altra parte. Israele punta inoltre a mettere in difficoltà Hezbollah nel Paese dei cedri, di fronte alle altre forze politiche, per minare la credibilità e il sostegno di cui gode.
A Beirut la preoccupazione cresce con il passare delle ore. Il primo ministro designato, Saad Hariri, ha detto «Gli sviluppi sul confine meridionale non devono costituire una ragione per un’escalation, ed è questo che vogliamo e cerchiamo con tutti gli attori internazionali e parti amiche che si occupano della questione». Il Libano ha chiesto soccorso, probabilmente a Francia e Usa, per frenare Israele. «Il governo libanese – ha aggiunto Hariri – sottolinea l’impegno a rispettare gli obblighi della risoluzione 1701 (che nel 2006 mise fine all’invasione israeliana del Libano del sud e alla guerra tra Israele e Hezbollah) e l’esercito libanese è l’unico responsabile della protezione del confine e l’autorità legittima». Ma il premier designato ha anche messo in rilievo ciò che i governi e i media internazionali fingono sistematicamente di non vedere, ossia «le continue violazioni dello spazio aereo e delle acque territoriali libanesi da parte di Israele».
L’Onu, a causa dell’opposizione degli Stati uniti, non ha mai dato accoglimento alle proteste libanesi. Il Palazzo di vetro però l’altra notte ha riservato una delusione cocente a Israele e all’ambasciatrice Usa uscente, Nikki Haley, bocciando la mozione che chiedeva la condanna di Hamas per il lancio di razzi verso il territorio israeliano. Hamas e l’Anp di Abu Mazen hanno accolto il “no” con grande soddisfazione. Il portavoce del movimento islamista, Sami Abu Zuhri, parla di «schiaffo in faccia all’amministrazione Usa» e di riconoscimento della legittimità della resistenza palestinese all’occupazione israeliana.

il manifesto 8.12.18
Una patente filo-israeliana per la destra razzista
L'appello. La lettera degli ebrei italiani in vista della visita del ministro degli interni Salvini in Israele: «l’intesa tra la destra italiana ed europea e l’attuale governo israeliano costituisce un problema per la democrazia a cui gli ebrei della diaspora dovrebbero essere moralmente e politicamente interessati»

L’imminente visita del ministro degli Interni Salvini in Israele è motivo di allarme per molti ebrei italiani per almeno due motivi:
1) Il governo italiano conduce un’accanita campagna volta a creare un vergognoso clima di ostilità contro diritti umani universalmente riconosciuti e contro gli immigrati, i rifugiati e coloro che li soccorrono, o che puntano a una razionale politica di integrazione che limiti la condizione di irregolarità. Al contrario, il governo opera per costringere alla irregolarità il maggior numero di persone, per aumentare le paure sociali che ne derivano, paure su cui specula politicamente. Le iniziative intraprese da Salvini e dal suo governo dovrebbero allarmare chiunque abbia a cuore elementari principi di civiltà, solidarietà e giustizia sociale e sia consapevole delle sciagure che il nazionalismo e l’istigazione all’odio etnico hanno sempre portato per tutti, e in particolare per gli ebrei italiani ed europei.
2) Riteniamo allarmante che Netanyahu stia per conferire al ministro degli interni italiano una patente filo-israeliana, che lo scagioni dal sospetto di antisemitismo mentre continua nella sua campagna xenofoba e razzista e nelle sue alleanze con forze antisemite in Italia e in Europa. Siamo invece d’accordo con le parole pronunciate di recente alla Knesset dal Rabbino Pinhas Goldschmidt (presidente della Conferenza dei Rabbini Europei) che ha messo in guardia le comunità ebraiche dall’avallare politiche nazionaliste che sono spesso «razziste, ostili alla libertà di religione e ai valori fondanti delle democrazie liberali».
Il monito di Pinhas Goldschmidt rammenta a tutti, e in particolare agli ebrei italiani, che l’intesa tra la destra italiana ed europea e l’attuale governo israeliano costituisce un problema per la democrazia e il pluralismo a cui gli ebrei della diaspora dovrebbero essere moralmente e politicamente interessati.
