Il Fatto 2.12.18
Sovranismo, l’Italia è in stato di assedio
di Furio Colombo
Il Global compact è un tipico atto dell’Onu. Indica un principio ovvio (salvaguardare i migranti del mondo, siano o non siano rifugiati, garantire la prima accoglienza, impedire cacciata e persecuzione), un principio che sarà osservato da pochi, ignorato da molti, vilipeso o ridicolizzato dai peggiori che, come si sa, ci sono sempre.
Quel che è successo in Italia è un evento privo di senso (non solo di senso politico ma anche di senso comune) e difficile da decifrare anche come comportamento normale. Infatti il principio proposto dall’Onu (e che tutti i capi di Stato o ministri degli Esteri andranno fra poco a ratificare a Marrakech) esprime un sentimento buono ma ne è appena il simbolo. Non impone, non vincola e non prevede verifiche di alcun genere. Infatti il presidente del Consiglio italiano che, come si sa, ha poca autorità ma consente ai due vice di governare, era andato alle Nazioni Unite a dire, con la gentilezza delle cerimonie, che certamente l’Italia avrebbe partecipato, e detto di sì a un generico principio di umanità che si proponeva a tutti di accettare, e che tutti hanno accettato.
Poco dopo il ministro dell’Interno italiano, che non governa se non le prefetture e le Forze dell’ordine, ha fermato la macchina politica della Repubblica italiana per dire no. Non il “no” del suo partito, che rappresenta il 17 per cento dell’elettorato italiano, ma il no di tutti gli italiani. Come ama fare, ha chiamato in causa tutti i cittadini come corresponsabili di questo distacco improvviso dalle Nazioni Unite, e da un principio umanitario, che forse a lui sembra preannunciare il distacco (che sarà ovviamente più violento, meno facile e molto più costoso) dall’Europa. In questo modo il ministro dell’Interno, però, ha dimostrato di essere solo al comando, umiliando il suo primo ministro e profittando con prontezza delle difficoltà che stanno attanagliando l’altro vicepresidente del Consiglio Di Maio.
Non sarà un colpo di Stato, ma certo è un colpo allo Stato, una botta violenta ai tanti meccanismi, in parte costituzionali, in parte contrattuali, che regolano questo strano governo. Uno schiaffo in pubblico al presidente della Repubblica. Un simile evento genera naturalmente una serie di domande destinate a restare senza risposta. Siamo così avanti nella “rivoluzione” preannunciata e predicata da Bannon e dai sovranisti religiosi del rosario alle frontiere per poter cominciare a esibire gesti di disprezzo nei confronti dell’Onu? È già il momento dello scontro con i governi delle élite e di Soros, dopo avere “preparato” nel modo più aspro e carico di insulti, anche feroci, il “dialogo” con l’Europa di cui siamo ancora parte? Vuol dire che questo è il momento in cui sciocchezze e bugie dette ai comizi sono diventate programma politico di un Paese pietrificato dalla Lega?
Voi sapete la via d’uscita che Salvini vorrebbe far passare per buona: prima deve decidere il Parlamento. Eppure chi ha governato per vent’anni con Berlusconi e accanto al dispendioso padre-padrone Bossi dovrebbe sapere che il Parlamento ratifica trattati, accordi e principi adottati in comune con altri Paesi o con organismi internazionali di cui siamo parte, dopo avere impegnato la propria adesione, come ha fatto Conte all’Onu, a nome dell’Italia.
Ma se l’intento era dichiarare una emergenza in cui d’ora in poi tutto cambia, a cominciare da chi decide che immagine ha l’Italia, certo il ministro dell’Interno ha segnato in poche ore molti punti. E i cinquestelle dovrebbero domandarsi se hanno una via d’uscita. Infatti la sequenza ci dà per definitivo lo scambio fra due realtà importanti e diverse: sicurezza e immigrazione.
La legge detta “della Sicurezza” si dedica quasi esclusivamente a rendere sempre più grama la vita degli immigrati, buoni e cattivi, meritevoli e marginali, tagliando dovunque le misere spese, inventando reati e pene, alternando la condanna al vagabondaggio per mancanza di rifugi al raddoppio della detenzione (in attesa di rimpatri impossibili) in luoghi peggiori delle carceri. Intanto la legge sulla “legittima difesa” tenta di stabilire lo status di eroe nazionale per chi spara e uccide. E sta circolando senza vergogna l’idea di tassare le rimesse degli immigrati che lavorano, tassarle, cioè, al momento dell’invio alla famiglia, dopo averle tassate regolarmente in Italia.
Come si vede, questo Paese è in stato d’assedio, stretto nella morsa di leggi e di gesti di governo insensati che tolgono sempre più dignità e libertà a tutti, anche agli italiani che applaudono o credono che sia conveniente accettare. La loro ora zero è scattata. Quando scatterà l’ora zero di una ferma, civile opposizione?
La Stampa 2.12.18
Gli sceicchi dialogano con Israele
di Maurizio Molinari
Benjamin Netanyahu è accolto dal Sultano dell’Oman, le note dell’«Hatikwa» vengono suonate negli Emirati, l’Arabia Saudita si protegge con tecnologia israeliana, il sovrano del Bahrein invita ministri dello Stato ebraico e il Qatar si accorda con Gerusalemme per inviare ingenti aiuti alla Striscia di Gaza: quanto avvenuto nell’ultimo mese dimostra che la novità in Medio Oriente è lo scongelamento dei rapporti fra le monarchie del Golfo e Israele.
Si tratta di un processo in pieno svolgimento e dalle conseguenze ancora difficili da prevedere anche se è già possibile individuare i tre fattori che lo hanno innescato.
Primo: sul piano strategico lo Stato ebraico e i Paesi arabi del Golfo si sentono ugualmente minacciati dall’Iran di Ali Khamenei a causa delle mosse di Teheran su programma nucleare, riarmo balistico e sostegno a gruppi terroristici o ribelli sciiti.
Secondo: sul fronte economico monarchi, sultani ed emiri vedono la possibilità di creare un’alleanza fra risorse naturali in loro possesso ed alta tecnologia israeliana capace di trasformare quest’angolo di pianeta in un protagonista dell’economia globale.
Terzo: per i leader arabi del Golfo come per Israele il riferimento è il presidente Donald Trump che ha riassegnato all’America il ruolo di tradizionale protettore dei propri alleati nella regione, archiviando le incertezze del predecessore Barack Obama.
L’interrogativo davanti a tale processo di riavvicinamento è fino a dove può arrivare ovvero se può portare a favorire una soluzione del conflitto israelo-palestinese. Da qui l’attenzione per le parole di Marc Schneier, il rabbino di New York divenuto uno dei canali informali di questa nuova stagione diplomatica.
«Per i Paesi del Golfo la questione palestinese resta importante - spiega Schneider - ma mentre prima affermavano di non poter avere contatti con Israele fino alla sua soluzione, ora ritengono che i due processi possano essere contemporanei». Questo spiega perché il sultano Qaboos dell’Oman ha invitato Netanyahu nel suo palazzo, perché ad Abu Dhabi la medaglia d’oro nel judo ha portato a suonare a cielo aperto l’inno nazionale israeliano alla presenza del ministro Miri Regev, perché il Bahrein ha invitato un altro ministro israeliano a Manama in aprile così come perché, secondo il quotidiano arabo «Al Arabi Al Jadid», l’Arabia Saudita vuole formare un «Quartetto arabo» - con Egitto, Giordania e palestinesi - per negoziare con Israele la risoluzione del conflitto centenario, iniziato con l’opposizione a fine Ottocento delle tribù arabe all’arrivo nella Palestina ottomana dei pionieri sionisti in fuga dalle persecuzioni dello zar.
Dietro il sostegno di Riad a tale svolta ci sono crescenti legami economici e militari con Israele - inclusa la difesa dei palazzi reali dai droni armati di bombe lanciati dai ribelli Houthi in Yemen - ma anche qualcosa di più: la maturata convinzione nei leader religiosi sunniti che Israele sia parte integrante dell’ebraismo, superando così la precedente ostilità al sionismo come «entità coloniale». Si spiega così la decisione del sovrano del Bahrein di reagire all’annuncio di Trump sul trasferimento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme con l’invio di una folta delegazione di leader religiosi sunniti che si è recata in visita ai luoghi santi della città vecchia. Manama d’altra parte è l’unica capitale araba del Golfo ad ospitare ancora una comunità ebraica e ciò aumenta il significato dell’avvicinamento a Israele, fino al punto da far prevedere al tam tam regionale che possa essere proprio il Bahrein la prima monarchia ad allacciare formali legami diplomatici con lo Stato ebraico. A ciò bisogna aggiungere che Netanyahu vanta anche un dialogo informale con il Qatar, ancora isolato da tutti i suoi vicini. Le relazioni fra Gerusalemme e Doha si concentrano su Gaza perché gli aiuti, economici ed umanitari, che l’Emiro Al-Thani fa arrivare alla Striscia sono considerati da Israele un fattore di stabilità, capace di creare una cornice diversa anche nei rapporti con gli acerrimi nemici di Hamas. Come se non bastasse c’è anche il Sahel in movimento: il presidente del Ciad, Idriss Deby, si è recato nei giorni scorsi a Gerusalemme - dopo 46 anni dalla fine delle relazioni - affermando che l’aiuto israeliano contro i gruppi jihadisti nel Sahara «ha posto le premesse per una ripresa dei rapporti che interrompemmo nel 1972 solo perché obbligati dal colonnello libico Moammar Gheddafi».
L’amministrazione Trump considera tali e tanti sviluppi la premessa di un nuovo possibile assetto del Medio Oriente, al fine di isolare l’Iran e ridimensionare il ruolo della Russia, mentre l’Europa appare ancora alla finestra, incapace di cogliere le significative novità che stanno maturando sul lato opposto del Mediterraneo.
Corriere 2.11.18
Un impero senza confini
La supremazia cinese
di Ernesto Galli della Loggia
Il caso ormai notissimo occorso a Dolce & Gabbana — la casa d’alta moda italiana spinta a chiedere scusa al popolo cinese per una sua pubblicità giudicata offensiva da quel Paese — getta luce su una cruciale trasformazione che è iniziata da tempo ma che in questo inizio del XXI secolo sta assumendo proporzioni impreviste soprattutto in seguito alla globalizzazione. Mi riferisco alla crescita esponenziale del peso dell’economia nel sistema delle relazioni e delle organizzazioni internazionali: un fenomeno che ancora una volta sembra rivolgersi a danno soprattutto dell’Europa.
Naturalmente l’economia ha sempre costituito un elemento determinante nel definire la potenza di un Paese, e l’arma economica è sempre stata usata in vari modi (sanzioni, embargo, limitazioni commerciali, ecc). Negli ultimi venti anni, però, le cose stanno velocemente cambiando o sono già cambiate, e il protagonista assoluto di questo cambiamento è la Cina. La quale è oggi in grado di adoperare l’arma economica suddetta come mai è accaduto prima grazie ad almeno quattro fattori: 1) l’enormità smisurata del suo mercato interno che assommando a poco meno di un quarto dell’intera popolazione mondiale è decisivo per lo smercio adeguato di molte produzioni di altri Paesi; 2) il bassissimo costo del lavoro che fa del Paese un luogo ambitissimo di delocalizzazione per un gran numero di industrie occidentali.
Poi gli altri fattori: 3) la crescita vertiginosa di una produzione manifatturiera competitiva che ormai si è spinta anche nei settori ad alto contenuto tecnico; 4) l’accumulo nelle mani dello Stato di un forte potere dirigistico e insieme di un’immensa quantità di risorse finanziarie (le riserve cinesi, ammontanti a 3.200 miliardi di dollari, sono le maggiori del mondo).
Se non sbaglio è la prima volta nella storia che questi quattro fattori appaiono riuniti insieme. Si tratta di una novità che corrisponde all’altra assoluta novità storica incarnata dalla Cina: e cioè quella di un Paese che vede la presenza contemporanea di un’economia in tutto e per tutto di tipo capitalistico da un lato, ma dall’altro di un sistema politico dittatoriale che non solo detiene importanti strumenti di orientamento economico ma che, non riconoscendo alcun diritto di libertà individuale e collettiva, è di fatto padrone della vita e della morte dei suoi cittadini. In Cina anche il miliardario proprietario legale delle più grandi ricchezze, detentore del massimo potere economico, può in pratica sparire dalla sera alla mattina nel buio di una galera del regime senza che egli possa fare realmente nulla per ritornare a vedere la luce.
Singolarità
Coesistono un sistema capitalistico e un sistema politico dittatoriale padrone dei suoi cittadini
L’insieme di queste, diciamo così, singolarità interne, unendosi alla novità epocale della liberalizzazione planetaria dei mercati, sta da tempo consentendo alla Cina un’ampiezza e una libertà di movimento mai viste che Pechino gestisce con dura spregiudicatezza. Il che, come dicevo, non manca di produrre enormi cambiamenti nel quadro internazionale candidando la grande nazione asiatica ad un ruolo di potere mondiale senza confronti, specialmente per le forme nuove in cui si esercita. Si va dall’acquisto crescente di quote importanti dei debiti sovrani occidentali (già oggi Pechino detiene ad esempio circa il 12 per cento del debito americano) alla costruzione delle ormai celebri «vie della seta» — cioè di alcune grandiose catene di iniziative infrastrutturali e commerciali destinate a collegare la Cina con l’Eurasia fino ad affacciarsi sul Mediterraneo e sull’Atlantico grazie all’acquisto di grandi porti (51 per cento di quelli del Pireo, Bilbao e Valencia; 49 per cento di Marsiglia, 35 di Anversa) — all’acquisto di enormi spazi agricoli in Africa per produrre cibo da importare in Cina che, accompagnato alla fornitura a molti Paesi di armi e infrastrutture varie, specie nel settore dei trasporti, configura una vera e propria neocolonizzazione di fatto.
Tipico di tutte queste grandi iniziative di espansione economica e implicitamente politica è il fatto che nel metterle in opera la Cina si guarda bene dall’adottare alcun discrimine o preferenza di natura ideologica. Essa semplicemente sceglie ciò che più le conviene senza fare alcuna distinzione tra questo o quel regime, tra questo o quel Paese. Non dovendo rispondere a nessuna opinione pubblica interna, va bene tutto purché sia utile ai suoi interessi geopolitici: le tirannidi sanguinarie come le più limpidi democrazie liberali. Ciò che le sta a cuore è solo il proprio interesse e l’imposizione di alcuni punti irrinunciabili per il proprio prestigio: non è un certo un caso ad esempio se ormai a riconoscere l’esistenza di Taiwan sia rimasto in tutta l’Africa un solo Paese, lo Zimbabwe. D’altra parte egualmente degno di nota è il fatto che l’espansionismo cinese, proprio perché fondato in così ampia misura sul potere dei soldi e sui meccanismi del mercato — ormai assurti anche da noi al rango di divinità indiscutibili — non susciti neppure nell’Europa cristiana, liberale e socialdemocratica, alcuna apprezzabile critica e tanto meno una qualche opposizione significativa.
Economia
L’espansionismo fondato sul denaro neanche nell’Europa cristiana
e liberale suscita critiche
Così come nessuno, peraltro, sembra fare caso al ruolo sempre maggiore che la Cina della dittatura del partito unico svolge negli organismi internazionali, ad esempio alle Nazioni Unite. Seconda oggi solo agli Usa nei contributi regolari all’organizzazione (il 12 per cento delle entrate Onu nel prossimo triennio), nonché fornitrice di ben 2.500 caschi blu e di un fondo di un miliardo di dollari per le operazioni di peacekeeping, la Cina ha quadruplicato il numero dei suoi esperti rispetto solo a qualche anno fa. Naturalmente tutto ciò ha un prezzo: in questo caso lo smantellamento che Pechino ha richiesto e ottenuto di un programma previsto dalle stesse Nazioni Unite mirato a diffondere la cultura dei diritti umani all’interno della stessa organizzazione.
