La Stampa 6.12.18
Se la lista d’attesa è troppo lunga il medico non potrà lavorare nel privato
Il ministero fissa i tempi massimi per le prestazioni: l’Asl che non li rispetta dovrà rimborsare il paziente
di Paolo Russo
I
medici ospedalieri e delle Asl non potranno più fare attività libero
professionale se non rispettano i tempi massimi di attesa per visite,
ricoveri e analisi. La novità destinata a sollevare malcontento tra i
camici bianchi è contenuta nel nuovo Piano nazionale per il contenimento
delle liste d’attesa, trasmesso ieri dal ministro della Salute, Giulia
Grillo, alla Conferenza delle Regioni, che dovrà adottarlo entro 60
giorni. «Un provvedimento assente da 10 anni e che fissa regole certe,
stanziando 350 milioni nel triennio per dire basta alle attese infinite
per una vista medica o un esame diagnostico», ha dichiarato la
responsabile della Sanità. Che nel documento di 172 pagine piazza anche
un’altra novità importante: la possibilità per i cittadini che non
vedano rispettati i tempi massimi di attesa di rivolgersi a strutture
private o nei reparti solventi di quelle pubbliche, pagando al massimo
il ticket mentre la prestazione sarà a carico dell’Asl. «Un diritto -
spiega Tonino Aceti, segretario nazionale del Tribunale dei diritti del
malato - che era già contemplato da una norma transitoria del 1998, poi
superata dai diversi piani regionali anti-liste di attesa, con alcune
Regioni che hanno ribadito il principio guardandosi bene
dall’applicarlo».
Quattro classi di priorità
Anche lo stop
alla libera professione medica non è del tutto inedito, ma fino ad oggi
era previsto solo nel caso dentro gli ospedali il volume dell’attività
privata superasse il numero di prestazioni nel pubblico. Ora invece il
nuovo Piano prevede che anche «in caso di sforamento dei tempi di attesa
massimi si attua il blocco dell’attività libero professionale».
I
tempi massimi fissati dalla Grillo per le prestazioni ambulatoriali
sono suddivisi in quattro classi di priorità: urgente entro 72 ore,
breve entro 10 giorni, differibile entro 60 giorni per le analisi e 30
per le visite, programmata entro 120 giorni.
Limiti vengono
fissati anche per i ricoveri programmati. I casi più gravi dovranno
ottenere un letto entro 30 giorni, i «casi clinici complessi» entro 60
giorni, i casi meno complessi nell’arco di 120 giorni. Ovviamente per le
vere urgenze si passa per il Pronto soccorso, che deve in poche ore
provvedere al ricovero. E fin qui poco di nuovo. Ma mentre il vecchio
piano si limitava poi a fissare dei tempi massimi solo per 52
prestazioni, oggi la pila di allegati lo fa per tutte. Così ad esempio
si dice che un ecocolordoppler cardiaco va fatto entro 60 giorni in casi
di soffio al cuore asintomatico, ma in sole 72 ore se il paziente i
sintomi li accusa eccome. E sempre per capire il livello di dettaglio a
un bambino con massa del collo fissa, che potrebbe essere sintomo di
meningite, l’ecografia va effettuata non oltre le 72 ore.
Il nodo dei macchinari
Per
rispettare questi tempi il piano obbliga tutti i medici che lavorano
nel pubblico a indicare il codice di priorità nelle prescrizioni, i Cup a
gestire in esclusiva le agende di prenotazione, comprese quelle dei
privati accreditati. Questo per evitare che in alcune strutture qualcuno
non rispetti l’ordine di attesa. Basta anche con i continui rimbalzi
tra medici specialisti e di famiglia. Una volta che la Asl prende in
carico il paziente i successivi controlli dovranno essere direttamente
prenotati dallo specialista tramite apposite agende dedicate al
monitoraggio dei pazienti cronici.
Il piano dice anche che per
abbattere le liste di attesa i macchinari diagnostici debbano lavorare
«all’80% delle loro potenzialità». Mica facile in un Paese dove secondo i
dati di Assobiomedica più della metà di Tac, risonanze e
apparecchiature varie è obsoleta e dove i contratti di manutenzione si
fanno col contagocce per lungaggini burocratiche e carenza di risorse.