Per queste ragioni crediamo che la comunità ebraica italiana debba riflettere criticamente sui motivi che spingono Netanyahu e Salvini a stringere un’intesa che sembra sorda tanto agli avvertimenti del presidente della Conferenza dei Rabbini Europei, quanto alle esigenze degli ebrei e di altre minoranze etniche e politiche in Italia e in Europa.
***Stefano Levi Della Torre, David Calef, Beppe Damascelli, Bruno Segre, Deborah Taub, Tamara Levi, Giovanni Levi

La Stampa 8.12.18
Piccole larve in cerca di vita
Muro Messico-Usa - Ci sono Mirna, ma anche il piccolo Kevin. E poi Ashley e Oliver. Strisciano, si infilano e sperano, invano, di non tornare più indietro
di Fabio Bucciarelli

Il muro di confine taglia il paesaggio lunare come una lama. Di qui, il Messico, dall’altra parte, il luccicante Sogno Americano. Ed è proprio il sogno, quella speranza – più volte vana – di una vita migliore, il motore che spinge i migranti ad attraversare Paesi, a percorrere migliaia di chilometri con addosso la loro vita racchiusa in uno zainetto. Verso gli Stati Uniti.
Siamo a Tijuana, terra di confine, e come spesso accade, di traffici illeciti e di banditi. Qui, dove si respira l’America ma si parla ancora spagnolo, percorro la zigzagante autostrada verso Tijuana’s beach. Lasciata la città e le sue baracche, attraverso il Canyon del Matadero (nome che evoca la macellazione degli animali): un territorio di passaggio controllato ripetutamente da vedette americane e, da questo lato del border, da roboanti furgoncini messicani.
Da lontano vedo muoversi piccole figure. Uomini in uniforme che, come caricati a molla, cercano la loro preda: una manciata di migranti intenti a fare il grande salto. “Para! Para!” urlo al tassista che impaurito inchioda. Scendo velocemente dalla macchina, e cerco un punto panoramico per riuscire capire cosa stia succedendo.
Il confine appare come un lungo serpente senza testa: in pancia, un gruppo di migranti intrappolati fra il muro e il filo spinato. Sono riusciti ad attraversare il primo ostacolo, e a calpestare il territorio americano, ma questo non basta. Con le nuove leggi restrittive sull’immigrazione dell’amministrazione Trump, negli ultimi mesi il confine è stato rinforzato, cosparso di filo spinato. Chilometri di terra diventati l’incubo de los gringos.
Su e giù lungo la scoscesa collina, a ogni passo scendo nel girone infernale costeggiando il muro verso fondo valle. Si sentono le voci dall’accento honduregno. E i pianti dei bambini, tra gli sguardi atterriti delle loro madri e la stazza dei militari americani che, giunti sul posto, si piazzano davanti a loro, come a volere bloccare ulteriormente il passaggio.
Con il muro fra me e la realtà – come se non volesse farmela vedere, farmi raccogliere questi frammenti di vita – cerco un buco lacerato nelle lamiere metalliche per inserire il braccio, o almeno l’obiettivo. Le parole, le voci, invece passano, attraversano. “Non potete oltrepassare il filo spinato. Se i vostri figli si feriranno, vi manderemo in carcere. E sarà peggio per voi” dicono i militari alle giovani donne. Il tempo scorre lento fra minacce e speranze infrante, quando, dopo circa due ore, oramai esasperate, le donne desistono. Per un momento erano riuscite ad agguantare la speranza, ma ora, che è persa, bisogna tornare indietro, e attraversare ancora una volta il muro: in direzione contraria, però, verso il Messico.
Attraverso un pertugio invisibile ai più, esce il piccolo Kevin e le sue esili gambe seguite penzoloni dal resto del corpo, afferrato dal braccio della madre. Xinia ha solo 19 anni ma molti chilometri alle spalle. Una dopo l’altra escono Mirna, Darielle e Fabiola, seguite dai loro bambini. E poi ancora Ashley e Oliver, rispettivamente 10 e 7 anni: loro soli, senza le madri già entrate mesi fa nel territorio americano. Dall’Honduras si sono uniti alla Caravana, con il desiderio di ricongiungersi alle lori madri. Spaventate dal timore della deportazione, risalgono la collina con sguardo attonito alla ricerca della polizia di confine, questa volta messicana.