Del resto sul modo in cui l’Impero di mezzo concepisce la sua partecipazione alla vita degli organismi internazionali la dice lunga quanto è accaduto nelle settimane scorse all’Interpol. Da circa due anni la Cina aveva ottenuto di occupare la prestigiosa presidenza dell’Istituto che ha sede in Francia con un suo ex viceministro degli Interni, Meng Hongwei. Ma nel settembre scorso Meng, tornato per pochi giorni in patria, viene arrestato dalle autorità sotto l’accusa di «corruzione» e come migliaia di suoi concittadini in pratica scompare. Impossibile per chiunque avere sue notizie. L’Interpol riceve semplicemente e accetta senza fiatare, prendendola per buona, una lettera dattilografata di due righe e senza firma manoscritta con la quale Meng comunica le proprie dimissioni. Contemporaneamente sempre l’Interpol, secondo uno scambio di mail che Le Monde ha potuto vedere, viene «amabilmente richiesta» da Pechino di essere messa a parte sull’argomento «di ogni informazione o commento che potrebbero esser divulgati dall’organizzazione o da qualche suo rappresentante». Ultimo dettaglio forse non insignificante: dal 2010 a oggi l’ammontare della partecipazione della Cina al bilancio di Interpol è raddoppiato.
Poi gli altri fattori: 3) la crescita vertiginosa di una produzione manifatturiera competitiva che ormai si è spinta anche nei settori ad alto contenuto tecnico; 4) l’accumulo nelle mani dello Stato di un forte potere dirigistico e insieme di un’immensa quantità di risorse finanziarie (le riserve cinesi, ammontanti a 3.200 miliardi di dollari, sono le maggiori del mondo).
Se non sbaglio è la prima volta nella storia che questi quattro fattori appaiono riuniti insieme. Si tratta di una novità che corrisponde all’altra assoluta novità storica incarnata dalla Cina: e cioè quella di un Paese che vede la presenza contemporanea di un’economia in tutto e per tutto di tipo capitalistico da un lato, ma dall’altro di un sistema politico dittatoriale che non solo detiene importanti strumenti di orientamento economico ma che, non riconoscendo alcun diritto di libertà individuale e collettiva, è di fatto padrone della vita e della morte dei suoi cittadini. In Cina anche il miliardario proprietario legale delle più grandi ricchezze, detentore del massimo potere economico, può in pratica sparire dalla sera alla mattina nel buio di una galera del regime senza che egli possa fare realmente nulla per ritornare a vedere la luce.
Singolarità
Coesistono un sistema capitalistico e un sistema politico dittatoriale padrone dei suoi cittadini
L’insieme di queste, diciamo così, singolarità interne, unendosi alla novità epocale della liberalizzazione planetaria dei mercati, sta da tempo consentendo alla Cina un’ampiezza e una libertà di movimento mai viste che Pechino gestisce con dura spregiudicatezza. Il che, come dicevo, non manca di produrre enormi cambiamenti nel quadro internazionale candidando la grande nazione asiatica ad un ruolo di potere mondiale senza confronti, specialmente per le forme nuove in cui si esercita. Si va dall’acquisto crescente di quote importanti dei debiti sovrani occidentali (già oggi Pechino detiene ad esempio circa il 12 per cento del debito americano) alla costruzione delle ormai celebri «vie della seta» — cioè di alcune grandiose catene di iniziative infrastrutturali e commerciali destinate a collegare la Cina con l’Eurasia fino ad affacciarsi sul Mediterraneo e sull’Atlantico grazie all’acquisto di grandi porti (51 per cento di quelli del Pireo, Bilbao e Valencia; 49 per cento di Marsiglia, 35 di Anversa) — all’acquisto di enormi spazi agricoli in Africa per produrre cibo da importare in Cina che, accompagnato alla fornitura a molti Paesi di armi e infrastrutture varie, specie nel settore dei trasporti, configura una vera e propria neocolonizzazione di fatto.
Tipico di tutte queste grandi iniziative di espansione economica e implicitamente politica è il fatto che nel metterle in opera la Cina si guarda bene dall’adottare alcun discrimine o preferenza di natura ideologica. Essa semplicemente sceglie ciò che più le conviene senza fare alcuna distinzione tra questo o quel regime, tra questo o quel Paese. Non dovendo rispondere a nessuna opinione pubblica interna, va bene tutto purché sia utile ai suoi interessi geopolitici: le tirannidi sanguinarie come le più limpidi democrazie liberali. Ciò che le sta a cuore è solo il proprio interesse e l’imposizione di alcuni punti irrinunciabili per il proprio prestigio: non è un certo un caso ad esempio se ormai a riconoscere l’esistenza di Taiwan sia rimasto in tutta l’Africa un solo Paese, lo Zimbabwe. D’altra parte egualmente degno di nota è il fatto che l’espansionismo cinese, proprio perché fondato in così ampia misura sul potere dei soldi e sui meccanismi del mercato — ormai assurti anche da noi al rango di divinità indiscutibili — non susciti neppure nell’Europa cristiana, liberale e socialdemocratica, alcuna apprezzabile critica e tanto meno una qualche opposizione significativa.
Economia
L’espansionismo fondato sul denaro neanche nell’Europa cristiana
e liberale suscita critiche
Così come nessuno, peraltro, sembra fare caso al ruolo sempre maggiore che la Cina della dittatura del partito unico svolge negli organismi internazionali, ad esempio alle Nazioni Unite. Seconda oggi solo agli Usa nei contributi regolari all’organizzazione (il 12 per cento delle entrate Onu nel prossimo triennio), nonché fornitrice di ben 2.500 caschi blu e di un fondo di un miliardo di dollari per le operazioni di peacekeeping, la Cina ha quadruplicato il numero dei suoi esperti rispetto solo a qualche anno fa. Naturalmente tutto ciò ha un prezzo: in questo caso lo smantellamento che Pechino ha richiesto e ottenuto di un programma previsto dalle stesse Nazioni Unite mirato a diffondere la cultura dei diritti umani all’interno della stessa organizzazione.
Del resto sul modo in cui l’Impero di mezzo concepisce la sua partecipazione alla vita degli organismi internazionali la dice lunga quanto è accaduto nelle settimane scorse all’Interpol. Da circa due anni la Cina aveva ottenuto di occupare la prestigiosa presidenza dell’Istituto che ha sede in Francia con un suo ex viceministro degli Interni, Meng Hongwei. Ma nel settembre scorso Meng, tornato per pochi giorni in patria, viene arrestato dalle autorità sotto l’accusa di «corruzione» e come migliaia di suoi concittadini in pratica scompare. Impossibile per chiunque avere sue notizie. L’Interpol riceve semplicemente e accetta senza fiatare, prendendola per buona, una lettera dattilografata di due righe e senza firma manoscritta con la quale Meng comunica le proprie dimissioni. Contemporaneamente sempre l’Interpol, secondo uno scambio di mail che Le Monde ha potuto vedere, viene «amabilmente richiesta» da Pechino di essere messa a parte sull’argomento «di ogni informazione o commento che potrebbero esser divulgati dall’organizzazione o da qualche suo rappresentante». Ultimo dettaglio forse non insignificante: dal 2010 a oggi l’ammontare della partecipazione della Cina al bilancio di Interpol è raddoppiato.
il manifesto 2.12.18
La Milano antirazzista, contro la legge Salvini e i centri per i rimpatri
Immigrazione. Migliaia di persone in piazza per dire no al Cpr in via Corelli. Un corteo per nulla istituzionale e un risultato oltre le aspettative. Tra le duecento associazioni che hanno aderito, tante quelle cattoliche. Bandiere di Prc, Leu e Pap
di Roberto Maggioni
«Iniziamo da qui» urla un ragazzo dall’impianto montato sul camion alla fine della manifestazione. «È l’inizio di una campagna che impedirà la riapertura di questo lager. Oggi a Milano, domani in altre città». Dal ponte pedonale poco sopra alla sua testa viene calato uno striscione nero con scritto in bianco «No Cpr».
La banda della Murga milanese forma al ritmo dei tamburi un grande girotondo, in mezzo un bambino cinese si improvvisa coreografo e dirige le danze. Una ragazza sorregge un cartello con scritto sopra «sono irregolare ma non per scelta». Il corteo si ferma a 500 metri dal centro di accoglienza di via Corelli che sarà chiuso per essere trasformato in Cpr (centro di permanenza per il rimpatrio), dopo aver percorso alcuni chilometri nella zona est della città.
IN PIAZZA 20 mila persone per gli organizzatori, qualche migliaio in meno in realtà, ma di sicuro tante e non era scontato per un tema specifico come quello dei Cpr. Un corteo senza alcuna ambiguità, chi era in piazza ieri a Milano c’era anche due anni fa contro i centri di detenzione in Libia e l’istituzione dei Cpr fatta dall’ex ministro Pd Minniti. C’erano allora e ci sono stati oggi, con la consapevolezza che però tutto sta peggiorando. In piazza non c’era il Pd, l’amministrazione del sindaco Sala ha sostanzialmente ignorato questa mobilitazione che non è stata supportata neanche dalla rete Insieme Senza Muri vicina all’assessore ai servizi sociali Pierfrancesco Majorino, da sempre contrario alla riapertura del Cpr. Molte delle associazioni che fanno parte della rete hanno però aderito ed erano presenti.
È STATA QUINDI una manifestazione per nulla istituzionale ma non «antagonista». I centri sociali c’erano, insieme alle 200 associazioni che hanno dato la loro adesione. Tra queste, tante cattoliche. Qualche bandiera di partito c’era, Rifondazione comunista, Liberi e Uguali, Potere al Popolo, ma è stata una manifestazione lontana dai partiti fatta di persone stanche dell’incapacità della sinistra di reagire all’egemonia della destra. Tanti gli studenti, lo spezzone d’apertura, per un corteo con un’età media piuttosto bassa. Una generazione abituata a viaggiare per il mondo senza problemi che sta crescendo in un paese che chiude i confini.
C’erano gli insegnanti delle scuole di italiano per stranieri, gli operatori dei centri d’accoglienza. Anche quelli del centro di via Corelli dove vivono 300 persone, erano 350 fino a pochi giorni fa. «Alcuni se ne sono andati per conto loro, non hanno voluto aspettare la chiusura. Altri sono stati trasferiti in altre città e hanno rotto i legami che avevano creato qui» dice Andrea della scuola di zona che insegna italiano anche ai richiedenti asilo di via Corelli. C’era anche qualcuno che diciotto anni fa aveva partecipato alla grande mobilitazione del 29 gennaio 2000 contro gli allora Cpt, i centri di permanenza temporanea istituiti dalla legge Turco-Napolitano. «Quel giorno però ci fermarono con cariche e lacrimogeni sul ponte prima di via Corelli» raccontano Anna e Niccolò proprio mentre quel ponte lo attraversiamo. «Avevamo le tute bianche, allora, e gli scudi-canotto ad aprire il corteo». Un’altra epoca, un’altra Milano. «Forse siamo troppo poco incazzati» dice un’altra ragazza.
MILANO HA UNA CERTA abitudine a mobilitarsi sul tema dell’immigrazione, è una consapevolezza diffusa pre-politica che è storicamente parte della città. Il risultato raggiunto ieri va però oltre le aspettative di chi si è mosso per organizzare questa giornata. Una manifestazione per lo più ignorata nei giorni precedenti dai media, che non ha avuto alcun supporto istituzionale, ma che è riuscita ad andare oltre i circuiti militanti. «Questo deve essere solo l’inizio» dicono Luciano Muhlbauer e Davide Salvadori, tra i portavoce di No Cpr. «Salvini vorrebbe aprire un Cpr in ogni regione e troverà in ogni regione qualcuno a impedirglielo. Deve diventare un problema nazionale». La cornice è quella del decreto sicurezza-immigrazione che nei giorni scorsi l’Anpi ha definito «apartheid giuridico». «Sono provvedimenti che creano segregazione, separazione tra italiani e non» dice anche Daniela Padoan di Osservatorio Solidarietà. «E non è solo una questione di leggi, i contesti fanno i testi. E il contesto oggi è quello di un attacco costante all’umanità, alla solidarietà e ai diritti».
La Stampa 2.12.18
Checkpoint e legge marziale
Viaggio nell’Ucraina che teme l’invasione russa
Gli abitanti all’Europa: ci sostenga di più e aumenti le sanzioni alla Russia Poroshenko: Mosca sta schierando 80 mila soldati e l’artiglieria al confine
di Giuseppe Agliastro
Nel centro di Kiev la vita sembra scorrere tranquillamente. Passeggiando per le vie innevate della città, non si direbbe che l’Ucraina sia un Paese in guerra. Bar e negozi riversano su viale Khreshatyk luci colorate e musica a tutto volume. Il conflitto nel Donbass sembra appartenere a un altro mondo o a un’altra epoca. Basta però parlare con la gente del posto, dare un’occhiata ai telegiornali locali, per accorgersi subito che la guerra contro i miliziani filorussi è, e soprattutto è tornata ad essere, la prima preoccupazione per milioni di ucraini.
Lo scontro navale di una settimana fa al largo della Crimea ha riacceso il timore di un’invasione russa in una popolazione che si sente parzialmente protetta dalla Nato, ma sacrificata in cambio del gas di Putin dall’Unione europea. Da quella stessa Unione europea in nome della quale cinque anni fa è scoppiata la rivolta di Maidan. È da lì che tutto ha avuto inizio. Gli eventi si sono susseguiti rapidamente come in una reazione a catena. La fuga del presidente filorusso Yanukovich. L’invasione russa della Crimea con uomini armati e senza insegne di riconoscimento. E infine la guerra nel Sud-Est ucraino, dove il Cremlino sostiene militarmente i separatisti. In quattro anni e mezzo di combattimenti sono morte 10.300 persone. Un milione e mezzo sono state costrette ad abbandonare le loro case. Il conflitto si riaccenderà dopo la cattura da parte dei russi di tre navi militari ucraine e dei loro equipaggi? A Kiev tanti sono convinti di sì.
«Attaccheranno»
Viktor si trascina con i suoi stivali e la mimetica tra la neve alta davanti al Teatro dell’Opera. È un militare di leva di 22 anni. «I russi attaccheranno, ma noi li respingeremo», dice. «Non ho paura», assicura orgoglioso davanti alla sua ragazza. Del resto non è mai stato sul fronte e non ha mai visto la guerra coi propri occhi. «Non mi aspetto mica che i carri armati russi arrivino a Kiev. Altrimenti interverrebbero gli americani e la Nato e scoppierebbe la terza guerra mondiale. Attaccheranno di nuovo nel Donbass. Ma alla fine vinceremo noi». Viktor viene da Kharkiv, nell’Est russofono. «Ma l’esercito - spiega - sta unendo il Paese e io considero fratelli tutti i miei commilitoni, anche quelli dell’Ovest» più nazionalista.
Marina ha 41 anni. Fa la commessa in un negozio di vestiti, ma sotto il cappotto indossa un vecchio maglione consunto. «Un attacco - afferma - è possibile in qualunque momento. Però mi auguro che non avvenga. Siamo stanchi della guerra, vogliamo la pace». L’Unione europea? «Dovrebbe sostenerci di più, imporre più sanzioni alla Russia. Ma ha paura di far arrabbiare Putin e perdere le forniture di metano russo. Mi pare che ora anche la Germania - dice riferendosi al Nord Stream 2 - stia costruendo una nuova conduttura sotto il Baltico per importare più gas dalla Russia». Per Marina la soluzione è una sola: l’ingresso nella Nato e nell’Unione europea. Ma la via per ora è di fatto bloccata dalla guerra.
