Il Fatto 28.12.18
Al prossimo coro razzista, i tifosi sani se ne devono andare
di Peter Gomez
Ora
che c’è scappato il morto, tutti si stracciano le vesti. E i buu e gli
insulti razzisti rivolti dalla curva dell’Inter contro il difensore del
Napoli, Kalidou Koulibaly, suscitano uno sdegno che senza il cadavere
fuori dallo stadio sarebbe stato verosimilmente dimezzato. Sì, perché
alla faccia delle leggi, per chi ogni domenica assiste al rito laico
della partita di pallone la variabile razzismo è semplicemente un
accidente. Un qualcosa che si ripete da anni con costanza
impressionante. Un disgustoso accadimento che guadagna qualche titolo in
tv o sui giornali, ma che poi viene dimenticato.
Così, nel 2005 a
essere preso di mira dai tifosi è Marco André Zoro, terzino del
Messina, che sbotta e butta con le mani la palla fuori campo. Nel 2010
gli insulti vengono invece rivolti a Samuel Eto’o che reagisce
rivolgendosi alla curva mimando le movenze di una scimmia. Poi tocca a
Kevin Prince Boateng che durante un’amichevole saluta e se ne va.
L’elenco
è però cento volte più lungo. E anche se oggi a volte segue la
squalifica della curva o la partita a porte chiuse (l’Inter giocherà per
due giornate senza pubblico), il fenomeno viene di fatto considerato
come un corollario spiacevole, ma quasi inevitabile, di uno spettacolo
non privo di gravi effetti collaterali: gli scontri e i morti tra gli
ultras, la delinquenza sugli spalti, gli incontri che ciclicamente si
scoprono truccati.
Sarebbe però sbagliato pensare che tutto questo
accada perché il football è un mondo a parte. È vero anzi il contrario.
Il Parlamento che ha approvato leggi per rendere civili gli stadi, non
si è mai fatto problemi ad assolvere chi in Parlamento tiene
comportamenti da stadio. Ne sa qualcosa l’ex ministra Cecile Kyenge, che
nel 2013 fu paragonata a “un orango” dall’ex vicepresidente del Senato,
Roberto Calderoli. Allora, quando si trattò di concedere
l’autorizzazione a procedere per diffamazione aggravata dalla
discriminazione razziale, Palazzo Madama decise di avallare il processo
solo per la diffamazione semplice. Il no all’aggravante fu invece votato
a larga maggioranza, con la quasi totalità del Pd che schierò assieme a
Forza Italia. Una scelta così motivata dal dem Claudio Moscardelli: “Le
accuse relative alle incitazioni all’odio razziale risultano infondate,
atteso il contesto politico nel quale le frasi in questione sono state
pronunciate e attesa anche la configurazione del movimento della Lega,
nel cui ambito operano diverse persone di colore”. Una tesi surreale,
poi demolita dalla Corte costituzionale, ma che ora potrebbe essere
fatta propria dall’Inter nell’eventuale ricorso contro la squalifica. In
fondo (potrebbero sostenere gli avvocati) gli insulti a Koulibaly erano
indirizzati contro la prestazione sportiva e sia tra i nerazzurri che
tra i loro tifosi non mancano persone di colore. Anche perché per fatti
del genere in Italia la giustizia sportiva spesso assolve.
È
accaduto, per esempio, all’ex presidente della Figc, Carlo Tavecchio,
quando disse “noi (in Italia) diciamo che Opti Pobà venuto qua, che
prima mangiava le banane e adesso gioca titolare. In Inghilterra deve
prima dimostrare il suo curriculum e pedigree (l’albero genealogico
degli animali, ndr)”. Allora i giornali parlarono di gaffe. I dirigenti
fecero spallucce, i giudici archiviarono e a squalificare Tavecchio fu
la Uefa. Rendendo chiaro che il pesce italiano puzza, sì, ma dalla
testa. E che se si vuole dire no al razzismo possiamo sperare solo nei
tanti tifosi perbene. Al prossimo coro contro un giocatore di colore a
lasciar sole le squadre dovrebbero essere loro.