“No nos vamos a deportar, ven por favor!” parole che rompono il ghiaccio e spezzano l’incubo del rimpatrio. Ora tutto sembra più semplice, e il tempo riprende il suo corso. Finalmente riesco a guardare negli occhi le donne, prima che l’oscurità scenda nel Canyon.
Mirna beve assetata. Quarantatré anni, e una vita che molti noi non riuscirebbe nemmeno a concepire. Ha avuto solo un giorno per lasciare tutto quello costruito, per abbandonare affetti e speranze, per non correre il rischio di essere uccisa dai sicari per non aver pagato il pizzo per il suo piccolo negozio. Ventiquattro ore di tempo per prendere l’unica figlia rimasta a casa, e migrare verso il Sogno Americano. “In Honduras non posso più tornare, hanno ucciso mio figlio e strangolato mia madre, mi rimane solamente lei…”, indicando la figlia di 10 anni. La figlia si chiama Mirna: porta il suo stesso nome. Come volesse darsi, lei, Mirna, la madre, una seconda possibilità. “Almeno lei si merita di vivere lontano dalla violenza. Almeno lei si merita una vita”.

La Stampa 8.12.1di
Indagine sulla fine del Profeta
“Un crimine? Non lo sapremo mai Ma qui nasce il malessere islamico”
di Karima Moual


Hela Ouardi, tunisina, insegna letteratura francese all’Istituto Superiore di Scienze Umane dell’Università di Tunisi ed è ricercatrice presso il Laboratorio di Studi sul Monoteismo al Cnrs di Parigi. Il suo libro Gli ultimi giorni di Maometto (Enrico Damiani editore) è la ricostruzione di uno degli eventi più misteriosi della storia dell’islam: la morte del Profeta. Con un taglio da romanzo la studiosa cerca di far emergere l’uomo sepolto sotto la leggenda eroico-religiosa per restituirlo alla storia. E lo fa, provando a porre le domande giuste che ancora coprono di mistero e leggenda quell’evento che segnerà per sempre la comunità musulmana. Ad arricchire l’inchiesta sono le numerose fonti tradizionali sunnite e sciite, studiate e approfondite da restituirci il ritratto di un uomo indebolito e minacciato da più parti.
«La prima generazione dei musulmani probabilmente non considerava Maometto un personaggio sacro. Lui stesso ha rivendicato di essere solo un mortale tra i mortali», scrive Hela Ouardi». Oggi l’adorazione dei musulmani per il Profeta è spinta a un tale parossismo che al personaggio si accompagna una vera e propria ossessione per la blasfemia. In un certo senso, la venerazione di cui è oggetto lo ha fossilizzato».
Un’inchiesta su Maometto, figura per molti fedeli intoccabile, non è un po’ rischiosa?
«Se prima di scrivere un libro sull’islam prendessimo in considerazione ciò che pensano i fedeli, non scriveremmo più una riga su questa religione. Non mi sento di aver preso un rischio particolare, perché da anni ormai vediamo bene che il fanatismo è un mostro cieco che non distingue le sue vittime. Colpisce tutti e dappertutto (anche i musulmani nelle moschee non vengono risparmiati!). Tuttavia, l’indagine sulla morte del Profeta è una vera e propria sfida intellettuale che mi sono prefissata: il lavoro su un argomento così delicato, la minuziosa esplorazione di decine di fonti della Tradizione, il lavoro di riferimento e di confronto dei diversi racconti, la raccolta dei pezzi del “puzzle” è stata un’avventura scientifica al tempo stesso difficile e appassionante».
Dal suo lavoro emergono elementi interessanti proprio perché contrastanti rispetto alla storia comunemente accolta dai fedeli musulmani. Scricchiola fortemente quel racconto divulgato da secoli sul ruolo del Profeta e sui suoi compagni più fidati, tutt’altro che «ben guidati». Com’è stata accolta questa lettura dal pubblico musulmano?
«Quando si pubblica un libro, si getta una sorta di bottiglia in mare, non sappiamo chi la prenderà e cosa ne farà. Ma posso dire che il libro è stato accolto molto bene. Ha incontrato molti lettori e non ho ricevuto alcuna minaccia. C’è una ragione molto semplice per questo, ed è che il mio libro è pieno di riferimenti alla Tradizione musulmana. Il lettore vede immediatamente che non sto inventando nulla e che questa immagine poco gloriosa dei Compagni del Profeta non viene fuori dalla mia immaginazione ma dai libri più ortodossi dell’islam».