Poteri accentrati
Anche Taras, un maestro elementare di 37 anni, si aspetta un’offensiva o «una nuova provocazione». Ma lui ha le idee chiare anche sui tempi: prima del 26 dicembre, data in cui scade la controversa legge marziale introdotta dal presidente Petro Poroshenko in dieci regioni «a rischio». «Putin - dice Taras - vuole colpire l’Ucraina e farla vacillare prima delle presidenziali del 31 marzo in modo da costringere a rimandare il voto e minare alla base la nostra democrazia». Praticamente ribalta le accuse rivolte a Poroshenko dal Cremlino di aver cercato lo scontro sul Mar Nero a fini elettorali. Le parole di Putin non sono supportate da alcuna prova. Ma sono in tanti, anche in Ucraina, a sospettare che il capo di Stato stia cercando di sfruttare la crisi per aumentare la sua bassa popolarità in vista delle presidenziali. Dopo il raid navale russo, Poroshenko voleva introdurre la legge marziale per 60 giorni. Una decisione che avrebbe potuto costringere a rimandare il voto. Alla fine il Parlamento si è imposto. La legge marziale è stata introdotta per 30 giorni e solo in alcuni territori. Il presidente ucraino ha promesso di non procrastinare le elezioni e di ridurre le libertà fondamentali solo in caso di invasione nemica.
«Ma che avverrà in caso di attacco?» si chiede di nuovo Taras. E si dà subito anche la risposta: «Secondo me prolungheranno la legge marziale e rimanderanno le elezioni».
I militari al confine
Per ora Poroshenko continua a farsi vedere in tv in divisa e circondato dai militari. Sfrutta quanto può il suo ruolo di comandante in capo delle forze armate. Le sue dichiarazioni allarmano gli ucraini. Ieri ha denunciato che i russi hanno schierato lungo la frontiera «oltre 80.000 soldati, 1.400 pezzi di artiglieria, 900 carri armati, 2.300 mezzi blindati, 500 jet e 300 elicotteri». Difficile dormire sonni tranquilli con questi numeri. Ma non per questo a Kiev tutti condividono l’introduzione della legge marziale. «Meglio tardi che mai», è il commento di una signora sui 50 anni. Mentre per il 62enne Andriy è solo una mossa politica. «Semmai - sostiene - doveva farlo prima, nel 2014 o nel 2015, quando il Donbass era un inferno».
Prigionieri politici
Divide anche il nuovo divieto di ingresso in Ucraina imposto agli uomini russi dai 16 ai 60 anni. Cioè a tutti coloro in teoria in grado di combattere. C’è chi ormai considera nemici tutti i russi. Come il giovane Denis. «Ha fatto bene. Se ne stiano a casa loro». E chi, come Vladimir, accusa il governo ucraino di populismo. «Mio figlio - racconta - vive in Russia ed è cittadino russo. Ho 74 anni e non ho paura di dire quello che penso: è una carognata».
In due giorni, circa 100 russi sono stati respinti alla frontiera. Tra loro c’è Kostja, che ha viaggiato in aereo con me da Mosca a Riga e poi da Riga a Kiev. Ha una trentina d’anni ed è un dissidente. Sullo zaino ha un adesivo in cui si chiede la liberazione del regista ucraino Oleg Sentsov, in carcere in Russia e considerato da molti un «prigioniero politico». Kostja mi mostra alcune foto in cui manifesta contro il Cremlino. In una stringe in mano un cartello con la scritta «No alla guerra in Ucraina». Ma la legge è uguale per tutti. All’aeroporto di Kiev le guardie lo hanno subito bloccato al controllo passaporti.
il manifesto 2.12.18
Migliaia in corteo a Roma contro mafie e povertà
Uno di noi, Una di noi. Da Libera all’Arci alla Cgil e tante esperienze di mutualismo. De Marzo (Rete dei Numeri pari): «Costruiamo un’alleanza sociale»
di Rachele Gonnelli
«Riconoscersi e ribellarsi contro disuguaglianze, mafie e razzismo» diceva lo striscione di testa della manifestazione che ha sfilato ieri per le strade del centro di Roma.
MIGLIAIA DI PERSONE, diecimila secondo gli organizzatori, per un corteo cittadino che da piazza della Repubblica ha impiegato circa tre ore per concludersi sotto l’Altare della patria. Lì all’imbrunire sono risuonate le parole della staffetta partigiana Tina Costa, 93 anni, quasi gridate dal palco, a spiegare in modo semplice il senso e l’unitarietà di una piattaforma che a prima vista potrebbe sembrare eterogenea, passando dal rifiuto del decreto Salvini al No al decreto Pillon, dalla difesa della Casa internazionale delle donne dalle mire della giunta Raggi alla lotta contro il caporalato nei campi intorno a Pomezia, sul litorale, fino alla resistenza agli sgomberi di case e spazi, urbani e suburbani, occupati dai movimenti per il diritto all’abitare, sgomberi promessi dal Campidoglio ma sotto la guida del Viminale. «Noi siamo qui contro l’ingiustizia e contro questo governo, siamo qui per riprenderci i diritti che ci hanno rubato da trent’anni e ora anche la democrazia, che vuol dire servizi sociali, lavoro e libertà come dice la Costituzione, siamo qui contro il risorgere di un nuovo fascismo», ha detto la partigiana invitando tutti i presenti a «prendere le bici e pedalare» perché «possiamo ancora vincere».
MANIFESTAZIONE UNITARIA e combattiva, anche se non bellicosa – infatti non c’è stata la minima tensione nonostante l’ampio schieramento di blindati e forze dell’ordine – che ha mobilitato un fronte ampio di forze sociali: dalla Cgil, presente in piazza con tantissime categorie, all’Arci, alla Rete romana degli studenti medi, a Libera, all’Anpi romano, a tantissimi comitati di quartiere, realtà di base, cooperative sociali, associazioni. Con una massiccia presenza di immigrati, tra cui tantissime donne con bambini in passeggino o in braccio.
«A UN PASSANTE DISTRATTO il nostro può sembrare un blocco sociale informe, in realtà qui sono rappresentate le nuove soggettività, dove si mischiano rivendicazioni anche diverse, tenute insieme dalla consapevolezza che nessuno vince da solo – spiega Giuseppe De Marzo della Rete dei Numeri pari – stiamo costruendo una alleanza ampia che parte dai territori, dal lavoro comune, da iniziative concrete di nuovo mutualismo. È un lavoro duro ma anche le forze politiche devono capire che è l’unico possibile per combattere l’avanzare della destra e siamo ancora all’inizio».
CONTRO LE DISUGUAGLIANZE e contro le mafie, dunque. Perché c’è un nesso che va spiegato, sciolto, tra il decreto-sicurezza di Salvini e l’operato degli ultimi due anni della giunta pentastellata in Campidoglio. «In una città dove ci sono 94 clan e 100 piazze di spaccio le mafie si sostituiscono allo Stato con un welfare criminale – continua De Marzo – interi quartieri sono dominati da una economia mafiosa, la mafia è tanto più forte quanto più ampia è la povertà e la marginalità sociale ma questo non succede per un virus o una meteorite, viene dalla chiusura degli spazi sociali e dei servizi, si nutre delle corresponsabilità istituzionali, nella zona grigia».
L’amministrazione capitolina ha appena presentato il bilancio comunale di previsione e da una analisi fatta dal Cresme per Libera – anticipata a il manifesto – risulta che quasi tutti i capitoli di spesa per servizi sociali, dagli asili agli interventi per il diritto alla casa ai disabili, sono stati pesantemente decurtati per un taglio complessivo di oltre 478 milioni di euro, mentre le varie associazioni ancora attendono una convocazione per discutere fattivamente del nuovo regolamento per l’assegnazione dei beni confiscati alle organizzazioni criminali.
«IL DECRETO-SICUREZZA crea solo più emarginazione e più irregolari che servono da manodopera alle mafie, è incostituzionale e noi non lo rispetteremo», dice nettamente Claudio Graziano dell’Arci. Un cartello alle sue spalle recita: «Il freddo uccide, sappiamo chi è stato». Tre giorni fa un clochard è morto a San Lorenzo: su 8 mila persone che ogni notte dormono in strada ci sono solo 2.500 posti letto del Comune, che invece di potenziarli dieci giorni fa non ha trovato di meglio da fare che procedere invece allo sgombero dell’accampamento di fortuna gestito dai volontari dell’associazione Baobab Experience.
La Stampa 2.12.18
Auto in fiamme, palazzi bruciati e scontri
La guerriglia dei gilet gialli devasta Parigi
Paolo Levi
Oltre cento feriti, di cui uno in coma, auto e negozi in fiamme, i grandi magazzini del centro evacuati, una statua della Marianna repubblicana presa a picconate e l’Arco di Trionfo imbrattato da scritte anti-Macron: ha assunto dimensioni pressoché incontrollabili la furia devastatrice dei casseurs che in occasione del quindicesimo giorno consecutivo di proteste dei gilet-gialli, hanno scatenato Arancia Meccanica nel cuore di Parigi, dopo i danni per oltre un milione di euro già causati la settimana scorsa sui Campi-Elisi. Da Buenos Aires, dove si trovava per il G20, Emmanuel Macron ha condannato le violenze, tenendo a «scagionare» la stragrande maggioranza di casacche gialle pacifiche scese in piazza contro l’innalzamento delle accise sul diesel e per la difesa del potere d’acquisto. «Quanto accaduto a Parigi - ha detto Macron - non ha nulla a che vedere con l’espressione pacifica di una rabbia legittima. Nessuna causa può giustificare che le forze dell’ordine vengano attaccate, che i negozi vengano saccheggiati, che palazzi pubblici o privati vengano incendiati, che passanti o giornalisti vengano minacciati». Chi ha messo a ferro e fuoco Parigi «non vuole il cambiamento, vuole il caos», ha avvertito, garantendo che i violenti «verranno identificati» e processati.
Alle 19,30 di ieri sera, erano oltre 260 gli individui fermati. Secondo l’ultimo bilancio del ministro dell’Interno, Christophe Castaner, oltre cento i feriti, di cui almeno 14 agenti di polizia. Tra i manifestanti uno è finito in coma, travolto dalla pesante inferriata dei Giardini delle Tuileries divelta da un gruppo di facinorosi. In tutto il Paese, i manifestanti gilets-jaunes sono stati 75.000, a Parigi 5.500.In serata, mentre le autorità parlavano di un progressivo ritorno alla calma, alcuni quartieri della capitale, in particolare, attorno agli Champs-Elysées e sulla rue de Rivoli apparivano devastati. Decine e decine di carcasse di auto ancora fumanti, vetrine di negozi, banche, agenzie, sono spaccate, vetri ovunque e poca illuminazione. Molti locali commerciali sono distrutti e svuotati all’interno. A metà pomeriggio, mentre le violenze si allargavano a macchia d’olio anche in molte zone del centro, incluso tra il Louvre e l’Opéra, sono stati evacuati i grandi magazzini Printemps e Lafayette, meta dello shopping natalizio per milioni di parigini e turisti. «I gilet gialli trionferanno»: si legge in una delle scritte con cui i casseurs hanno imbrattato l’Arco di Trionfo, tra i monumenti simbolo della Francia dove riposa il milite ignoto, distruggendo, tra l’altro, diversi oggetti esposti nel piccolo museo all’interno.
Questa mattina, Macron presiederà un vertice di sicurezza nazionale. Una riunione di crisi per valutare i danni è stata convocata anche dalla sindaca, Anne Hildalgo, «triste e profondamente indignata», per la giornata nera. «Il nostro Paese - osserva la socialista - si trova davanti ad una crisi maggiore. Potremo risolverla solo attraverso il dialogo». Mentre la leader Rn, Marine Le Pen, esprime «disgusto» e accusa l’esecutivo di infiammare questo clima «insurrezionale», tante casacche gialle deplorano che l’azione dei violenti eclissi la protesta pacifica. In loro sostegno anche Brigitte Bardot ha indossato un gilet-jaune: «Macron - ha accusato BB - uccide la povera gente. Finirò col diventare comunista...».Oltre cento feriti, di cui uno in coma, auto e negozi in fiamme, i grandi magazzini del centro evacuati, una statua della Marianna repubblicana presa a picconate e l’Arco di Trionfo imbrattato da scritte anti-Macron: ha assunto dimensioni pressoché incontrollabili la furia devastatrice dei casseurs che in occasione del quindicesimo giorno consecutivo di proteste dei gilet-gialli, hanno scatenato Arancia Meccanica nel cuore di Parigi, dopo i danni per oltre un milione di euro già causati la settimana scorsa sui Campi-Elisi. Da Buenos Aires, dove si trovava per il G20, Emmanuel Macron ha condannato le violenze, tenendo a «scagionare» la stragrande maggioranza di casacche gialle pacifiche scese in piazza contro l’innalzamento delle accise sul diesel e per la difesa del potere d’acquisto. «Quanto accaduto a Parigi - ha detto Macron - non ha nulla a che vedere con l’espressione pacifica di una rabbia legittima. Nessuna causa può giustificare che le forze dell’ordine vengano attaccate, che i negozi vengano saccheggiati, che palazzi pubblici o privati vengano incendiati, che passanti o giornalisti vengano minacciati». Chi ha messo a ferro e fuoco Parigi «non vuole il cambiamento, vuole il caos», ha avvertito, garantendo che i violenti «verranno identificati» e processati.
Alle 19,30 di ieri sera, erano oltre 260 gli individui fermati. Secondo l’ultimo bilancio del ministro dell’Interno, Christophe Castaner, oltre cento i feriti, di cui almeno 14 agenti di polizia. Tra i manifestanti uno è finito in coma, travolto dalla pesante inferriata dei Giardini delle Tuileries divelta da un gruppo di facinorosi. In tutto il Paese, i manifestanti gilets-jaunes sono stati 75.000, a Parigi 5.500.In serata, mentre le autorità parlavano di un progressivo ritorno alla calma, alcuni quartieri della capitale, in particolare, attorno agli Champs-Elysées e sulla rue de Rivoli apparivano devastati. Decine e decine di carcasse di auto ancora fumanti, vetrine di negozi, banche, agenzie, sono spaccate, vetri ovunque e poca illuminazione. Molti locali commerciali sono distrutti e svuotati all’interno. A metà pomeriggio, mentre le violenze si allargavano a macchia d’olio anche in molte zone del centro, incluso tra il Louvre e l’Opéra, sono stati evacuati i grandi magazzini Printemps e Lafayette, meta dello shopping natalizio per milioni di parigini e turisti. «I gilet gialli trionferanno»: si legge in una delle scritte con cui i casseurs hanno imbrattato l’Arco di Trionfo, tra i monumenti simbolo della Francia dove riposa il milite ignoto, distruggendo, tra l’altro, diversi oggetti esposti nel piccolo museo all’interno.
Questa mattina, Macron presiederà un vertice di sicurezza nazionale. Una riunione di crisi per valutare i danni è stata convocata anche dalla sindaca, Anne Hildalgo, «triste e profondamente indignata», per la giornata nera. «Il nostro Paese - osserva la socialista - si trova davanti ad una crisi maggiore. Potremo risolverla solo attraverso il dialogo». Mentre la leader Rn, Marine Le Pen, esprime «disgusto» e accusa l’esecutivo di infiammare questo clima «insurrezionale», tante casacche gialle deplorano che l’azione dei violenti eclissi la protesta pacifica. In loro sostegno anche Brigitte Bardot ha indossato un gilet-jaune: «Macron - ha accusato BB - uccide la povera gente. Finirò col diventare comunista...».
Oltre cento feriti, di cui uno in coma, auto e negozi in fiamme, i grandi magazzini del centro evacuati, una statua della Marianna repubblicana presa a picconate e l’Arco di Trionfo imbrattato da scritte anti-Macron: ha assunto dimensioni pressoché incontrollabili la furia devastatrice dei casseurs che in occasione del quindicesimo giorno consecutivo di proteste dei gilet-gialli, hanno scatenato Arancia Meccanica nel cuore di Parigi, dopo i danni per oltre un milione di euro già causati la settimana scorsa sui Campi-Elisi. Da Buenos Aires, dove si trovava per il G20, Emmanuel Macron ha condannato le violenze, tenendo a «scagionare» la stragrande maggioranza di casacche gialle pacifiche scese in piazza contro l’innalzamento delle accise sul diesel e per la difesa del potere d’acquisto. «Quanto accaduto a Parigi - ha detto Macron - non ha nulla a che vedere con l’espressione pacifica di una rabbia legittima. Nessuna causa può giustificare che le forze dell’ordine vengano attaccate, che i negozi vengano saccheggiati, che palazzi pubblici o privati vengano incendiati, che passanti o giornalisti vengano minacciati». Chi ha messo a ferro e fuoco Parigi «non vuole il cambiamento, vuole il caos», ha avvertito, garantendo che i violenti «verranno identificati» e processati.
