il manifesto 16.12.18
Yehoshua e l’identità sgretolata
Romanzi
israeliani. La demenza senile che ha colpito il protagonista
dell’ultimo libro di Abraham B. Yehoshua ha un suo correlativo oggettivo
nel conflitto medio-orientale: «Il tunnel», da Einaudi
di Massimiliano De Villa
Zvi
Luria è un ingegnere stradale di settantadue anni, in pensione da
cinque. Direttore di divisione presso il Dipartimento israeliano dei
lavori pubblici che gestisce l’intera rete viaria, per quarant’anni ha
progettato, nel nord del paese, strade, autostrade, svincoli, incroci.
Competente e stimato dai colleghi per esperienza e professionalità, una
volta lontano dal lavoro, Zvi Luria entrerà senza troppa fatica in una
quotidianità scandita da liturgie consuete, nel perimetro della casa di
Tel Aviv e nei cerchi concentrici fuori dalle mura. La sua vita scorre
lungo vie canoniche, senza ostacoli, nella ripetizione di gesti abituali
e inconsunti: tutto bene fin qui, tutto rodato e conosciuto. Ma un
giorno il tranquillo binario della quotidianità scarta leggermente: Zvi
Luria esce dall’asilo con un bambino che non è suo nipote, senza
accorgersene. Un incidente lieve, che subito rientra, allineandosi
tuttavia ad altri fatti analoghi, accaduti di recente: piccole
distrazioni, atti compiuti per eccesso o per difetto, tentativi di
richiamare parole i cui contorni sfumano nell’indistinzione, codici
numerici che saltano, nomi che all’improvviso spariscono dalla mente.
Basta questo per portare Zvi Luria nello studio di un neurologo, che gli
diagnostica i primi accenni di demenza senile.
Invito a forzare il ricordo
Il
tunnel, ultimo romanzo di Abraham B. Yehoshua, ora da Einaudi nella
traduzione elegante e accurata di Alessandra Shomroni («Supercoralli»,
pp. 344, € 20,00), si apre sui negativi della risonanza magnetica di
Zvi, con il neurologo che prima scandisce le sillabe, asettiche e
inesorabili, della diagnosi, poi indica con forza modalità di resistenza
per rallentarne il corso. Un invito, forte e convinto, a non fuggire la
vita, a procedere controsenso rispetto al crepuscolo della mente, a
forzare il ricordo, a trattenere i nomi che dileguano. Soprattutto, a
riannodare il filo con la propria professione, svolgendo consulenze o
lavori a tempo ridotto. Su questo abbrivio, complice la festa di
pensionamento di un collega e la tenace insistenza della moglie, nasce
la collaborazione con il giovane Assael Maimoni, che ha preso il suo
posto ai lavori pubblici, impegnato nel progetto di una strada segreta
per l’esercito, nel deserto del Negev, a sud di Israele. Del giovane
ingegnere, Zvi Luria diventa consulente senza compenso e assistente
volontario, nel tentativo di risalire la china della mente offuscata o
perlomeno di mantenerne desta la sintassi logica e operativa.
Il
tentativo di fortificazione della memoria e di blindatura dei suoi
contenuti – operazione tanto strenua, quanto commovente e in fondo
tragica – non è certo in grado di arrestarne l’allagamento, inarginabile
per natura, e la confusione emotiva che ne deriva. Mentre traccia la
curva discendente nella coscienza di Zvi Luria, Yehoshua mostra
un’incredibile abilità nel comunicarne il ritmo progressivo e il
susseguirsi delle stazioni. Con un’empatia che spesso non ammette filtri
e che partecipa del tentativo di contenere la frana memoriale, il
lettore vive le diverse situazioni che coinvolgono il protagonista,
quasi a respiro trattenuto, nell’attesa, forse persino nella speranza
che quel certo nome non gli sfugga, che quella determinata combinazione
di numeri gli riaffiori alla mente, che quel percorso in auto lo porti
alla giusta destinazione.