L’immagine dei personaggi e anche degli eventi che li interessano è molto più politica che spirituale, il Corano stesso, come lo conosciamo oggi, è frutto di una redazione fatta molto tempo dopo la morte del Profeta. Quasi a perdere quella sua infallibilità, come autentica parola di Dio e di Dio solo. E così?
«Ci sono due modi di percepire il Corano: i credenti ci vedono la parola di Dio, infallibile e miracolosa; gli storici, i filologi eccetera lo vedono come un oggetto storico che ha subito un’evoluzione e in cui è intervenuta la mano dell’uomo. Da sempre (non solo oggi) sappiamo che il Corano, così come fu rivelato al Profeta, è perduto per sempre e che circolano molteplici versioni differenti di questo libro. L’argomento è stato trattato da diversi autori della Tradizione come Ibn Abî Dawûd, nel IX-X secolo, nel suo libro Kitâb al-Masâhif (il Libro dei manoscritti del Corano), dove passa in rassegna le diverse versioni del testo sacro. Penso che l’esistenza di diverse versioni del Corano non sia totalmente incompatibile con la fede: il musulmano può credere che sia un testo di ispirazione divina e ammettere che la compilazione e la trasmissione di questo testo sia un’opera umana quindi imperfetta».
Sappiamo però che un cospicuo numero di fedeli è invece convinto che il Corano sia opera perfetta, e quindi fuori da ogni discussione. Approfondire le incongruenze sulla morte del Profeta cosa potrebbe comportare non solo tra gli studiosi ma anche tra intellettuali e uomini di fede musulmana?
«In nessun momento la Tradizione dice categoricamente che la morte del Profeta è stata naturale; al contrario, la maggior parte delle fonti afferma che è stato avvelenato da una donna ebrea; altre versioni dicono che è morto di pleurite. Io non metto in dubbio nulla, non difendo alcuna ipotesi: espongo le storie della Tradizione, le commento, sottolineo le contraddizioni. E quando è di fronte a narrazioni contraddittorie dei testimoni che interroga, un investigatore inizia ad avere dubbi. Quindi per me la morte del Profeta è semplicemente misteriosa: c’è stato un crimine? La sua morte è stata naturale? Io non lo so e non lo saprà nessuno (a meno che non apriamo la sua tomba!), ma quello di cui sono sicura è che aveva dei sospetti sulla sua cerchia e pensava che potessero ucciderlo. Ne parlo a lungo nel mio libro».
Qual è l’obiettivo della sua inchiesta?
«Lo scopo di ogni indagine è la ricerca della verità. Ma la verità che stavo cercando non erano le circostanze della morte fisica del Profeta. Quella è una storia antica e ora è in prescrizione. La verità che stavo cercando sono le profonde cause storiche del malessere dell’islam nella storia moderna».
Ci sono sicuramente molte ombre su cui far luce nella storia dell’islam. I tabù sono tanti e la censura è molto forte, ma, oltre agli ultimi giorni del Profeta, quali sono i personaggi o gli eventi che meriterebbero una nuova rilettura storica?
«Vorrei rispondere: tutto nella storia dell’islam meriterebbe una nuova rilettura, perché la storia dell’islam è stata schiacciata troppo a lungo sotto il peso della leggenda che mostra personaggi santificati, idealizzati. Ora è necessario rileggere - e riscrivere - tutto, in modo tale da riportare quei personaggi alla loro umanità e mostrare che hanno un lato glorioso e un lato poco glorioso, come in fondo tutti i protagonisti della storia. L’islam sfortunatamente ha per troppo tempo confuso la mitologia e la storia, ed è giunto il momento di distinguerle».
Ha già avuto proposte per una edizione del suo libro in lingua araba?
«La traduzione in arabo è all’ordine del giorno. Probabilmente verrà pubblicato presto».