Alle 19,30 di ieri sera, erano oltre 260 gli individui fermati. Secondo l’ultimo bilancio del ministro dell’Interno, Christophe Castaner, oltre cento i feriti, di cui almeno 14 agenti di polizia. Tra i manifestanti uno è finito in coma, travolto dalla pesante inferriata dei Giardini delle Tuileries divelta da un gruppo di facinorosi. In tutto il Paese, i manifestanti gilets-jaunes sono stati 75.000, a Parigi 5.500.In serata, mentre le autorità parlavano di un progressivo ritorno alla calma, alcuni quartieri della capitale, in particolare, attorno agli Champs-Elysées e sulla rue de Rivoli apparivano devastati. Decine e decine di carcasse di auto ancora fumanti, vetrine di negozi, banche, agenzie, sono spaccate, vetri ovunque e poca illuminazione. Molti locali commerciali sono distrutti e svuotati all’interno. A metà pomeriggio, mentre le violenze si allargavano a macchia d’olio anche in molte zone del centro, incluso tra il Louvre e l’Opéra, sono stati evacuati i grandi magazzini Printemps e Lafayette, meta dello shopping natalizio per milioni di parigini e turisti. «I gilet gialli trionferanno»: si legge in una delle scritte con cui i casseurs hanno imbrattato l’Arco di Trionfo, tra i monumenti simbolo della Francia dove riposa il milite ignoto, distruggendo, tra l’altro, diversi oggetti esposti nel piccolo museo all’interno.
Questa mattina, Macron presiederà un vertice di sicurezza nazionale. Una riunione di crisi per valutare i danni è stata convocata anche dalla sindaca, Anne Hildalgo, «triste e profondamente indignata», per la giornata nera. «Il nostro Paese - osserva la socialista - si trova davanti ad una crisi maggiore. Potremo risolverla solo attraverso il dialogo». Mentre la leader Rn, Marine Le Pen,
il manifesto 2.12.18
De Magistris battezza il suo fronte
Sinistra. Il sindaco di Napoli lancia la coalizione civica «contro l’onda nera», ma non scioglie la riserva sulle europee. Gli spagnoli di Podemos unici politici ammessi sul palco. Potere al popolo assente con polemica
di Adriana Pollice
ROMA «Lavoriamo per darci un luogo, un metodo, un nome e un simbolo. Per le prossime scadenze elettorali ci saremo se ci saranno le fondamenta della casa»: il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, ieri al Teatro Italia di Roma ha messo in moto la sua coalizione civica («un campo largo contro l’onda nera» l’ha definita) senza però sciogliere la riserva sulle prossime europee. Sui manifesti c’è solo il suo viso e lo slogan «Per una nuova coalizione dei popoli». Un migliaio i presenti, quasi la metà da Napoli organizzati da Dema, il movimento del sindaco. In sala gli esponenti di Sinistra italiana e Rifondazione comunista ma nelle retrovie ad ascoltare perché il mantra di Dema è «no al quarto polo». Sul palco sono saliti solo i rappresentanti di categorie (insegnanti, studenti, sindaci di frontiera) oppure esponenti di lotte come i No Terzo valico o attivisti come Giovanna Cavallo del Baobab o Giulia Rodano della Casa internazionale delle donne. Accanto a loro il presidente emerito della Corte costituzionale, Paolo Maddalena, e Cecilia Strada di Emergency.
ASSENTE INVECE Potere al popolo, che ha pubblicato una nota molto dura: «Avevamo ricevuto un invito che avevamo accettato. Poi abbiamo saputo che saremmo potuti intervenire non come realtà politica, ma come singoli militanti impegnati in qualche lotta. I soli soggetti politici titolati a parlare sarebbero stati il coordinatore di Dema e de Magistris. Potere al Popolo non è un partito ma un movimento sociale. Siamo stati considerati identici a chi era candidato con D’Alema e soci». Per poi accusare: «I partiti c’erano, non sono intervenuti i leader, che fanno tanto “sfigati della sinistra”, ma membri di quei partiti nella veste di attivisti sociali». Quindi la conclusione: «I vecchi partiti della sinistra per esistere devono eleggere e de Magistris sembra un buon cavallo. Com’è possibile che i militanti di quei partiti si trovino trascinati in un nuovo cartello senza essere interpellati? Bisogna partire non da appelli vaghi, leaderismi, candidature, ma dalle assemblee territoriali, da un programma chiaro e radicale».
In teatro nessun commento su Pap, la scena è stata tutta per de Magistris, che ha battezzato la nascita di un terzo fronte «alternativo sia al blocco dell’austerity che al governo del cambiamento». Il bersaglio degli attacchi del sindaco di Napoli sono stati i 5S: intercettare l’elettorato pentastellato scontento dell’accordo con la Lega è l’obiettivo.
IERI DE MAGISTRIS ha riservato una frecciata anche a Roberto Fico, che venerdì lo aveva smentito su presunti colloqui per le elezioni locali («solo normali rapporti istituzionali» ha chiarito). Il sindaco ha punto proprio su una battaglia cara a Fico: «A Napoli c’è l’acqua pubblica, a Roma e Torino no». E ancora: «I 5S hanno fatto diventare predominante nel governo l’uomo più a destra d’Italia, Salvini, ottenendo così il governo più a destra della storia repubblicana. Non è con il ping pong Fico-Luigi Di Maio che si riacquista il consenso».
Quindi un affondo sul dl Sicurezza: «Se è grave l’attacco ai migranti, la seconda parte è ugualmente preoccupante: l’aumento di pena fino a 6 anni per blocco stradale colpisce l’opposizione sociale; si puniscono le occupazioni quando per la lotta ai clan basta la normativa specifica; si mettono in campo le intercettazioni per sorvegliare il dissenso politico». Fino ad attaccare il reddito di cittadinanza: «Stanno stampando le tessere per il pane, come all’epoca di Achille Lauro».
GLI UNICI POLITICI ammessi sul palco sono stati gli esponenti di Podemos, Jesùs Santos e Alejandro Merlo. Atteso il videomessaggio di Pablo Iglesias, che alla fine è arrivato: «Vogliamo realizzare con voi e con altri movimenti un’Europa capace di restituire i diritti sociali». In giro per il teatro c’era Lorenzo Marsili di Diem25, il movimento di Yanis Varoufakis, con cui i rapporti si sono fatti tesi in queste settimane. De Magistris ieri ha ripetuto: «Porte aperte anche a loro». In serata arriva il commento via social da Nicola Fratoianni, segretario di Si da settimane a bordo della nave Mare Jonio: «Un primo passo per la costruzione di un’alternativa di cui c’è bisogno in Europa. Mettiamoci in cammino».
il manifesto 2.12.18
Camus il solitario ma il solidale
Novecento francese. Fra le tre recenti ri-traduzioni, spicca «Il diritto e il rovescio», raccolta di racconti 1937: Albert Camus vi anticipa le opere maggiori, «tutta l’assurda semplicità del mondo»
di Pasquale Di Palmo
«Vede, Jean, ho avuto delle critiche sui giornali; non mi posso lamentare; l’accoglienza che hanno riservato a queste pagine è stata insperatamente calorosa. Ma io leggevo in queste critiche le stesse frasi che ritornavano: amarezza, pessimismo ecc. Non hanno capito – e a volte mi dico che non mi sono fatto capire bene. Se non sono riuscito a comunicare tutto il mio gusto per la vita, tutta la voglia che ho di addentarla avidamente, se non sono riuscito a dire che la morte stessa e il dolore non facevano che esasperare in me questa ambizione di vivere, allora non ho detto nulla».
Così scriveva Albert Camus all’amico Jean de Maisonseul quando uscì nel 1937 in 385 esemplari il suo libro d’esordio, L’Envers et l’Endroit, grazie ad Edmond Charlot, giovane editore algerino. Divenuto introvabile, il testo venne ristampato nel 1958 da Gallimard, arricchito da una prefazione dell’autore. È ora riproposto da Bompiani nella nuova, intensa traduzione di Yasmina Melaouah con il titolo anastrofico Il diritto e il rovescio (pp. 80, € 9,00) che affianca le recenti versioni di L’esilio e il regno, a cura della medesima traduttrice (pp. 176, € 10,00) e del dramma Caligola (pp. 160, € 10,00), uno dei capisaldi della produzione teatrale reso in italiano da Camilla Diez. Il tutto concepito nel progetto di rivisitazione dell’opera di Camus inaugurato qualche tempo fa da Bompiani con l’allestimento di versioni meno datate dei suoi romanzi più conosciuti, cui va ad aggiungersi l’odierna ristampa di altri titoli basilari come La morte felice, Tutto il teatro e Riflessioni sulla pena di morte. Le traduzioni attuali, improntate ad un linguaggio più consono ai nostri tempi, esibiscono una maggior aderenza al testo, correggendo alcune imprecisioni che figuravano nelle lezioni precedenti, come nell’incipit dell’«Ironia», testo inaugurale del Diritto e il rovescio, dove la vecchia protagonista ha il «lato destro paralizzato», invece del «fianco sinistro» della versione di Sergio Morando datata 1959.
All’insegna del racconto la stagione creativa di Camus idealmente si apre e si chiude: L’esilio e il regno, pubblicato da Gallimard nel 1958, rappresenta l’ultimo titolo che l’autore licenziò prima di morire nel 1960 e, come tale, costituisce una sorta di contraltare alla raccolta Il diritto e il rovescio. Tra i due versanti si inscrive una tra le vicende intellettuali più significative del Novecento, di una dirittura morale e un rigore ammirevoli. Le nozioni di assurdo e di rivolta sembrano caratterizzare l’opera stessa di Camus, lungo un itinerario creativo felice e versatile che annovera autentici capolavori: da Lo straniero a Il mito di Sisifo, da La peste a L’uomo in rivolta, da La caduta ai titoli apparsi postumi. Libri scritti in uno stile sobrio, asciutto, misurato, che nulla concede sul piano virtuosistico e che si misura indifferentemente con prosa narrativa e saggio di argomento speculativo, testi critici e teatrali, articoli di taglio politico e annotazioni diaristiche (vedi rispettivamente le corrispondenze per «Combat» intitolate Questa lotta vi riguarda e i Taccuini, entrambi ora ristampati da Bompiani).
Nei cinque brevi racconti confluiti in Il diritto e il rovescio, scritti tra il 1935 e il 1936, è già presente in filigrana il timbro inconfondibile che contrassegnerà tutta la produzione di Camus, a cominciare dal succitato «L’ironia», in cui vengono messe in relazione, con l’esemplare semplicità di un trittico belliniano, tre vicende umane che hanno a che vedere con un mondo che ha il sapore agrodolce di un’arancia, «a metà strada fra la miseria e il sole», tipico della giovinezza algerina dell’autore. «Quanto a me, so che la mia fonte di ispirazione è nel Diritto e il rovescio, in quel mondo di povertà e di luce in cui ho vissuto a lungo e il cui ricordo tutt’ora mi preserva dai due pericoli contrapposti che minacciano ogni artista, il risentimento e la soddisfazione», avverte Camus nella prefazione.
Ed è curioso che, in questo scritto introduttivo composto vent’anni dopo, Camus definisca tali testi «saggi» anziché racconti. A prescindere dal difficile inquadramento in un determinato genere, si tratta di composizioni che si muovono fra narrazione e annotazione frammentaria, carichi di un retaggio scopertamente autobiografico: si pensi alla morte della nonna, alla figura della madre silenziosa in «Fra il sì e il no» o alla contrapposizione tra «l’angoscia di Praga» e la pace del paesaggio idillico vicentino descritti in «La morte nell’anima». Roger Grenier giustamente rileva come in questi spunti sia rintracciabile «la nozione di assurdo» a cominciare da «tutta l’assurda semplicità del mondo», espressa in «Fra il sì e il no», che sembra prefigurare alcune asserzioni di Meursault nello Straniero.
Ancora Roger Grenier, a proposito dell’Esilio e il regno, asserisce: «Il fatto che il titolo scelto non sia, come invece accade frequentemente, quello di uno dei racconti, mostra la volontà dell’autore di sottolineare la loro coerenza, la loro unità di ispirazione. In tutte queste storie, infatti, l’esilio – morale o geografico – svolge un ruolo importante. Se Camus ha aggiunto «e il regno», è stato forse per riprodurre l’effetto di simmetria e di antitesi del suo primo libro, Il diritto e il rovescio. In una certa misura, del resto, L’esilio e il regno è un ritorno alle origini. Un testo come «I muti» è un’evocazione del «quartiere povero» che ha fornito l’ispirazione del Diritto e il rovescio. Uno dei racconti più risolti di Camus, La caduta, doveva originariamente essere incluso in questa raccolta.
E, al di là delle indubbie corrispondenze (e divergenze) di ordine stilistico, l’ultimo libro di Camus costituisce un motivo di fedeltà alle tematiche della povertà, del pensiero meridiano, della vita assolata nelle terre d’Algeria contrapposta a quella, inautentica, della metropoli parigina. Spiccano, in un disegno musivo omogeneo e articolato che risente di certo engagement, «I muti», in cui il profondo dissidio instauratosi tra operai e padrone si stempera quando la figlia di quest’ultimo viene ricoverata a causa di un malore improvviso, e «L’ospite» dove la solidarietà si esplica attraverso gli scrupoli di coscienza di un maestro a cui viene affidato in custodia un arabo accusato di omicidio. Il finale di «Giona o l’artista al lavoro» evidenzia come il pittore, protagonista del racconto, dopo varie vicissitudini, scriva sulla «tela, completamente bianca una parola che si riusciva più o meno a decifrare, ma che non si capiva se andasse letta come solitario o solidale». Aggettivi che potrebbero definire lo stesso Camus, la sua tormentata vicenda espressiva, nonché la sua profonda avversione per le verità di comodo.
Il fatto che lo scrittore, nonostante certe analogie riguardanti soprattutto l’accanimento con il quale affrontava la questione dell’insensatezza di vivere e dell’assurdo, venisse tacciato di essere un esistenzialista non è che una delle tante generalizzazioni aventi a che fare con la sua opera. La concezione libertaria insita nei suoi testi non poteva che indirizzarlo verso posizioni etico-politiche quanto mai distanti rispetto a quelle di Sartre o Merleau-Ponty. Lui stesso precisò in un’intervista: «Non sono esistenzialista. Sartre e io siamo sempre stupiti nel vedere associati i nostri due nomi. Pensiamo persino di pubblicare un giorno o l’altro un annuncio sul giornale in cui affermeremo di non avere niente in comune e ci rifiuteremo di rispondere dei debiti che avremmo reciprocamente contratto. Perché, insomma, è uno scherzo. Sartre e io abbiamo pubblicato tutti i nostri libri, senza alcuna eccezione, prima di conoscerci. Quando ci siamo conosciuti, è stato per appurare che eravamo differenti. Sartre è esistenzialista, e il solo libro di idee che ho pubblicato, Il mito di Sisifo, era diretto proprio contro i filosofi chiamati esistenzialisti». A buon intenditor…
il manifesto 2.12.18
Nella Rivoluzione americana, lo scontro di due Illuminismi
Storia. Nel suo saggio «Il grande incendio» (Einaudi), Jonathan Israel incoraggia una revisione in chiave non più ideologica e novecentesca della storia politica statunitense: una discussione
di Tiziano Bonazzi
Nel 1959 lo storico americano Rober R. Palmer pubblicò un libro divenuto un classico, L’era delle rivoluzioni democratiche, 1760-1800, con il quale voleva dimostrare l’esistenza di una serie di movimenti democratici comuni a Europa e Stati Uniti dei quali le rivoluzioni americana e francese sarebbero stati i capisaldi. Palmer intendeva, così, sottrarre la Rivoluzione americana all’isolamento in cui sia europei che americani l’avevano relegata. Nell’individuare una comune matrice democratica atlantica, il volume aveva risvolti legati alla Guerra fredda; ma l’interpretazione ortodossa della Rivoluzione americana durante la Guerra fredda venne fissata da Hannah Arendt nel suo saggio Sulla rivoluzione, del 1963, in cui Rivoluzione americana e francese venivano rigidamente contrapposte. La prima, definita come esclusivamente politica perché si era compiuta in una società già largamente egualitaria, costituiva il modello di libertà a cui tutto l’Occidente non poteva non rifarsi; la seconda era il prototipo dell’incapacità democratica degli europei, il preludio necessario al totalitarismo novecentesco.
