il manifesto 22.12.18
Rojava guarda all’Onu e a Damasco. Erdogan «congela» l’attacco
Siria.
Dopo l'annuncio del ritiro Usa, il Kurdistan siriano si prepara a
difendersi dalla Turchia. E mette in guardia: saremo costretti a
sospendere la lotta all'Isis e 3.200 prigionieri islamisti potrebbero
fuggire. L'Eliseo promette sostegno, ma a rischio c'è il più riuscito
modello di democrazia del Medio Oriente
di Chiara Cruciati
Giovedì,
poco dopo l’annuncio del ritiro Usa dalla Siria, in 100mila si sono
presentati alla base della coalizione anti-Isis a guida statunitense a
Kobane.
Curdi, arabi, armeni, turkmeni sono arrivati da Manbij,
Raqqa, Ayn Isa con un identico messaggio, racchiuso nella lettera
consegnata dal cantone di Kobane ai militari Usa: «Non accettiamo
sporchi negoziati su di noi. Non accettiamo l’invasione dello Stato
turco».
A Rojava, il Kurdistan siriano, sanno bene che significa
il ritiro dei marines, consapevolezza rafforzata dalle indiscrezioni sul
contenuto della telefonata tra i presidenti Trump ed Erdogan di una
settimana fa: la Casa bianca avrebbe chiesto ad Ankara se fosse in grado
di sradicare l’Isis dal nord della Siria, Ankara ha risposto che lo ha
già fatto.
Ma, raccontano attentati e infiltrazioni, l’Isis c’è
ancora. E un’operazione turca costringerà a rivedere le priorità. Le
Forze democratiche siriane (Sdf) stanno già pensando a un trasferimento
dei combattenti verso l’Eufrate e Manbij per fermare i turchi e i loro
pretoriani, i miliziani di opposizione islamista, lasciando così
scoperto il fianco a est (i fronti a Raqqa e Deir Ezzor) al confine con
l’Iraq, dove migliaia di islamisti sono operativi. Lo ha ricordato ieri
l’attacco contro la zona di Hajin, da poco liberata, e quello di giovedì
a Raqqa.
I curdi non hanno altri amici che le montagne, il
tradimento era atteso: «Non erano qui per proteggerci – ha detto ieri
all’agenzia curda Anf il co-presidente delle relazioni diplomatiche del
Pyd, Salih Muslim – I nostri interessi coincidevano e abbiamo agito
insieme, ma non abbiamo mai contato su di loro». Ora la regione autonoma
cerca impegno da altri attori: dall’Onu, a cui chiede di inviare forze
di pace, e dalla Francia, presente con qualche centinaio di truppe,
perché dichiari una no-fly zone per prevenire l’assalto turco.
Che
per ora pare rinviato: ieri Erdogan ha detto che lo posporrà finché non
vedrà «i risultati sul terreno della decisione Usa». Il rinvio è figlio
dell’incertezza intorno all’annuncio trumpiano. Prima si è dimesso il
capo del Pentagono, Mattis, contrario al ritiro e poi sono intervenute
Francia e Germania a ricordare che l’Isis c’è ancora. Dall’Eliseo ieri è
giunta la prima promessa di sostegno alle Sdf.
Da parte loro le
unità di difesa curde, Ypg e Ypj, e le Sdf – oltre a sottolineare che
sarà impossibile combattere il «califfo» se dall’altro lato a colpire
c’è il secondo esercito della Nato – fanno notare che una tale
operazione impedirà la già difficile gestione dei 3mila prigionieri
dell’Isis, catturati in questi anni.
Un fardello enorme su cui
Rojava ha spesso richiamato l’Occidente, trattandosi per lo più di
foreign fighters: riprendeteveli o aiutateci a gestirli. Ma in un
contesto di guerra le prigioni sono le prime a collassare, con la
conseguente fuga di 3.200 islamisti.
Molto probabile che i curdi
si rivolgano a Mosca e Damasco, con cui è in corso un dialogo sul futuro
dell’autonomia di Rojava, a cui il governo centrale ha prestato
l’orecchio: ripiegare su Assad per evitare una pulizia etnica come
quella sperimentata dal cantone di Afrin dopo l’invasione turca di
marzo, 300mila sfollati sostituiti da miliziani sunniti e familiari.
Per
Ankara Afrin è l’enclave in territorio siriano necessaria a ridare
fiato alle opposizioni islamiste e a mantenere un corridoio di
approvigionamento al bubbone jihadista di Idlib. A rischio c’è un
progetto unico, il confederalismo democratico, che ha trasformato il
volto della Siria del Nord e proposto un modello all’intero Medio
Oriente, anti-settario, anti-patriarcale e di democrazia diretta.