Il Fatto 8.12.18
Profezia di Proust: “La Grande Guerra è feroce fantascienza”
Finalmente digitalizzate e disponibili trenta lettere dello sterminato carteggio dell’autore della “Recherche”, preoccupato per la sorte dei soldati e dei suoi amanti
di Camilla Tagliabue


A pochi giorni dallo scoppio della Grande Guerra c’era già chi vaticinava: “Milioni di uomini stanno per essere massacrati in una Guerra dei mondi paragonabile a quella di H.G. Wells, solo perché uno sbocco sul Mar Nero è vantaggioso per l’imperatore d’Austria”. Non è un oracolo qualunque, è Marcel Proust, profetico e ieratico come una Pizia nel tempio di Delfi: al pari della sacerdotessa, lo scrittore viveva chiuso in una stanzetta perennemente profumata, non dai vapori dell’alloro ma dai fumi dell’oppio, che – credeva lui – gli alleviavano l’asma e certo gli regalavano il dono della preveggenza.
La previsione non scontata dei milioni di morti e della guerra come feroce romanzo di fantascienza si trova in una lettera al cugino e consulente finanziario Lionel Hauser, una delle trenta lettere digitalizzate e ora disponibili a tutti sulla piattaforma Corr-Proust (proust.elan-numerique.fr/letters/all), nata dalla sinergia tra l’Università dell’Illinois e l’Ateneo di Grenoble. Il prezioso carteggio – tra il 1914 e il 1918 – è solo il primo a essere pubblicato e divulgato online: i ricercatori stanno, infatti, catalogando e digitalizzando le oltre 6.000 missive del grafomane autore della Recherche, prolisso pure nelle private corrispondenze.
A Hauser il 43enne Proust (1871 – 1922) scrive nella notte tra il 3 e 4 agosto 1914: di giorno preferisce dormire, fino alle quattro del pomeriggio circa, senza contare la cagionevole salute, per cui persino “per il mio libro sono stato intervistato a letto”. Oltre a esprimere al banchiere le sue preoccupazioni economiche – la guerra, e il conseguente ribasso delle Borse, gli brucia i risparmi –, Marcel confida le sue paure sui “giorni terribili che stiamo attraversando: i miei poveri interessi mi sembrano del tutto irrilevanti… Spero ancora, io che non sono un credente, in un miracolo che fermi all’ultimo questa macchina letale. Mi chiedo come un cattolico praticante come l’imperatore Francesco Giuseppe possa apparire davanti a Dio dovendogli riferire delle milioni di vite umane sacrificate”.
Con il compositore Reynaldo Hahn, uno dei suoi tanti amorazzi, si lascia andare a confidenze più intime, persino sugli ex: “Ho davvero adorato Alfred (Agostinelli, morto pochi mesi prima pilotando un aereo e probabile modello dell’Albertine della Recherche, ndr). Non è sufficiente dire che l’ho amato, e non so perché lo scrivo al passato perché lo amo ancora… Ma con lui non mi sento obbligato a un dovere come quello che mi lega a te, anche se ti amassi mille volte di meno”. Quanto all’omosessualità, chiede all’amico la massima riservatezza: “Se mai vorrò formulare queste cose sarà con lo pseudonimo di Swann. Quando leggerai All’ombra delle fanciulle in fiore, riconoscerai l’anticipazione e la profezia di ciò che ho vissuto”.
Proust è molto preoccupato, inoltre, per le sorti del fratello Robert (che presta servizio come chirurgo, ma tornerà sano e salvo e verrà insignito anni dopo della Legion d’Onore, ndr): “È partito per Verdun”, scrive a Louis de Robert, “ma sul fronte il fuoco non è mai cessato. Tutti i miei più cari amici sono in prima linea”. Per consolarsi spedisce lettere a un altro spasimante, Lucien Daudet, figlio del più famoso Alphonse: “Tutto può essere tollerato quando pensiamo al martirio dei soldati: siamo così commossi dal loro sacrificio… Spero che tu non abbia troppi amici tra i ‘Morti d’onore sul campo’: piangiamo persino gli estranei”.