La tesi di Hannah Arendt si fondava sulla storiografia americana degli anni Cinquanta, la cosiddetta «scuola del consenso», che vedeva la società americana da sempre costituita dalla classe media, dove i conflitti sociali europei non avevano mai avuto spazio. Nel suo saggio appena uscito da Einaudi, Il grande incendio Come la Rivoluzione americana conquistò il mondo, 1775-1848 (traduzione di Dario Ferrari e Sarah Malfatti, pp. 880, euro 38,00 ) Jonathan Israel, storico delle idee inglese molto noto, che vive ora negli Stati Uniti, riprende la tesi di Palmer e controbatte quella di Arendt riconducendo la Rivoluzione americana al contesto europeo e dimostrando l’importanza che ebbe sia per i radicali europei che per quelli latinoamericani, fino al 1848. Del tutto necessaria, l’opera di Israel incoraggia una revisione in chiave non più ideologica e novecentesca della storia politica statunitense.
L’esempio dei radicali
Le sue tesi sull’Illuminismo e sulla Rivoluzione francese sono state molto discusse, e in particolare lo è la sua teorizzazione del dualismo fra l’Illuminismo moderato e quello da lui difeso, l’Illuminismo radicale, che proclamava l’universalità dei diritti e la necessità di garantirli ai gruppi esclusi, neri, donne, ebrei, istituendo una netta separazione fra stato e chiesa e battendosi per un effettivo pluralismo.
Priestley, Price, Paine, Condorcet, Volney, Raynal, Jefferson, Franklin, Filangieri sono alcuni degli autori che Israel elenca fra i radicali, per contrapporli ai moderati che si rifacevano al governo misto inglese, a Locke, a Montesquieu e a una visione ristretta della rappresentanza. In America John Adams e Hamilton ne furono i principali rappresentanti. Per Israel, entrambi gli Illuminismi nutrirono la Rivoluzione americana e vi si scontrarono non solo idealmente, ma politicamente. Ci fu, quindi, una rivoluzione radicale che ebbe nella Dichiarazione di indipendenza il suo manifesto e che si realizzò, ad esempio, in alcune costituzioni statali, dalla Pennsylvania al Vermont.
La versione moderata, invece – che si impose negli stati dove le élite erano più forti, come nella Carolina del Sud dominata dai piantatori di tabacco, per poi trovar spazio nella Costituzione del 1787 – pur partendo dagli stessi principi li interpretò in senso restrittivo, per esempio nella difesa pragmatica o di principio della schiavitù. Tuttavia, la Rivoluzione americana, in quanto tale, ispirò ovunque gli oppositori dell’ancien régime anche se per Israel – che su questo punto non è del tutto chiaro – fu quella radicale a servire da esempio. Così avvenne per i Girondini e Condorcet in Francia, per i rivoluzionari dell’America Latina che esplicitamente vi trovarono il modello a cui rifarsi, nonché per gli oppositori della Restaurazione in Germania, in Francia e altrove in Europa, compresa l’Italia.
Il grande affresco tracciato da Israel consente, quindi, di riportare la storia politica della Rivoluzione e della prima fase di vita degli Stati Uniti a un comune contesto euroamericano, che si consumò nel 1848 quando la reazione antimmigrati e il nazionalismo espansionista presero il sopravvento oltreatlantico, trovando nella guerra di conquista contro il Messico del 1848-49 il momento culminante. In Europa, invece, non solo fallirono le rivoluzioni liberali che in molti casi avevano la Rivoluzione americana e l’Illuminismo radicale come esempi, ma nazionalismo e socialismo sostituirono il richiamo a entrambi.
Per quanto essenziale a una rinnovata analisi dei decenni fra Sette e Ottocento, la massiccia monografia di Israel non può costituire l’unico punto di riferimento. Come anche altri storici del pensiero politico, infatti, Israel ritiene che il pensiero politico sia un sistema di idee dotato di un’autonoma dinamica intellettuale, in gran parte slegata dai movimenti e dagli eventi sociali, che a suo avviso non riescono ad andare oltre il ribellismo e rimandano alle élite intellettuali il compito di dare loro forma e obiettivi. È vero che per Israel lo scontro di idee e la lotta politica e sociale si svolgono contemporaneamente; ma fra essi esiste una gerarchia indiscutibile.
Leggere anche Alan Taylor
Delicato e ampiamente discusso, questo problema non trova tuttavia una soluzione nella prospettiva proposta dallo storico inglese, dalla quale si deduce che tolleranza e secolarizzazione, eventi sociopolitici centrali durante la rivoluzione in New England, Pennsylvania e Virginia, sarebbero il prodotto della filosofia illuminista senza alcun concreto riferimento al contesto in cui si manifestarono. Anche la separazione tra Illuminismo radicale e moderato sembra proporre una battaglia di ideali difficile da capire se riferita a una società americana, in realtà culturalmente assai più complessa. Così come non si comprendono bene le conseguenze concrete di quel dualismo, dal momento che Israel non è interessato alla lotta politica né alle istituzioni, non dedica attenzione al processo costituzionale e non cerca di comprendere i problemi concreti che gli alfieri dei suoi due Illuminismi hanno affrontato, quando crearono dal nulla uno stato capace di difendere la propria sovranità in un mondo atlantico in cui infuriavano i conflitti fra gli imperi.
E, per ultimo, nel criticare la solo parziale separazione di stato e chiesa negli Stati Uniti, Isarel trascura di considerare come i principali Padri Fondatori, deisti, abbiano dovuto agire in un contesto in cui le forze popolari erano politicamente decisive e profondamente protestanti. Se, dunque, il saggio di Israel funziona come un ottimo punto di partenza per smettere di vedere negli Stati Uniti un elemento estraneo alla storia dell’Europa fino a quando, nel Novecento, gli europei vi arrivarono da dominatori, occorrebbe quanto meno bilanciarlo con lo studio di Alan Taylor, Rivoluzioni americane. Una storia continentale (anch’esso pubblicato da Einaudi), tutto centrato sullo scontro sociale che animò l’intera Rivoluzione americana.
il manifesto 2.12.18
Plutarco, moralità e arguzia nelle parole degli antichi
Classici antichi. Sessant’anni dopo le "Vite parallele", la squisita fedeltà di Carlo Carena e di Einaudi al grande biografo frutta quest’antologia (offerta a Traiano) di "Detti memorabili di re e generali"
Giuseppe Bossi, Sepoltura delle ceneri di Temistocle nella terra attica, 1806, Milano, Pinacoteca di Brera
di Nunzio Bianchi
Chissà cosa avrebbe pensato dell’abuso di parola pubblica nel nostro tempo il vecchio Plutarco (I-II d.C.), lui che con i Detti memorabili di re e generali aveva offerto all’imperatore Traiano un’originale antologia di risposte argute e ben assestate, di frasi aguzze e rivelatrici, di motti di spirito e gustose definizioni, di facezie e pillole di saggezza, tout court di apoftegmi. E cosa avrebbe pensato degli slogan di infimo livello dei nostri politici? E dell’imbarazzante approssimazione elargita a piene mani sui social media? E, viceversa, cosa penserebbero i nostri politici se – per ipotesi assai benevola – si trovassero a leggere questi Detti memorabili?
Nella lettera di dedica all’imperatore, Plutarco motivava il senso della raccolta (trasmessoci all’interno di quella ricca e variegata enciclopedia che sono le Opere morali) richiamando l’utilità di questi detti, memorabili per quanto apportano di utile «alla conoscenza del carattere e del comportamento dei potenti, che si manifestano più chiaramente nelle loro parole che nelle azioni». Il peso specifico riconosciuto alle parole, il senso più vasto che esse racchiudono, è enorme, ben maggiore di quello delle azioni – e non occorreva internet a quel tempo per comprenderlo. E a noi, ordinari mortali, che parliamo il lessico grossolano della rete e pratichiamo la rudimentale grammatica dei social media, quale effetto fanno questi Detti memorabili? La parola pubblica, appannaggio anche di quelle ‘legioni di imbecilli’ evocate da Umberto Eco, si scontra spesso col cattivo uso che di essa vien fatto: totalmente deresponsabilizzata e sovente aggressiva, diffusa in Rete con la stessa confidenziale disinvoltura con cui è somministrata nel tinello domestico, questa parola non è priva di conseguenze.
Anche alla luce di ciò converrà tornare a leggere i Detti memorabili di re e generali, di spartani, di spartane – sentenzioso distillato di parole che Plutarco ricavava, isolandole dalle azioni alle quali si trovavano frammiste, dalle sue stesse Vite parallele – nella traduzione di Carlo Carena (Einaudi «Nue», pp. 320, € 28,00). Della squisita arte di tradurre di Carena non serve qui dire, se non per rilevare il proficuo colloquio sul tema che il traduttore intrattiene da qualche tempo con questo genere di letteratura: sua la versione dei Modi di dire (Adagiorum collectanea) di Erasmo (2013) e quella delle Sentenze e massime morali di François de La Rochefoucauld (2015). Per di più Carena è molto a suo agio con Plutarco, con cui intrattiene «una lunga e affettuosa consuetudine» (come ricorda l’Editore) avviata sessant’anni fa con la traduzione annotata delle Vite parallele in tre volumi per i «Millenni» einaudiani: ben oltre 2000 pagine che consegnavano all’Italia del boom economico la prima traduzione moderna e integrale delle biografie plutarchee. (Ed era edizione di pregio, con riproduzione di incisioni tratte da una stampa cinquecentesca, carte geografiche, titolo in oro e fregi al dorso, che in qualche modo segnava il ritorno di Plutarco in Italia).
Non meno pregevole l’originale commento a questi Detti memorabili in cui sono posti a confronto stralci di versioni e observationes al testo di scrittori cinque-seicenteschi ai quali è legata la prima e matura ricezione moderna del testo plutarcheo, come Erasmo (che, traducendo e commentando questi Detti, veicolò «attraverso le parole di quei grandi antichi e dell’antico autore il proprio pensiero morale e la repulsione e condanna per l’immoralità pubblica e privata del suo tempo»), il fiorentino Marcello Adriani il Giovane (cui si deve la prima seppur incompleta traduzione delle Opere morali), naturalmente Jacques Amyot (la cui versione francese degli scritti morali e filosofici plutarchei è un capolavoro assoluto di arte traduttoria) o ancora Nicolas Perrot (fecondo autore di traduzioni ‘belle ma infedeli’, secondo la definizione coniata per la sua versione di Luciano). Nelle osservazioni di questi dotti, e di altri ancora, si può seguire la trama con cui l’originale plutarcheo è venuto in dialogo con il diverso sentire e ha attraversato la cultura umanistica fino all’età moderna.
Anche come frutto più spassoso, in grado di strapparci di tanto in tanto un sorriso (sollievo, lo notava già Erasmo, per la mente soffocata dalle occupazioni), non può che giovarci la lettura di questi Detti e forse pure metterci in guardia dalle odierne e farneticanti derive. Ma ci affaticheremmo invano a cercare qualche esempio di figura politica dei nostri giorni che ammettesse, sull’esempio di Dionigi il Giovane, di aver fatto fronte a un rovescio politico grazie agli scritti di Platone e alla sua filosofia (e sarebbe invero già arduo trovare chi avesse anche solo sfogliato qualche pagina di Platone).
il manifesto 2.12.18
Il Picasso di Gertrude Stein, occhio per occhio
La riproposta del «Picasso» di Gertrude Stein, Skira, traduzione di Masolino D'Amico. Contro l'odierna «picassite», è da rileggere questo «ritratto» uscito nel 1938, sùbito dopo «Guernica». La scrittrice americana sviscera l’arte dell’amico all’insegna di un feroce metabolismo, tutto spagnolo
Gertrude Stein nel salone della sua mitica dimora parigina al 27, rue de Fleurus, circa 1920, foto di Man Ray
di Federico De Melis
Contro l’odierna picassite, che esplode in iniziative di diversa caratura tendenti, tutte insieme, all’ammasso, e singolarmente, spesso, al pretestuoso focus tematico (a Barcellona, la cucina!), si può tornare a leggere Picasso di Gertrude Stein, ristampato da Skira («MiniSaggi», pp. 69, euro 9,90) nella traduzione di Masolino D’Amico, che segue quella 1973 di Vivianne Di Maio per Adelphi – entrambe dalla versione inglese, ma in prima battuta fu scritto in francese. Il piccolo libro è del 1938, un anno dopo Guernica: sembra steso però con la stessa acerbità di scoperta che aveva condotto Gertrude, sotto lo spinta del fratello Leo, ad acquistare nel 1905, dal mercante di quadri Clovis Sagot, il loro primo Picasso, dove il blu stinge nel rosa, i piedi sono disegnati, secondo la lei di quel momento, in modo «urtante e ripugnante», Fillette nue au panier de fleurs.
Prima di questo scritto, Gertrude Stein si era occupata a più riprese di Picasso, a partire dal portrait del 1909, poi pubblicato in «Camera Work» nel ’12. Un resoconto dettagliato di questo corpo-a-corpo Á travers le mots è, a firma Hélène Klein, nel catalogo della superba mostra che il Grand Palais dedicò, nell’autunno 2011, all’«avventura degli Stein». Picasso era stato tra i principali attori dell’Autobiografia di Alice Toklas , 1933, e dell’Autobiografia di tutti, 1937, di recente riproposta in Italia dall’editrice nottetempo. Ma nel saggio di cui scriviamo, l’ultimo in ordine di tempo, la Stein non si diffonde tanto sulla scena in cui si muove l’artista, come, nell’Alice Toklas, i riti mondani che avevano accompagnato la nascita del cosiddetto modernismo letterario, nutrito dai quadri alle pareti, al 27 di rue de Fleurus. Pur replicando alcuni aneddoti su Picasso già apparsi nel suo memoir metaletterario, per esempio la celebre esclamazione «questo è il cubismo» davanti al camion mimetizzato (camouflage) a scopo bellico in boulevard Raspail, la scrittrice si concentra qui sulla sostanza dell’opera dell’amico, più in chiave di filosofia della storia che di analisi delle forme, e sulla ‘biologia’ del suo operare. La carenza dello strumentario della critica figurativa classica, e la ricerca, dichiarata, di una equivalenza con lo strabismo del suo stesso linguaggio letterario, fanno sì che la Stein ci dia un profilo tagliato con l’accetta e fermamente appassionato: quanto di più utile negli anni della filologia dell’inutile.
Per la scrittrice di Pennsylvania Picasso è innanzitutto spagnolo, e con lui la Spagna inaugura il Novecento in Francia, dove all’inizio del secolo, lei sostiene, gli artisti, nonostante le varie rotture post-impressioniste, ancora guardano come guardano tutti. Solo con Picasso il guardare diviene un’attività dell’occhio. Per spiegarlo la Stein ricorre, genialmente, all’esperienza dell’infante nel contatto pelle a pelle con il volto della madre: in questa prossimità schiacciata egli vede quel che vede, un naso è un naso, un occhio è un occhio, e se il profilo della madre mette a disposizione un solo occhio, il bimbo non immagina che dall’altra parte del naso esista un altro occhio. Sospetto che David Hockney, nel suo altrettanto snello e direzionale Picasso, 2001, abbia preso in prestito dalla Stein questa lettura, ricca persino di risonanze psicoanalitiche (sembra di leggere Melanie Klein), quando parla dei ritratti anni trenta di Marie-Thérèse Walter, che dell’artista fu amante, per giustificare le loro «distorsioni»: «Picasso deve aver trascorso ore e ore a letto con lei, osservando da vicino il suo viso. (…) Strane cose cominciano ad accadere agli occhi, alle guance, al naso: meravigliose inversioni, ripetizioni».
