Il Fatto 14.12.18
I segreti “sovranisti” che hanno portato il vicepremier in Israele
Il leader della Lega vede Netanyahu: la visita preparata dal fedelissimo Picchi e dall’ex Pdl Fiamma Nirenstein
di Wanda Marra
Erano
mesi, per non dire anni, che Matteo Salvini preparava una sua visita
solenne in Israele. Ansia di legittimazione, come fu per un altro leader
di un’altra destra, Gianfranco Fini. Della quale, nonostante le
differenze, soprattutto di origine, la Lega sta raccogliendo l’eredità.
Anche nel senso di raccogliere le istanze neofasciste o post-fasciste. E
poi il tentativo di aprire nuove interlocuzioni in un Paese per il
quale da sempre passano affari importanti. Ad oggi, Salvini non ha un
Marco Carrai, come fu per Matteo Renzi, ovvero una sorta di ambasciatore
a tutto tondo in quel Paese. Ma ci sta lavorando.
E così nella
due giorni appena conclusa ha stretto un rapporto di ferro con il
premier Benjamin Netanyahu, che lo ha accolto e lo ha sdoganato. Perché
tra i due è in atto una strategia comune: Nethanyahu andrà alla
cerimonia di insediamento del presidente brasiliano Bolsonaro, che ha
promesso che sposterà l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme. Salvini,
che anche dovrebbe presenziare, ha detto che, sulla stessa questione,
sta “riflettendo”. E non a caso non ha incontrato nessuno dell’Anp:
“Bibi” lo sta usando come piede di porco per sfaldare il fronte
nell’Unione Europea. E lui si presta.
Forte di un altro rapporto,
che ha contribuito a preparare la visita, sia pure nell’ombra: quello
con Fiamma Nirenstein, che il premier israeliano nel 2015 aveva voluto
ambasciatrice (un anno dopo lei aveva rinunciato all’incarico).
Giornalista ed ex parlamentare Pdl, è sempre stata al centro di
polemiche per le sue posizioni di destra. Proprio quelle alle quali il
ministro dell’Interno sta dando cittadinanza. In un editoriale, il
quotidiano Haaretz ha detto che Salvini sarebbe dovuto essere definito
“persona non grata”. E il presidente della repubblica Rivlin non ha
voluto vederlo. Aprire le porte di Israele a un Ministro che soffia su
razzismo e xenofobia, oltre ad accompagnarsi all’estrema destra, non era
scontato. Però, non hanno disdegnato di incontrarlo neanche il ministro
della Giustizia, Ayelet Shaked e il ministro della Pubblica Sicurezza,
Gilad Erdan.
Tra i grandi burattinai anche Steve Bannon: Trump pur
avendolo allontanato, ha seguito in maniera quasi pedissequa le
“prescrizioni” del suo ex stratega di riferimento, incluso il
trasferimento dell’ambasciata statunitense in Israele a Gerusalemme,
come gli avrebbe suggerito proprio Bannon. Il quale si definisce
“orgoglioso di essere un sionista cristiano“.
E chi è che ha
organizzato il viaggio del ministro, facendone uno preparatorio
all’inizio di novembre? Il viceministro leghista Guglielmo Picchi, che
agisce da ministro degli Esteri parallelo. Tra i suoi incontri, il
viceministro per la Diplomazia pubblica, Michael Oren, ex ambasciatore
di Israele a Washington, che non andava d’accordo con Obama ma si è
lasciato andare a entusiasmi pubblici per Trump. Tutto torna, visto che
fu lo stesso Picchi a portare Salvini da Trump nel 2016. Lo stesso anno
cui risale la prima visita in Israele dell’allora solo leader del
Carroccio: allora con lui c’erano Lorenzo Fontana e Giancarlo Giorgetti.
Il primo oggi è iltessitore dell’alleanza sovranista, il secondo ha
sempre svolto una funzione di raccordo tra la Lega e gli ambienti
istituzionali più tradizionali, anche all’estero.
Non stupisce,
data la delicatezza della missione, la presenza di una delegazione
composta da ben 8 persone. Degna però di un presidente del Consiglio.
Quattro comunicatori: Matteo Pandini, il portavoce, ormai sua ombra,
Luca Morisi e Andrea Paganella, gli uomini che curano “La Bestia”,
ovvero il sistema per sfondare sui social e Daniele Bertana, che è
l’addetto alle foto e ai video. L’unico che è andato con Salvini al
confine con il Libano a vedere le zone militari. E poi, il consigliere
diplomatico, Stefano Beltrame, il capo del cerimoniale, Ilaria Tortelli,
il consigliere di Palazzo Chigi, Claudio D’Amico e un altro funzionario
del Viminale. Un incontro preparato a vari livelli, con non poche
complicazioni: per esempio le regole d’ingaggio per l’incontro con
Netanyahu sono cambiate decine di volte. Prima era chiuso ai
giornalisti, poi aperto e c’è stata una lunga discussione sull’uso degli
smartphone.
Tra le cose che hanno fatto più discutere le
dichiarazioni di Salvini su Hezbollah, definiti “terroristi islamici”,
mentre sono i padroni del Libano, dove i soldati italiani partecipano
alla missione Unifil. Chi ha lavorato alla visita racconta che si è
trattato in realtà di un messaggio cifrato al fronte europeo, contro
l’Iran, loro alleato, dopo che Trump ha annunciato il ritiro
dall’accordo sul nucleare iraniano. Dietro le quinte della visita, ci
sarebbe pure Avigdor Lieberman, ex ministro della Difesa, che invocò la
guerra contro l’Iran e l’attacco al Libano contro Hezbollah.