Poi manda messaggi a Cocteau per complimentarsi con Picasso; se la prende coi “moderni D’Artagnan”; spettegola sui colleghi che, insensibili alla tragedia, si lanciano in paragoni con le commedie di Molière. Non mancano, infine, le riflessioni sulla letteratura, in tempi in cui l’odio per il nemico straborda dalle trincee alle accademie, ai giornali, alle arti. Tutti ce l’hanno con Wagner, ma “se invece di essere in guerra con la Germania lo fossimo con la Russia, cosa si direbbe di Tolstoj e Dostoevskij?… Non possiamo privare, non dico i nostri musicisti, ma i nostri scrittori del prodigioso e fecondo ascolto del Tristano, della Tetralogia… Arte e Guerra! Ci viene detto di poesie che fomentano la guerra, ma io non ci credo troppo”.

La Stampa 8.12.18
Alla scoperta dell’anima araba, a partire dai libri
E gli immigrati traducono la letteratura italiana
di Rolla Scolari


Come nella tradizione araba, i divani sono disposti in circolo lungo i muri dell’ampio salone. C’è anche un bancone, con una macchina per il caffè, in perfetto stile italiano. Fayza Ismail, camicia a scacchi, jeans e scarpe da ginnastica, offre tè marocchino e dolci levantini.
L’idea di aprire un Centro culturale arabo è nata tre anni fa, ci racconta la scrittrice e giornalista siriana, arrivata in Italia dopo aver vissuto in diversi Paesi del mondo. Il debutto della Casa araba a fine ottobre si è celebrato sui versi di Wadih Saadeh, poeta libanese che ha raccontato di persona l’esperienza della migrazione. L’incontro ha aperto un ciclo di appuntamenti - «La città plurale» - coordinato dall’Ufficio reti e cooperazione culturale del Comune di Milano per stimolare attività che hanno al centro le comunità internazionali del territorio.
In città, le iniziative promosse sul mondo arabo - che si allontanano dalla narrativa religiosa e della moschea prediletta dai media - si moltiplicano. «Come posso raccontare chi sono gli arabi a un’amica italiana, mi sono chiesta quando sono arrivata a Milano, se ci sono così pochi libri arabi tradotti in italiano?», spiega Fayza. Alla Casa araba, dove l’11 dicembre si parlerà di Siria e della sua cultura, è vietato discutere di politica e di religione, dice, ricordando come lei sia musulmana e l’altro fondatore del centro, Medhat Moussa, egiziano cristiano.
«Occorre non confondere l’islam con l’arabismo. Per capire l’islam bisogna leggere il Corano. Per capire gli arabi occorre leggere la loro letteratura, vero specchio della vita quotidiana». A parlare è il professor Wael Farouq, egiziano, docente di lingua e cultura araba all’Università Cattolica del Sacro Cuore, promotore della Festa della Lingua araba, nata nel 2015, e del Salone del libro arabo, organizzati nell’ateneo in collaborazione con il Comune. L’anno scorso, la due giorni sulla lingua araba, con incontri su letteratura, cinema, poesia, ha attirato oltre 3.000 persone, e l’Università lavora a una nuova edizione, a marzo. A promuovere attività culturali in città ci sono anche realtà giovanili come Swap (Share with all people), gruppo studentesco formato da egiziani cristiani e musulmani, e Italeya, un network di creativi italiani, con radici egiziane.
Gli italiani sono interessati alle iniziative sulla cultura araba «perché li stanno bombardando con notizie cui manca qualcosa», spiega Farouq. «Si sente la mancanza di una dimensione umana, di una narrativa che mostri le persone fuori degli schemi. Quel che diminuisce il rifiuto degli altri è identificare sé stessi con un altro in un libro, in un film». È anche l’obiettivo di Mohammed Ibrahim, 31 anni, arrivato a Milano dal Cairo dieci anni fa. Nel 2017 ha fondato una casa di distribuzione cinematografica, Il Nero, per doppiare film arabi in italiano. Non a torto, Mohamed pensa che i film sottotitolati siano condannati in Italia a rimanere nel circuito dei cinema d’essai. Il primo film arabo doppiato arriverà nelle sale milanesi il 13 dicembre: è una pellicola del regista egiziano Hadi el Bagoury, record d’incassi in Egitto. Hepta non parla né di politica né di religione, ma semplicemente d’amore. Mohamed è convinto che, attraverso il racconto della quotidianità, un film possa cambiare le mentalità.