Il Picasso della Stein è preda di un violento metabolismo, che lo costringe a riempirsi e svuotarsi di continuo. La sua acutissima ricettività lo porta a essere sedotto di volta in volta da forme d’arte estranee al suo modo di vedere, più in linea con quel che vedono tutti: così, per esempio, dopo il momento blu, intensamente suo perché davvero spagnolo, Picasso ha bisogno di riposarsi, di cedere al fascino e alla sottigliezza dell’ordinario, al bello, per cui apre al mondo – francese come era stata francese, prima del blu, la sua fascinazione per Toulouse – degli arlecchini e del rosa. Ma al culmine di questo stato di grazia (che non è la grazia della verità, ma la grazia dell’abitudine), sente un feroce bisogno di svuotarsi, di recuperare il vedere, una dimensione che non implica preconcetti di gusto, e si prospetta, nella totale rinuncia di questi preconcetti, quale una lotta in piena solitudine, tutta spagnola. Come è celebre, nella primavera del ’06 aveva cominciato il ritratto di Gertrude, non gli piace il volto, lo butta giù… Ha bisogno di Spagna, e in estate ci torna: il momento di Gosol. Di nuovo a Parigi, ravvivato dalla forza barbarica della scultura iberica preromana, rimette mano al volto di Gertrude, senza neanche rivedere la modella, con l’indurimento di linee e il peso plastico che sappiamo: si è riempito, è tornato a vedere, comincia la scalata (fase negra, Demoiselles) che lo porterà al cubismo…
Nel dopoguerra sentirà il bisogno di svuotarsi di nuovo, ed ecco la seduzione dell’Italia, come in precedenza c’era stata quella della Francia, e in futuro ci sarà quella, insidiosissima, della Russia, tutta una costellazione di «interpretazioni», di sublimi distrazioni dalla ferocia primigenia del suo occhio. Il momento più critico in questo senso la Stein lo pone tra il 1927 e il 1935, «quando le interpretazioni distrussero la sua stessa visione così che fece forme non viste ma concepite». È appunto il momento della sirena russa, che comporta una lotta «quasi mortale», perché carattere russo e carattere spagnolo si assomigliano, in quanto miscuglio di orientale ed europeo. La lotta è soprattutto nei quadri grandi, dove l’influenza russa, malgrado butti nel fantastico, spinge a realizzare «forme come le vedono tutti»: la Stein arriva a dire «pornografiche». Picasso stenta a districarsi, e a questo punto «il solo modo per purgarsi di una visione che non era sua fu di smettere di esprimerla»: e smette di dipingere, naufragando nel trastullo di una lingua non sua, la poesia.
Ma «finalmente scoppiò la guerra in Spagna»: «non furono gli eventi stessi (…) a risvegliare Picasso, ma il fatto che accadevano in Spagna, aveva perso la Spagna ed ecco che la Spagna non era perduta», e dunque Guernica, e qui si chiude il libro.
«Scrivo con gli occhi»: esiste una fitta bibliografia che accosta il procedimento letterario di Gertrude Stein alla tecnica cubista e all’approccio di Picasso con la realtà visibile. La scrittrice l’ha suggerita e favorita, facendosi critica di se stessa. Certo la sua prosa anti-psicologica, tutta cose, dove le parole e anzi le sue adorate «frasi» hanno la consistenza delle mele di Cézanne, le stesse che le furono sottratte dal fratello Leo allorché separarono la collezione e in cambio delle quali Picasso regalò a Gertrude inconsolabile un’altra mela, sembra giustificare appieno questa lettura, a cui lei fornisce una corazza antropologica, stabilendo la concordanza, non così pacifica, fra cultura spagnola e cultura americana proprio nella percezione ‘oggettuale’ del mondo: il ritardo spagnolo e l’anticipo americano realizzano insieme il Novecento.
Se la pittura di Seurat e poi di Bonnard traducono in immagine la durata sentimentale del tempo formulata da Bergson, la Stein fa di Picasso, al contrario, l’artista di «cose che sono lì, tutto ciò che un essere umano può conoscere in ciascun momento della sua esistenza e non un accumulo di tutte le sue esperienze». Qui però sembrerebbero confrontarsi, più che l’Ottocento e il Novecento, due diversi Novecento, perché non è accettabile che la «memoria involontaria», con il continuum del tempo interiore che comporta, sia meno moderna della presa di possesso abrupta da parte dell’occhio, che fissa, e eternizza in pittura, l’oggetto nudo e crudo nel momento nudo e crudo. Dietro l’idea della Stein preme l’empirismo americano, nella forma radicale teorizzata da William James, il filosofo fratello di Henry, di cui la scrittrice era stata allieva prediletta.
Un altro concetto insistito riguarda la bellezza. La scoperta di un nuovo modo di vedere non si concilia con la bellezza, è necessariamente brutta. La Stein riferisce: «Picasso disse una volta che colui che crea una cosa è costretto a farla brutta». Questa bruttezza, che per la Stein contrassegna quella che Max Jacob chiamava «l’Età Eroica del cubismo» (ma anche, aggiungiamo, la primitività di Cézanne), dipende dal fatto, sostiene, che l’artista, mentre si inoltra nella nuova visione, non capisce «che cosa (…) ha fatto fino al momento in cui tutto è stato fatto»: «Nello sforzo di creare l’intensità e nella lotta per creare questa intensità il risultato produce sempre una certa bruttezza», a cui chi segue può agganciarsi facendone «una cosa bella perché sa ciò che sta facendo».
Finita l’età eroica del cubismo, dal 1913 al 1917 i quadri di Picasso «hanno la bellezza della completa maestria», dice la Stein: «Non c’erano cubi, c’erano semplicemente cose». Questo fino al viaggio in Italia e a Parade, che danno il la al secondo periodo naturalista (durato fino alle grandi donne e ai soggetti classici), dalla Stein riconosciuto come un periodo rosa adulto – così come si era inventata, stupendamente, un periodo verde, «meno noto, ma (…) molto molto bello», per il momento di transizione «prima del vero cubismo». Nella fase di stampo italiano, o se si vuole neoclassico, la padronanza tecnica di Picasso è tale da implicare meno sforzo, la «bellezza esisteva in sé». Con un’inversione di termini tipica della sua scapestrata mobilità semantica, Gertrude Stein sembra distinguere qui due tipi di bellezza: questa italiana è una bellezza «perfetta», la «bellezza della serenità», ma non è «la bellezza della realizzazione», cioè la ricerca di forme nuove, priva di appoggi esterni e di una tecnica del tutto metabolizzata, che aveva definito, in precedenza, «bruttezza».
Non bisogna credere che nelle fasi di malia, in cui Picasso è tratto fuori dalla sua visione, ogni traccia spagnola vada perduta. Permane una piccola riserva, a «consolarlo». In questo senso la Stein parla della calligrafia, della scrittura non in quanto integrazione ornamentale ma elemento di definizione strutturale dell’immagine, che in Picasso, malagueño, intriso di caratteri saraceni, rappresenta qualcosa di più resistente, di meno estirpabile. La speciale difficoltà provata nel confronto con l’arte russa dipende dalla tendenza altrettanto calligrafica orientale di quell’arte, che confonde la sua hispanidad: è proprio l’esperienza dei Balletti russi, nel 1918, a riattizzare in Picasso l’ancestrale sensibilità calligrafica. Rispetto al problema, che segue lungo le varie fasi di sviluppo dell’opera picassiana, Gertrude Stein si mostra particolarmente acuta nel definirne la funzione formale entro l’impianto generale, e un po’ dispettosa, sembra, con Matisse, al quale si era disinteressata dopo i primi anni di innamoramento – scoccato con l’acquisto, al Salon d’Automne fauve del 1905, della Femme au chapeau – quando scrive che «uno spagnolo può assimilare l’Oriente senza imitarlo, può conoscere cose arabe senza esserne sedotto».
Corriere La Lettura 2.12.18
Vivere è amare e l’amicizia è poesia
Così Catullo riscriss le regole dell’Urbs
di Roberto Galaverni
Nell’intera raccolta della sue poesie — il cosiddetto liber — Gaio Valerio Catullo nomina Roma direttamente solo una volta. Accade nel carme 68a, uno dei vertici non solo della sua poesia ma, si può dirlo, di tutta la poesia occidentale. Il poeta si trova nella Verona natale, distrutto dal dolore per la morte del fratello, ma deve rispondere a un amico, anche lui abbattuto da una qualche sventura privata, che da Roma gli chiede l’invio di un conforto poetico. Nella sua epistola in versi, così gli scrive in risposta Catullo: «Se qui con me non ho più di tanti scritti,/ questo è perché adesso vivo a Roma. Quella è la casa,/ quella è la mia dimora. È là che se ne va via il mio tempo».
Tanto più singolare appare dunque la posizione del poeta. Se la derivazione provinciale, con il suo importante retaggio anzitutto di natura morale, non venne mai dimenticata o ripudiata, di fatto «il vero orizzonte della poesia catulliana», come ha scritto Alfonso Traina, «è Roma». Infatti, «urbanus fu veramente, in ogni senso, Catullo. Nell’Urbe realizzò pienamente l’indissolubile trinomio della sua vita: l’amore, l’amicizia, la poesia». Questo passaggio è stato ripreso da Alessandro Fo nella sua introduzione a una nuova raccolta dei carmi di Catullo — il titolo è: Le poesie — che ha tradotto, commentato e curato per Einaudi. Tanto più avvalendosi di questa eccellente edizione (l’impianto complessivo si distingue per scrupolo, competenza, equilibrio, ma anche per una sempre motivata intraprendenza), c’è da chiedersi in che modo nei carmi si manifesti l’urbanità del poeta, il suo essere appunto di Roma e insieme, reciprocamente, come la città stessa viva nei suoi versi. Si è sottolineato spesso, infatti, come questa poesia sia poco interessata ai riferimenti locali determinati, in favore di un approfondimento tutto interiore, legato all’esperienza personale in ciò che ha di più universalmente condiviso. Una poesia, dunque, tanto più assoluta, proprio perché estranea a tutto quanto non abbia riflessi sulla dimensione più intima e sulla sua condivisione con una cerchia molto ristretta di amici e interlocutori.
Sono proprio queste, del resto, le innovazioni più rivoluzionarie dei celeberrimi «poeti nuovi», i neóteroi (la definizione, in realtà diminutiva e irridente, è di Cicerone), a cominciare appunto da Catullo e dal suo fortunatissimo liber: centralità del cosiddetto «io» poetico e sua stretta vicinanza con la persona dell’autore, valorizzazione della storia individuale, della soggettività, dell’introspezione, dei sentimenti, delle relazioni private. Di contro ai grandi temi pubblici o politico-civili della storia maggiore, ai piccoli accadimenti della storia individuale viene riconosciuta un’importanza addirittura incommensurabile, visti i loro decisivi risvolti interiori (o, come potremmo dire oggi, esistenziali). Ma l’elemento davvero dirompente è che questi temi quotidiani fino a quel punto considerati futili o irrilevanti diventano tutt’uno con un investimento poetico totale, una specie di raffinatissima e altrettanto disciplinata religione condivisa dalla cerchia, che nel connubio strettissimo tra vita e poesia prevede un’elezione ch’è insieme, e del tutto consapevolmente, etica ed estetica.
Il vero patto sacro per Catullo è quello che sancisce l’amicizia. Allo stesso modo, il suo scarto dalle convenzioni e dalla morale del tempo non sta solo nel fatto che l’amatissima Lesbia sia sposata (e che il triangolo donna-amante-marito divenga un motivo della poesia), ma anche e soprattutto che il suo presupposto sia la completa «equivalenza fra vivere e amare» (Fo) o che, accanto ai mille e mille baci, venga celebrato anche l’amore come esperienza spirituale, ossia non esclusivamente sensuale e corporea. Sia per il linguaggio, sia per la tipologia del tema amoroso, il ruolo fondativo di Catullo nella tradizione occidentale viene soprattutto di qui. Poco più di tredici secoli dopo, con gli stilnovisti fiorentini accadrà qualcosa di non troppo diverso.
Esiste dunque una poetica, come esiste, all’unisono, un’amicizia nella poesia. La maggioranza dei carmi di Catullo presuppone non a caso una schiera di destinatari e uditori determinati, che non coincidono necessariamente con i personaggi di cui tratta o a cui esplicitamente si rivolge ciascun componimento. Confidenza e complicità, scambi poetici, incontri e letture comuni, il riferimento a personaggi e accadimenti quasi sempre noti: l’immediatezza calibratissima di Catullo, e così il calore, la presenza di spirito, l’affettività e l’affettuosità, ma anche la polemica, il sarcasmo, la riprovazione (è uno scrittore di epigrammi più che notevole), derivano anche da questo concreto riferimento contestuale, meglio ancora, dall’occasione contingente e viva da cui scaturisce e a cui a sua volta viene indirizzato ogni singolo componimento. È allora l’abbassamento e, in sostanza, la personalizzazione dello sguardo a farne, in un modo del tutto suo, un poeta di Roma. Ma una Roma che si rivela nella natura dei suoi abitanti, ciascuno col proprio nome, anziché nella sua concreta determinazione fisica e geografica. A Catullo non importano i luoghi, ma gli individui, cosa provano, come si comportano, cosa vogliono. La città di per sé appare semmai come un fondale che non è nemmeno necessario descrivere. In una specie di piano sequenza ante litteram, nel carme 55 il poeta attraversa alcuni dei più importanti luoghi di Roma solo per sapere che fine abbia fatto l’amico Camerio. Ma è comunque dal desiderio di conoscere la sua vicissitudine che deriva la spinta a cercarlo e a scrivere di lui. Viene in mente uno spunto di Cesare Garboli, secondo cui nelle poesie di Sandro Penna certi particolari di Roma entrano come per caso, colti di passaggio sullo sfondo della persona che s’intendeva fotografare.
La chiave del rapporto di Catullo con l’Urbs va cercata da queste parti. Il poeta si avvicina a Roma forte di un definitissimo, formidabile nucleo indifferentemente etico ed estetico (vita e poesia, come detto). L’urbanitas neoterica costituisce infatti il metro con cui, alla lettera, vengono commisurati la città e i suoi abitatori. Ed è esattamente qui che il «teatrino romano», come lo chiama Fo, messo in scena nel liber trova la propria ragione.
Soltanto a partire dagli ideali, diciamo pure dall’ideologia d’amore e d’amicizia della cerchia, e dunque nel nome di un’elezione tutta di natura interiore, si misurano volta a volta la dignità o viceversa l’indegnità dei compagni di strada o degli obbiettivi polemici. Lesbia e lo stesso poeta compresi. Ironia, equilibrio tra coinvolgimento e distacco, grazia, arguzia, giocosità, raffinatezza, saper vivere, venustà (la venustas: sotto il segno di Venere, dunque, e allora della bellezza, del fascino, del desiderio): il rovesciamento è questo, ed è tanto più significativo perché riguarda ora questa ora quella persona nella sua singolarità. Così anche l’urbanitas, il cosiddetto spirito urbano, non è più limitata a una mera contrapposizione geografica e culturale: la città di contro alla provincia o alla campagna (la rusticitas). Con Catullo il contrasto tra chi è all’altezza etico-spirituale e chi non lo è diventa invece trasversale, riguarda tutti. Non basta essere nati a Roma per essere davvero all’altezza dell’Urbe, il che significa poi del mondo. Certo, chi non vi riesce se ne vada pure in malora. «Ma a voi dian dèi e dee molti mali,/ disonori di Romolo e Remo».