Una famiglia tra le rovine nabatee
Il
lento ma irreversibile disallineamento mentale – segnato da una catena
di puntuali, sempre più ravvicinati, congedi dalla grammatica della
ragione – non impedisce a Zvi Luria di sostenere e difendere con
convinzione, e con moto inverso rispetto al rarefarsi dei ricordi, la
dispendiosa perforazione di un tunnel all’interno di una collina, dove
vive una famiglia di rifugiati palestinesi apolidi, nascosti tra le
antiche rovine di un insediamento nabateo. Spianare l’altura per
facilitare il tracciato della strada militare ne metterebbe a rischio
l’incolumità. Il mistero di questa gente senza identità, non più
palestinese e non ancora israeliana, porta il fuoco della narrazione sul
conflitto medio-orientale, diventando così il correlativo oggettivo,
quasi la formula che iconicamente racchiude lo sgretolamento identitario
del protagonista. E lo sgranarsi delle sue immagini mentali diventa
metafora di un quadro geopolitico che sembra consegnato a un
inarrestabile ottundimento. Conferma di questa dimensione del romanzo è
il medaglione narrativo, forse un po’ troppo sbalzato e perciò tendente
al didascalico, con la sosta dei due ingegneri presso la tomba di Ben
Gurion.
Il tunnel è però anche altro. Sotto la maglia dei motivi
ricorrenti nella narrativa di Yehoshua – l’identità, i sentimenti, la
malattia, l’ambivalenza della memoria, la componente politica – e dietro
l’andamento riconoscibilissimo della sua prosa, si distende una trama
sotterranea che attraversa il romanzo, agganciandosi a un nucleo fra i
più antichi e fondamentali della tradizione ebraica. Lo sfarinarsi dei
nomi, il loro disperdersi come polvere nella mente del protagonista è,
nella sua insistita iterazione, forse il tema conduttore dell’intero
libro. Difficile non intravvedere – dietro la sequela di nomi
dimenticati, deformati e dunque profanati, a stento trattenuti nel
ricordo, poi di nuovo polverizzati, nomi che il protagonista inanella
lungo tutto il corso della storia – quel retroterra ebraico che accomuna
la nominatio rerum adamitica, il metodo midrashico e il pensiero
cabbalistico, ponendo, alla base del linguaggio, una fondamentale
consustanzialità tra nomi e cose. Lungi dall’essere involucro
convenzionale, il nome – nella sua origine divina, nella sua terribilità
che lo rende, nei casi più estremi, irrivelabile e impronunciabile –
cattura l’essenza della cosa, discopre la sostanza ultima di chi lo
porta. Come non sentire per esempio, dietro il capitolo «Restituiscimi
il mio nome e io ti lascerò in pace» – costruito intorno all’incapacità
di Zvi Luria di richiamare il nome di un’antica seduttrice e
all’irritazione di lei – il suono familiare di antichissime tradizioni,
su tutte la lotta di Giacobbe con l’essere misterioso, che il patriarca
tiene avvinghiato tutta la notte per strapparne una benedizione e una
rinominazione («Lasciami andare perché è spuntata l’aurora» – «Non ti
lascerò se non mi avrai benedetto» – «Non ti chiamerai più Giacobbe, ma
Israele») e che però mai rivelerà il suo nome («Giacobbe allora gli
chiese: «Dimmi il tuo nome». Gli rispose: «Perché mi chiedi il nome?». E
qui lo benedisse). Sempre in questo senso, il deserto del Negev è
teatro di buona parte dell’azione: uno scenario primordiale e materico,
legato a eventi d’inizio e di fondazione, richiamati, forse un po’
troppo scopertamente, dal nome dello hotel «Beresheet», a mimare
l’ebraico bereshit, «in principio», che designa il Libro della Genesi. È
infine difficile non riconoscere, in filigrana, un rivolo cabbalistico,
quando la narrazione accosta il segreto dei nomi e del loro fondo
oscuro e impronunciabile, quando si toccano le loro infinite possibilità
combinatorie e le loro, anche impacciate, sovrapposizioni confusive.
Forse è addirittura l’ironica e laica ripresa di questa tradizione a
emergere, a tratti, in piena luce: il nome del protagonista Zvi Luria –
con il suo rimando fonetico al celebre cabbalista di Safed, Isaac Luria –
potrebbe mostrare questa direzione.