Almutawassit: così gli arabi chiamano il mar Mediterraneo, che separa il Levante e il Nordafrica dall’Europa, e così si chiama una casa editrice nata a Milano, nel 2015, che traduce libri da diverse lingue europee all’arabo. Khaled Soliman al Nassiry, il fondatore, siriano di origini palestinesi, è un intraprendente: è stato caporedattore della rivista multietnica al Jarida e regista del docufilm Io sto con la sposa. Almutawassit ha tradotto dall’italiano Pinocchio, Pavese, Il Gattopardo, Gramsci e altri. La nuova sfida per Khaled e la sua squadra è quella di presentare ora la letteratura araba agli italiani. Non c’è soltanto Nagib Mahfuz, il grande romanziere egiziano Nobel per la letteratura, dice. Almutawassit programma la traduzione tra gli altri della scrittrice libica Najwa bin Shatwan.
Simbolo di questa Milano laboratorio d’integrazione - che da mesi studia come poter diventare la casa di un istituto del mondo arabo sul modello di quello parigino - è il Museo delle Culture, ci spiega Bianca Aravecchia, responsabile dell’Ufficio reti del Comune e del Forum Città Mondo che, istituito nel 2011, proprio nel Mudec riunisce associazioni rappresentative delle comunità straniere sul territorio. E lo Spazio delle Culture in cui il Forum tiene i suoi eventi al museo - l’anno scorso l’Egitto è stato al centro delle attività - è dedicato proprio a un arabo: l’archeologo iracheno Khaled Asaad, ucciso dall’Isis mentre difendeva i tesori dell’antica Palmira, in Siria.

La Stampa TuttoLibri 8.12.18
Divina Cleopatra, sapeva amare e fare la guerra
Cleopatra, donna moderna
Mamma, stratega, passionale: fu una donna completa e riuscì a imporsi in una società dominata dagli uomini Angelaracconta la regina “greca” che osò sfidare Roma
di Alberto Angela


L’idea di scrivere un libro su Cleopatra mi è venuta circa un anno fa, ma è stato solo quando ho iniziato a lavorare a questo libro, che poi ho portato a termine in pochissimo tempo, circa tre mesi e mezzo dopo il lavoro di ricerca, che ho capito quale donna straordinaria avessi di fronte.

In primo luogo, Cleopatra vive in un’epoca cruciale dell’antichità, tra due grandi imperi, due grandi momenti: si trova alla fine di tutta la storia dell’antico Egitto, quella fatta dai regni che si sono succeduti. Dopo di lei finiscono. E si trova anche nel momento in cui sta per nascere l’Impero Romano: un momento cerniera, cardine, tra questi due grandi capitoli della storia così affascinanti: l’Egitto antico e Roma antica.
Cleopatra unisce questi due mondi e già questo la rende così affascinante. Ma Cleopatra è anche un catalizzatore: permette di far nascere quella storia dell’antica Roma che tutti noi conosciamo. Senza di lei le cose sarebbero andate diversamente, cosa sarebbe accaduto non lo sappiamo, ma certamente sarebbe stata una storia diversa. Cleopatra infatti permette di velocizzare certi meccanismi dell’antica Roma. Si lega prima a Giulio Cesare; morto Giulio Cesare si lega ad Antonio, e Antonio assieme a lei si contrappone a Ottaviano fino a uno scontro finale in cui solo uno dei due poteva prevalere e ha vinto Ottaviano.
Da quel momento in poi Ottaviano è dominatore assoluto della scena, non ha più rivali, quindi può imbastire le fondamenta di quello che verrà chiamato poi Impero Romano. Ma non solo: Ottaviano vive a lungo, quindi ha il tempo per fare tutto questo.
Questi due elementi, l’assenza di rivali e la longevità, permisero la nascita dell’Impero, a cui dobbiamo le strade che attraversano tutta l’Europa, i suoi imperatori e la stessa storia della cristianità, che si è diffusa nel più potente dominio dell’antichità.
Cleopatra ha permesso a tutto questo di esistere così come lo conosciamo: mi ha incuriosito perché è una specie di sliding door della storia, ha fatto in modo che accadessero delle cose e non delle altre. Se avessero vinto Cleopatra e Antonio, forse tutto quello che è accaduto dopo avrebbe avuto un sapore greco-orientale, invece ha vinto Ottaviano e il futuro è stato latino-occidentale. Chissà come sarebbe il mondo oggi, chissà che lingua parleremmo, le abitudini a tavola che avremmo: non lo sappiamo, sono passati così tanti secoli.