Corriere La Lettura 2.12.18
Eterna Circe, eterna Medea
Le madri di tutte le streghe
di Michela Valente
L’anno scorso, quando il portiere del Benevento, Alberto Brignoli, segnò di testa un gol al Milan al 95° minuto, caso davvero raro, tutta Italia e anche molti nel mondo assistettero al tripudio di bandiere della squadra giallorossa su cui campeggia una strega in volo a cavallo di un manico di scopa. La leggenda vuole infatti che a Benevento, sotto il noce, le streghe si raccogliessero per il sabba, una riunione notturna in cui donne e uomini lì giunti in volo da ogni parte davano libero sfogo a ogni loro desiderio insieme a Satana e ai suoi demoni. La leggenda affonda le radici nella presenza dei Longobardi nella città campana e nei loro riti considerati magici agli occhi dei locali. Da lì in poi Benevento è diventata la città delle streghe tanto da ricordarlo anche nello stemma della società calcistica.
Marina Montesano, con un bel libro pubblicato in una collana di Palgrave dedicata a Historical Studies in Witchcraft and Magic (studi storici sulla stregoneria e la magia), pone in evidenza come le credenze antiche e le descrizioni della magia e della stregoneria nella letteratura classica greca e latina (Omero, Virgilio e Ovidio) abbiano avuto un impatto concreto nella caccia alle streghe dell’età moderna. Svela così come la strega, che poi verrà accusata, processata e spesso condannata al rogo, riproponga tratti già presenti nei classici poi trasmessi e rielaborati nella cultura italiana tra Umanesimo e Rinascimento.
Da fonti diverse e credenze diffuse, si costruisce e cesella l’immagine della strega che da personaggio letterario e mitico assume le fattezze che la porteranno a essere accusata di patto con il diavolo e a finire in tribunale. Così Giovanni Boccaccio, Ludovico Ariosto e poi William Shakespeare attinsero a piene mani da quel patrimonio che va dalla Circe di Omero che trasforma in animali a Medea, grande maga capace di uccidere i suoi figli, alle Metamorfosi di Apuleio, dove Telifrone è ingannato e ferito dalle streghe fino alla spaventosa Eritto di Lucano.
È un continuo gioco di specchi tra finzione letteraria e realtà, che forgia e alimenta il sospetto e infine il processo. Sin dall’impero romano la magia e la stregoneria sono proibite e con il cristianesimo ogni pratica di eredità pagana è condannata fermamente. Sant’Agostino denuncia le illusioni demoniache e molti padri della Chiesa si premurano di rifornire l’arsenale teologico contro la pratica magica. Nel XII secolo il Decreto di Graziano cerca di porre un argine alla superstizione accusando di eresia chi crede alle streghe, donne dedite al culto di Diana, retaggio del paganesimo, ma è un’impresa impossibile.
Ci sono teologi che ammoniscono a non credere a favole letterarie che servono soltanto per dilettare. Ma queste credenze si consolidano migrando da una cultura a un’altra per diverse vie, soprattutto quelle orali, e tra queste c’è la predicazione con cui avviene il passaggio da illusione a realtà: dall’espediente letterario al processo. Il francescano Bernardino da Siena, uno dei più famosi predicatori del Quattrocento, in più occasioni denuncia le pratiche stregonesche, regalando così un nutrito catalogo delle varie superstizioni. E ancora una volta si ritrovano gli elementi classici della stregoneria: le streghe sono accusate di infanticidio «col succhiar il sangue loro», preparano polveri per le magie e l’unguento grazie al quale possono volare, ma possono anche trasformarsi in animali, quelle metamorfosi così spaventose e temute. Fanno parte della società di Diana, una sorta di controsocietà e si recano al noce di Benevento per incontrare Satana e lì praticano riti che rovesciano quelli cristiani.
Dopo il passaggio di Bernardino, si aprono processi alle streghe e il più celebre è quello a Matteuccia a Todi (1426-1428). Anche la rappresentazione artistica aiuta a consolidare l’immagine e a rafforzare la credenza. Hans Baldung Grien e Albrecht Dürer riprendono sostanzialmente alcune caratteristiche di tradizione classica, soprattutto con i modelli di Circe e di Medea: la strega, vecchia, nuda e di fattezze sgradevoli, è rappresentata durante il volo.
Dal libro al tribunale, Montesano illumina l’origine e lo sviluppo della rappresentazione della strega e della sua persecuzione come conseguenza di un processo di demonizzazione dell’altro, in cui l’autorevolezza del classico maschera spesso altre finalità. Un percorso intricato e complesso che ha come approdo le tre streghe del Macbeth tessute da Shakespeare con fili di antico, destinato a diventare classico.
Corriere La Lettura 2.12.18
Bukowski fa paura alla paura
di Simone Savogin
Dopo l’esaltazione tipica che segue il momento in cui prendi in mano il nuovo libro di un autore che si ammira e di cui non si può mai avere abbastanza, la prima domanda che mi è sorta spontanea è stata: «Se questo è il meglio, quanto diavolo ha scritto quell’uomo?!».
Scherzi a parte, mi sono chiesto: «Potrà ancora stupire, potrà ancora essere necessario leggere Bukowski nel 2018?», non perché Bukowski sia antico o anacronistico ma — oltre al fatto che, purtroppo, è quasi diventato anacronistico leggere un libro — è che rispetto a certi classici che possiamo definire figli di certe epoche e società, lui è l’emblema della rottura, dell’eccesso, dell’essere fuori da quel meccanismo regolare che chiamiamo la normalità. Questi suoi eccessi e questa sua unicità prestano il fianco al mutamento della società: una volta che si è visto che cosa possa esserci oltre ciò che si conosce, si tende a far rientrare anch’esso nella cosiddetta normalità. Quindi Bukowski è soggetto di altri al rischio di diventare «normale», se così vogliamo dire. E se la forza della sua scrittura stava anche, e fortemente, nel suo essere fuori dagli schemi, può riuscire a esser forte anche una volta che è «normalizzata»? Come nei più bei sogni, la realtà è spesso capace di stupirci anche nelle cose più semplici: leggere Bukowski nel 2018 è ancora fonte di stupore, di piacere, pace, sorriso, amore e rabbia. Riesce ancora a suonare irriverente nel suo schiacciare la normalità nel tritacarne dei versi.
La sua penna si distingue dalle migliaia di imitazioni, la sua immaginazione porta alla luce fotografie ficcanti e ancora fresche e inattese, i suoi elenchi sono colpi ben assestati sul flipper della poesia, che ti lanciano come una biglia in giri emozionali ed emozionanti, che sembrano interminabili. La capacità di sintetizzare in poche pennellate un intero mondo di sensi (nel senso del senso delle parole) e sensi (nel senso dei 5, e più, sensi), è incredibile e incredibilmente attuale, mai banale e a tratti con una lingua più aulica di quella di chi si erge a purista (e puritano) o pretende di essere lineare. Lui lineare non lo è mai stato, neanche nella vita: era una curva unica e le amava tutte, le curve. E così è anche questo libro, un continuo curvare tra quella sua sana schiettezza e la sua annoiata profondità, tra sesso vissuto quasi come un peso, ma cercato come l’oro, e un incolmabile vuoto interiore.
È straordinario come a volte ci si ritrovi a sentire il profumo (o il puzzo) di ciò che sta descrivendo, straordinario quanto ci si immedesimi nei più forti e sinceri sconforti che sa scandagliare in parole, straordinario come si respiri buono quando ci sbatte delle verità innegabili tra una bevuta, una natica e un assoluto.
Ma di tutte le sfaccettature di una scrittura sghemba e forte, la più sana dote di quel gran bastardo è la schietta sincerità, il coraggio di saper essere ancor più che onesto: sincero. Quando si insegna che alcuni autori sono guidati da un’urgenza comunicativa che li porta a scrivere, si dovrebbe usare lui come esempio, si dovrebbero prendere interi brani e bisognerebbe provare a raggiungere quel livello di abbandono alle parole, senza freni, senza limiti, senza paura. Ecco, Bukowski nel 2018 riesce ancora a essere potente perché, senza alcuna paura, ha saputo tuffarsi e descrivere la Paura stessa. Benché la sua possa risultare una figura forte, dedita agli eccessi, noncurante o malinconica, quella grande Paura che lo morde e che lo fagocita, traspare lampante in quasi tutte le poesie; forse anche solo perché è pienamente condivisa da chi legge.
Nonostante siano centinaia gli spunti di riflessione (come la sua fortissima consapevolezza in e adesso? o altre altrettanto «terminali», oppure la già citata sincerità della più famosa, nonché primissima, in questo libro: consiglio amichevole a molti giovani e anche a molti vecchi) e le immagini NECESSARIE contenute in questo libro, c’è una grande verità che spicca tra tutte: (...) «ma come Dio ha detto,/ accavallando le gambe,/ vedo che ho creato fin troppi poeti/ ma non abbastanza poesia».
Questo è uno dei motivi per cui leggere Bukowski nel 2018 è ancora importante e illuminante, perché in quei (come avrebbe detto lui) fottuti versi, lui ci sputava tutta l’anima e la poesia di cui era capace. Nonostante, quindi, la voracità con cui spero in molti leggeranno questa splendida raccolta e che mi ha guidato per tutto il tempo, ho un po’ storto il naso per delle scelte poco felici d’impaginazione.
Nel gran sorriso che mi ha suscitato il trovare la versione originale in inglese di ogni testo, non ho potuto che sentire come gabbia o come affronto il relegarla a piè di pagina. Non ho pienamente compreso questa scelta che appiattisce l’andamento, che non concede di ritrovare naturalmente i fiati che lo scrittore ha inserito, sostituendoli con delle barre. E la presenza di un asterisco a ogni singolo titolo, mi è sembrata un’inutile forzatura, un orpello superfluo, evitabile. Ma queste sono fissazioni di un amante dell’oggetto libro, oltre che della scrittura, voi non date retta ai brontoloni e godetevi lo stupendo contenuto.
Corriere 2.12.13
13 dicembre 1978
La Cina entra nel XXI secolo
di Maurizio Scarpari
Il 13 dicembre 1978, in occasione dei lavori preparatori del terzo plenum dell’XI Congresso del Partito comunista cinese, Deng Xiaoping tenne un memorabile discorso che sovvertì dogmi ritenuti fino ad allora indiscutibili, sancendo la rottura con le fallimentari politiche economiche dell’era maoista. Il principio del «ricercare la verità nei fatti», che si contrapponeva alla retorica della Rivoluzione culturale, veniva espresso nell’appello rivolto all’élite del partito affinché trovasse il coraggio, ora che Mao era morto e i componenti della Banda dei Quattro erano stati arrestati, di superare i vincoli e i condizionamenti ideologici che avevano paralizzato la classe dirigente e il Paese per anni.
Deng invitava gli alti dirigenti a «emancipare le menti» e a creare un progetto di sviluppo innovativo in grado di liberare la nazione dalla povertà e dall’arretratezza in cui era sprofondata, superando l’equazione «socialismo = povertà» e l’assunto che i modelli socialista e capitalista fossero tra loro incompatibili. «Naturalmente non vogliamo il capitalismo — dichiarò nel 1979 — ma nemmeno essere poveri sotto il socialismo». Inaugurò una visione pragmatica e lungimirante che puntava alla concretezza, basandosi sul principio «a ciascuno secondo il proprio lavoro», sul riconoscimento di talento e competenza e su un sistema economico che incentivava la produttività integrando ideali comunisti e pratiche del libero mercato. Deng chiamò il nuovo modello di sviluppo «socialismo con caratteristiche cinesi», inaugurando un esperimento ambizioso che rompeva con i dogmi del marxismo; lo seppe guidare con prudenza e gradualità, testando ogni innovazione a livello locale e applicandola sul piano nazionale solo dopo averne verificato l’efficacia. Il metodo, rivelatosi vincente, trasformò radicalmente la società e rilegittimò, non più su base ideologica, il ruolo centrale del Pcc, che avrebbe favorito il processo di cambiamento garantendo stabilità al Paese.
In pochi anni la Cina riuscì ad avviare lo sviluppo e in qualche decennio divenne la potenza che oggi conosciamo. Numerosi sono i problemi ancora da risolvere e le disuguaglianze da ridurre (lo stesso Deng considerava inevitabile che alcuni si sarebbero arricchiti prima di altri) ma intanto oltre 700 milioni di cinesi sono usciti dalla povertà assoluta ed è emersa una classe media di circa 400 milioni di persone. Alla fine degli anni Settanta la Cina era un Paese stremato, ancorato a modelli di sviluppo rivelatisi per molti aspetti catastrofici. Le decine di milioni di morti d’inedia causate dalle velleitarie politiche del Grande balzo in avanti (1958-62) e le violenze della Rivoluzione culturale (1966-76) possono far intuire quanto sia stato devastante per un intero popolo il tentativo di recidere in modo netto le proprie radici culturali, rinnegando lo stile di vita e le tradizioni.
Dopo la morte di Mao la lotta per il potere s’inasprì e all’ortodossia conservatrice di Hua Guofeng, l’uomo dei «due qualsiasi» (sostenere qualsiasi politica e seguire qualsiasi istruzione indicate dal presidente Mao), si contrappose la linea riformista che ebbe in Deng il suo leader indiscusso. Si scontravano due concezioni economiche antitetiche, la prima che s’ispirava al modello sovietico di pianificazione centralizzata, la seconda che vedeva nelle riforme di stampo liberale e nell’apertura ai capitali stranieri le chiavi della ricostruzione di un sistema produttivo ormai al collasso. La popolazione, esausta, voleva cambiamenti radicali: nel 1978 erano già in atto in alcune regioni forme clandestine di gestione familiare dell’agricoltura contrapposte al fallimentare sistema delle comuni. Erano i prodomi della decollettivizzazione, che in breve si sarebbe estesa all’intera nazione e al settore industriale, portando al sorgere di un fitto sistema di piccole imprese private e alla costituzione delle zone economiche speciali.
Il miracolo cinese partì da queste premesse, e il merito fu soprattutto di Deng, che si mosse con grande abilità, assecondando e trasformando in soluzioni vincenti le spinte provenienti dal basso e riuscendo a mantenere il potere senza ricoprire mai posizioni di primo piano, che delegò ad altri, quali Zhao Ziyang e Hu Yaobang, riservando per sé, per cautelarsi, la presidenza della Commissione militare centrale. Il giudizio storico su di lui è controverso, venendogli comunque addebitate gravi responsabilità per il ruolo che in precedenza avrebbe avuto nell’attuazione delle rovinose politiche economiche maoiste e, soprattutto, per la dura repressione della protesta della Tienanmen (1989). In anni recenti è spettato a Xi Jinping, paladino a livello mondiale del libero mercato, il compito di dare una nuova scossa al sistema e traghettare l’ormai logoro modello denghiano verso una nuova èra, coniugando principi maoisti, forme parziali e controllate di liberismo economico e valori etici confuciani sotto la vigile guida del Pcc, che ha così ritrovato, una volta ancora, piena legittimazione.
Il Sole Domenica 2.12.18
«Straparole» di Cesare Zavattini
La vita? È fatta di tutto quello che si tace
di Stefano Crespi
Occasione davvero significativa è la ristampa, nelle edizioni Giunti di Firenze, di Straparole di Cesare Zavattini (libro uscito la prima volta da Bompiani nel 1967). La personalità di Zavattini ha un universo creativo impressionante tra immagine e scrittura, gesto e voce, autobiografia e racconto: in una reciprocità che attraversa cinema, letteratura, pittura.
Le pagine di Straparole si susseguono nell’urgenza, nella materia diaristica, considerando che nello storicismo e nei generi della cultura italiana il diario rimane in una rarità rispetto all’opera.
A confermare l’originalità e la diversità diaristica di Zavattini, valga qualche richiamo variamente esemplificativo. Carlo Bo pubblica nel 1945 Diario aperto e chiuso. C’è in queste pagine un alfabeto perdutamente interiore: il tempo esistenziale coincide con il tempo della lettura, lo sfondo seducente dei libri, le intermittenze, il tratto della nostalgia, lo scorrere del tempo.
Nell’orizzonte della letteratura femminile, un verso poetico di Cristina Campo può essere emblematico: «Ora tutta la vita è nel mio sguardo». Rispetto alla spazialità dei linguaggi, lo sguardo è inconscio, memoria, attesa, ciò che è stato amato, ciò che non è accaduto.
