sabato 8 dicembre 2018

La Stampa 8.12.18
Machiavelli riappare in america
di Gianni Riotta


Nel 1942 il filosofo francese Maritain, in esilio dal nazismo, scrisse un desolato pamphlet, «La fine del machiavellismo», implorando gli Stati Uniti di impegnarsi contro tutte le dittature (in italiano La Locusta 1962). Washington appariva isola di libertà in un pianeta totalitario, in America tanti diffidavano invece dall’idea di farsi giustizieri degli oppressi. Perfino dopo Pearl Harbor, molti parlamentari non intendevano dichiarar guerra a Germania e Italia, solo al Giappone. Da sempre, la politica internazionale americana non risponde agli accorati appelli alla Maritain, ma a quattro, classiche, scuole di pensiero.
Ci sono i seguaci di Thomas Jefferson, che detestano l’America «imperiale» che impone valori, campioni il presidente Eisenhower e il diplomatico Kennan; contro di loro i paladini di Alexander Hamilton puntano su forza militare ed economica, vedi Theodore Roosevelt e Bush figlio; poi i fedeli del presidente Wilson, l’America predica il suo credo, certa che ogni popolo lo condividerà, in prima fila John Kennedy; infine i discepoli di Andrew Jackson scommettono sulle armi, insofferenti al negoziato, come i consiglieri di Trump, Bolton e Bannon.
E il presidente stesso, Donald Trump, da che parte sta in politica internazionale? A lungo gli analisti lo hanno iscritto alla scuola del presidente Jackson, ma, tranne lo sporadico raid in Siria, Trump è scettico sui raid bellici e, solo a malincuore, accetta di mantenere contingenti in Afghanistan e Medio Oriente. Sogna un’America libera da impicci.
Il suo atteggiamento davanti all’Arabia Saudita, dopo l’assassinio feroce del giornalista dissidente Jamal Khashoggi, conferma infatti che Trump crede solo ai rapporti di forza, nudi e crudi. Non vuol predicare dal pulpito sermoni democratici, come Kennedy e Reagan al Muro di Berlino, o Obama all’Università del Cairo. Crede, come avesse imparato a memoria il nostro cancelliere fiorentino Niccolò Machiavelli, alla realtà, punto e basta. Una ricerca su Google, «Trump-Machiavelli», apre a sorpresa 901.000 siti solo in inglese. È dunque Trump l’ultimo dei machiavellici, quando dichiara di tenere più a petrolio e contratti militari con i sauditi, che alla giustizia su Khashoggi, smentendo perfino la Cia sulle colpe di Riyadh? Beninteso, Trump non è il primo presidente Usa che, in nome della Realpolitik, sostiene regimi sanguinari, Eisenhower abbracciò il dittatore spagnolo Franco e lasciò scattare il golpe in Iran contro il premier Mossadegh, 1953, organizzato da una spia nipote del presidente Roosevelt. I democratici Kennedy e Johnson appoggiarono i despoti di Saigon in Vietnam e la stessa Cia tramò contro il presidente Allende in Cile. Ma, sempre, questi interventi vennero coperti dalla diplomazia del «male minore», l’America faro di libertà, solo a volte costretta dalla Storia a dolorose azioni.
Non così Trump. Già in campagna elettorale, nel ’16, aveva usato i toni scabri che Machiavelli eterna nel «Principe» e di cui si occupa nel suo nuovo saggio «Nondimanco» (Adelphi) lo storico Carlo Ginzburg: credere solo alla realtà, nessuna utopia, nessuna «missione speciale». Funzionerà? Accetterà l’America scettica del XXI secolo il pragmatismo scabro di Niccolò e Donald, dimentica dei tempi di Kennedy e Reagan quando si vedeva, a sinistra e a destra, maestra di civiltà? Si è esaurita, dopo due secoli e mezzo, la sua missione salvifica? I prossimi anni ce lo diranno, davanti alla sfida di Cina e Russia. Studiosi conservatori come Mearsheimer pensano di sì, diplomatici veterani come Haass o Burns, pur repubblicani, pensano sia impossibile. E Henry Kissinger, il miglior allievo che il grande Machiavelli abbia avuto nel Novecento, certo che «L’America non abbia amici o nemici eterni, solo interessi» si schiera a sorpresa, durante un seminario privato: «Son sempre stato un realista, ma sarà impossibile per l’America rinunciare alla tradizione di difesa della democrazia, almeno nelle intenzioni».