La seconda cosa che mi ha incuriosito di Cleopatra è che lei è una donna unica nel suo genere, non sono esistite altre donne nell’antichità come lei.
Cleopatra è regina e donna, moglie, amante e mamma, capace di grandi passioni e innamoramenti, ma anche di grandi scenate di gelosia come ogni donna. È intensa e profonda, ma allo stesso tempo è una sovrana dotata di grandissima strategia, che riesce a capire chi ha davanti e ad agire di conseguenza. Una donna che sa essere mamma tenerissima con i suoi bambini e impavida condottiera di flotte ed eserciti. Tutto questo è possibile perché lei è una donna completa, come all’epoca non ne esistevano, all’interno di una società maschilista, dominata da uomini abituati a usare soprattutto la forza per comandare, oltre all’astuzia, come Ottaviano.
Sarà Ottaviano alla fine a sconfiggerla, forse grazie proprio alla sua astuzia, ma tutti gli altri lei li ha saputi abbracciare, attrarre a sé, come Cesare e Antonio, oppure li ha combattuti, riuscendo a portare il suo regno a dimensioni come non se ne vedevano più da tantissimo tempo.
C’è stato un momento in cui tutto il Mediterraneo orientale era in mano egizia, e Cleopatra è riuscita a non far diventare il suo regno una provincia romana. Fino alla fine è restata al potere come regina, amata dal popolo egizio, amata da condottieri come Cesare e Antonio, e temuta da tutti gli altri romani.
Terzo elemento. Cleopatra è una donna moderna: oggi sarebbe una mamma premurosa e allo stesso tempo una donna manager della finanza e dell’industria capace di ideare strategie e cogliere al volo le opportunità. Era moderna non perché avesse un DNA diverso dalla altre donne, ma perché era molto attiva, con l’argento vivo addosso, decisionista. Quello che l’ha resa una donna diversa dalle altre è essere nata ad Alessandria d’Egitto nel periodo dell’Ellenismo.
Lei è stata cresciuta come principessa, ma aveva filosofi come precettori, andava nella biblioteca di Alessandria, leggeva, si informava, ha scritto dei trattati, e vicino aveva il musèion, cioè un’università. Alessandria d’Egitto era in quel momento il centro della cultura di tutto il mondo antico, uno dei fari del sapere del pianeta e lei era la regina degna di quella città: intelligente, dotta e poliglotta.
Capiva gli altri, parlava la lingua degli egizi, era vicina ai sacerdoti egizi, non era semplicemente una greca.
Perché una cosa che pochi conoscono è che Cleopatra non era egizia, ma greco-macedone. Cleopatra vuol dire «gloria del padre» (dal greco, kleos e patros), e apparteneva a una dinastia straniera, quella dei Tolomei, che erano greci che avevano occupato l’Egitto dopo la morte di Alessandro Magno, quando i suoi generali si spartirono l’immenso impero che arrivava fino all’India.
Tolomeo era uno dei suoi generali e si prese l’Egitto, dando origine a una delle dinastie tolemaiche. Per questo motivo tutti i sovrani che vengono dopo di lui sono re e non faraoni, anche se si fanno rappresentare come tali, e tutti si chiamano Tolomeo, mentre le regine si chiamano invariabilmente Arsinoe, Berenice o Cleopatra - tant’è che la nostra Cleopatra è la numero sette.
Quindi una donna greca e con abitudini greche, colta, che rappresenta un mondo moderno dove, sebbene ci fossero delle situazioni tipiche dell’antichità, prosperava la conoscenza, che è la caratteristica che unisce la nostra epoca a quella in cui è vissuta Cleopatra. Qualcosa non funzionava e non era una società perfetta, ma lei era frutto di questo incredibile rinascimento dell’antichità in cui il sapere, l’arte e la voglia di scoprire crearono quel momento di grazia del mondo che riuscì a far sì che una donna fosse non solo pari all’uomo, in una società maschilista, ma addirittura superiore.

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