Ricordiamo infine l’ultima espressione de Il mestiere di vivere di Cesare Pavese: «Non parole. Un gesto. Non scriverò più».
Zavattini, lungo le pagine, ha un solo modo di ribadire il suo connotato diaristico: «un tritume di nomi di fatti di pensieri», «tanto cartame». In un lascito profondo di umano, di cultura, di sorpresa, di stupore, Zavattini scrive la temporalità, l'eventicità della vita che appare e scompare: un fluire inesauribile nelle infinite pagine bianche, fuori da schemi, da astrazioni intellettuali.
«Il niente non esiste»: fremono luoghi, presenze, volti, parole, ricordi.
C’è una rinuncia al coordinamento della scrittura per una diretta espressione nell’atto vivente del tempo. Nell'orizzonte delle interpretazioni intellettuali, delle situazioni formalizzate, arriva Zavattini a scrivere: «Dateci almeno un errore da difendere».
Nel leggere Straparole, un po’ commuove ritrovare un’affinità con il titolo di un libro di Thomas Bernhard La cantina (pubblicato da Adelphi nel 1984). La cantina è il centro segreto delle voci, dei rimandi, dei tramandi perduti.
Certamente appaiono variamente nomi di riferimenti culturali (De Sica, Germi, Soldati, Rossellini, Ungaretti, Moravia…). Aspetti che hanno un riscontro, come nel cinema, in altre pubblicazioni. Nel connotato diaristico, la pagina è presa dall’intermittenza con il margine improvviso della ferialità. In un mese di novembre, sotto i portici, Zavattini racconta di vedere l’arciprete con la cotta bianca e la stola nera recarsi da una donna mancata. Si leva il basco in segno di raccoglimento. Scrive: «l'arciprete si voltò verso di me dal mezzo della strada e con la sua voce da salmo, gridò, perché era piuttosto lontano, in dialetto: Cesar, si muore, ricordati che si muore».
In un tratto di intima fugacità, Zavattini ferma il momento improvviso, seducente, senza fine delle figure femminili. Nei giorni uguali ai giorni, sono apparizioni.
Sotto un portone, Zavattini vide cadere un fazzoletto dal balcone. Corse a raccoglierlo e a riportarlo su per le scale. Incontra la fanciulla. Le scrisse una lettera «che non ho mai più scritto». Dopo un anno era sua moglie.
Nelle occasioni più diverse, osserva le ragazze che cominciano a uscire di casa, incipriate e si mettono «in mostra sulla strada». A una finestra, nota una ragazza che si ravviava i capelli. Scrive: «Nessuna curiosità mi prendeva, solo il rimpianto di non essere giovane per scrivere a quella fanciulla: ti amo».
Ciò che forse emerge in Straparole è un connotato espressivo che tende al paradosso nel coniugare il visibile e l’invisibile, le parole e il silenzio, la coscienza del reale e la sua “inafferrabilità”.
Zavattini stesso parla della dismisura dei suoi scritti («chino sul pozzo di un migliaio di pagine e più»). Dall’altra parte cade una sua osservazione: «La vita è fatta di quello che si tace». Oltre al dicibile, c’è l’area sconfinata del silenzio, dell’indicibile.
Ricordiamo anche le poesie di Zavattini nel dialetto di Luzzara, paese d’origine. Poesie ammirate da Pasolini. Si riconferma quel tratto dialettico tra il transito della vita e una percezione misteriosa. Quel funerale così povero «che non c’era neanche / il morto nella cassa». Una notte Dio entrò nella sua camera. Gli disse: «faccio sapere che non esisto».
Zavattini ha avuto una grande apertura nell’incontro, nel dialogo, nella corrispondenza. Mi inviò due lettere, battute a macchina. Cito uno stralcio che suggerisce l’orizzonte letterario, l’intuizione dei suoi autori amati: «Intuivo che Pirandello era uno dei pochi scrittori del Novecento partecipi della grande cultura europea, accanto a Joyce (che non ho letto), a Proust (che non letto questo anno) a Kafka ( di cui conosco solo la meravigliosa Metamorfosi) a Musil (che è qui sul comodino e non oso ancora cominciarlo). Ma non sono alibi questi, uno scrittore che si rispetti sa sempre quello che i maggiori hanno fatto, lo vede non sulle pagine ma nell’aria. Che cosa potrei leggere per sapere le idee di Pirandello sul cinema?».
Straparole
Cesare Zavattini
Giunti Editore /Bompiani
Firenze – Milano, pagg. 410, € 12
Il Sole Domenica 2.12.18
Intorno all’amore. Pietro Del Soldà ne individua una dimensione pubblica contro l’immagine dominante che ne dà invece una lettura privata. L’eros non va inteso solo in senso sentimentale e di coppia, ma soprattutto politico
Una visione plurale di felicità
di Remo Bodei
Nell’inflazione di pubblicazioni che trattano della felicità e delle ricette per raggiungerla o tra le numerose applicazioni del pensiero antico all’attualità, la prima cosa da dire è che questo libro riserva una gradita sorpresa: non è banale e, malgrado la perfetta conoscenza dei testi platonici utilizzati, non ha neppure un taglio didascalicamente accademico.
In quanto conduttore della rubrica radiofonica Tutta la città ne parla, Pietro Del Soldà gode, infatti, professionalmente del vantaggio di praticare una sorta di quasi quotidiano dialogo socratico nell’agorà tecnologica di RAI 3, di misurarsi, in maniera garbata ed equilibrata, con le questioni poste dal pubblico, con le sue preoccupazioni e inquietudini. Senza offrire soluzioni prefabbricate, egli utilizza Socrate come un reagente e non come un modello cui adeguarsi.
Il problema della felicità è trattato contropelo, a partire dalle radici dell’infelicità e delle sue cause e dalla domanda che oggi s’impone: perché tanta infelicità, se il mondo, rispetto al passato, è incomparabilmente migliore, se le aspettative di vita, di libertà e di sicurezza sono così aumentate? Contro l’immagine dominante di una felicità esclusivamente privata, Del Soldà ne mostra l’inscindibile con la dimensione pubblica. Sostiene poi la tesi che l’amore (eros) non debba essere inteso in senso sentimentale o di coppia, ma anche, e soprattutto, politico. In tale prospettiva, esso consiste nella ricerca di un legame in grado di dare «armonia alle “voci del coro”, cioè di governare se stesso e la città senza escludere nessuna delle parti che la compongono». Eros è la forza che abbatte il muro di separazione tra l’Io e il Noi.
Notevole è la parte del volume che, ripercorrendo la polemica di Socrate contro i sofisti (in dialoghi come il Protagora, il Gorgia, il Lachete, il Fedro, la Repubblica e le Leggi), Del Soldà indica in essi gli antesignani delle attuali forme d’individualismo narcisistico, caratterizzato dalla mancanza di pudore, dalla «spettacolarizzazione dell’intimità», dall’insofferenza alle regole e dalla ricerca del successo a qualsiasi costo. Nessuno si mette realmente in gioco nel dialogo, ma aggiunge addirittura nuovi mattoni al «muro» che lo divide, oltre che da se stesso, anche dagli altri, con cui intrattiene rapporti unicamente strumentali. Si è perciò soli pur vivendo in mezzo a una pluralità di persone, perché s’intessono con loro relazioni non vincolanti (quelle che il filosofo americano Robert Nozick aveva teorizzato come no binding committments). L’esistenza è concepita da questi sofisti come una competizione senza quartiere, analoga alla corsa della vita descritta da Hobbes, che parafrasa San Paolo, della: «Guardare gli altri che stanno dietro, è gloria. […] Esser superato continuamente, è infelicità. / Superare continuamente quelli davanti, è felicità / E abbandonare la pista, è morire».
L’ipertrofia dell’io conduce al paradosso per cui, più ci separiamo da noi stessi e dagli altri, più ci omologhiamo, in quanto egoismo e conformismo sono due facce della stessa medaglia. Come abbattere dunque la barriera che ci divide da noi stessi e dagli altri? La soluzione suggerita è quella che si trova nell’Alcibiade Maggiore, dove il precetto delfico «Conosci te stesso!» non va inteso come un invito a sprofondare nell’asfittica interiorità individuale, bensì a rispecchiare se stesso nella pupilla dell’altro: «Se un occhio vuole vedere se stesso, deve guardare in un altro occhio e in quella parte in cui nasce la forza visiva». Ciascuno deve perciò uscire da sé proprio per andare verso se stesso, anche perché conoscere se stessi significa conoscere gli altri, ossia anche fare politica. Ma, per rovesciare l’ottica consueta dell’introspezione e ritrovarsi nella pluralità degli altri, per rimettere a posto i frammenti di se stessi in qualcosa di coerente, si richiede coraggio.
Riferendosi più direttamente alle vicende del presente, ciò implica non solo l’abbandono della retorica dell’identità autosufficiente, basata sull’esclusione dell’altro, ma anche – e questo, in tempi di fake news, è un suggerimento prezioso – il non limitarsi a smontare le falsità evidenti attraverso il fact checking. Occorre, piuttosto, sforzarsi di capire l’eros, l’irrefrenabile bisogno, in chi si è sentito abbandonato e sminuito, di entrare a far parte di una comunità che lo rappresenti e per cui si è disposti ad accettare, come tassa d’inclusione, tutto quanto asserito dall’opinion leader. Tale adesione ha tanto più valore in una fase in cui si assiste a una enorme crescita delle diseguaglianze o, come direbbe la sociologa Sakia Sassen, a una «secessione dei patrizi», al ritirarsi nelle loro dorate posizioni di quei pochi che posseggono le risorse di metà del genere umano (e che, nella rivendicazione di una eroica ignoranza, vengono spesso accomunati alla detestata casta dei detentori ufficiali del sapere).
Vi è un solo, difficile. rimedio all’attuale ribollire delle «passioni tristi» (odio, invidia, risentimento) e di quelle irruenti (ira, gelosia, aggressività) non sufficientemente orientate dal pensiero cosciente. Nelle Leggi tutte sono paragonate da Platone a rigidi e indeformabili fili di ferro, che muovono l’uomo come una marionetta. A esse bisogna sottrarsi, opponendo resistenza al loro potere, per «farsi guidare sempre da uno solo di questi fili, senza mai lasciarlo […]. Si tratta del sacro filo d’oro del logos». Occorre, in altri termini, fare affidamento su una «ragione malleabile» come l’oro, capace di condurre a una «felicità plurale» e condivisa, al cui culmine «assaporare la gioia indicibile di un canto comune».
Non solo di cose d’amore. Noi, Socrate e la ricerca della felicità
Pietro Del Soldà
Marsilio, Venezia, pagg. 191, € 17
Il Sole Domenica 2.12.18
Donatella Di Cesare
La filosofia come vocazione a rompere il silenzio
di Francesca Rigotti
«Quando il gallo canta, solo o in un’orchestra solitaria e distante, sembra che voglia rompere qualcosa...Il canto del gallo irrompe e spalanca, in modo decisivo, le porte e il cammino della storia». Le parole di María Zambrano (in Dell’aurora, 1986) mi risuonano nella testa, pensando a questo libro di Donatella Di Cesare, insieme a quelle di Max Weber (ne La scienza come professione, 1919): «Una voce grida da Seir in Edom: sentinella quanto durerà la notte? Verrà il mattino – risponde la sentinella – ma è ancora notte». Entrambi gli autori evocano infatti situazioni di veglia e la veglia, commenta a sua volta Di Cesare, è «il preludio della filosofia».
Nella veglia, nell’attesa della luce chiara del giorno, che desta stupore, canta il gallo: quel gallo che Socrate dopo aver bevuto la cicuta chiede venga sacrificato ad Asclepio, come riportano le ultime battute del Fedone. Il gallo, animale di sacrificio da immolare allo scopo di celebrare la guarigione dalla malattia del vivere. Il gallo, animale della soglia tra oscurità e chiarezza, veglia e sonno, animale del limite dunque, come le domande-limite della filosofia, che stanno sul punto del limite per valicarlo e uscirne fuori.
La filosofia – dice l’intenso saggio di Donatella Di Cesare, proponendo una riflessione sul ruolo di tale forma e disciplina del pensiero e cercando di darne una definizione – si affaccia sulla soglia e guarda oltre, per esempio nelle «profezie del salto» di Marx e Kierkegaard, filosofi divergenti quanto speculari nel loro salto, verso l’esteriorità Marx, rivolto all’interiorità Kierkegaard. Anche se il titolo potrebbe trarre in inganno, lasciando immaginare filosofi sulle barricate, Di Cesare non sostiene certamente la coincidenza tra filosofia e politica, né quella tra filosofia e democrazia e nemmeno la priorità della democrazia sulla filosofia, come suona il titolo di un saggio di Richard Rorty. Ciò cui qui si dà luogo, si apre spazio, è il tema della vocazione la quale è chiamata, voce, invocazione, canto, canto del gallo che con la sua potenza sonora rompe il silenzio, apre la porta ed e-voca, ovvero, letteralmente «chiama fuori».
Serve a qualcosa questo richiamo, ha utilità pratica, porta profitti e guadagni, risolve problemi? A quest’ultimo aspetto provvede lo scienziato, commenta Di Cesare, riconoscendo alle scienze capacità e ruoli precisi. Cortesia non ricambiata da Edoardo Boncinelli che invece nella sua requisitoria dal titolo La farfalla e la crisalide (Milano 2018) infierisce crudamente (e gratuitamente) sulla filosofia, accusandola di rifiutarsi di capire che a partire dalla nascita e dall’affermarsi della scienza sperimentale il suo ruolo si è esaurito, anzi è diventato frenante, negativo, tossico.
La scienza, riconosce Di Cesare, percorre la via regia verso la soluzione dei problemi e l’appagamento progressivo della conoscenza. Ma la filosofia precede la scienza, e non certo per tirarsi indietro e autodistruggersi nel momento di separarsi da quella, come la crisalide che, dopo essersi aperta per lasciar uscire la farfalla, si secca e perde la sua funzione. Che l’analogia proposta da Boncinelli non sia valida, proprio come non fu valida, ce lo illustra lui stesso, l’analogia della struttura dell’atomo con quella del sistema solare, dal momento che troppe specificità atomiche trascurava e oscurava?
La filosofia di cui Di Cesare parla con passione e trasporto ha un movimento alato, verticale, lungo il quale si muovono quei «sublimi migranti del pensiero» che sono i grandi filosofi persino, nonostante Boncinelli, post-galileiani. Eppure da quella posizione eretta la filosofia riesce pure a inclinarsi – sia reso omaggio a Adriana Cavarero – con un gesto di attenzione e cura, verso la polis, per risvegliare la comunità assopita nel sonno individuale, e qui Di Cesare segue le intuizioni e le immagini mentali di Walter Benjamin.
Non è un caso dunque che l’autrice affidi il compito politico della filosofia alla poesia, come fu il caso di Dante, poeta e pensatore dell’impegno politico che prese partito e si espose pubblicamente. Come non è un caso il fatto che il poetare e l’impegnarsi politicamente si incontrino e si fondino nella etimologia dei termini in gioco tedeschi, latini e greci. Comporre poesia in tedesco, commenta Di Cesare, si dice dichten (dal latino dictare), ma dichten sta anche per condensare, addensare. Lo stesso significato, aggiungo, del termine impegno (dal lat. pignus), legato ai significati del verbo latino pango e di quello greco p?gnymi, vale a dire addensare, consolidare, coagulare; che è quel che fa la parola politica quando si incarna nell’impegno o introduce il patto e la pace. Questo mentre i filosofi non dovrebbero fare a meno di intervenire politicamente nel mondo, eventualmente dalla posizione anarchica, quella di Di Cesare, svincolata dal potere e dal comando - uno dei significati del greco archè - ma non dagli altri suoi non meno pregnanti significati, origine e principio.
Sulla vocazione politica
della filosofia
Donatella Di Cesare
Bollati Boringhieri, Torino,
pagg. 180, € 12,75
https://spogli.blogspot.com/2018/12/il-fatto-2.html