Corriere 17.12.18
Sviluppo e diritti
L’Africa ci riguarda da vicino
di Angelo Panebianco
L’Europa
è alle prese con molte sfide simultanee, variamente intrecciate, ed è
questa simultaneità che rende così difficile fronteggiarle. C’è la crisi
dei legami interatlantici che, a sua volta, esaspera la crisi europea.
Ci sono le ricadute negative su settori, cospicui anche se non
maggioritari, delle opinioni pubbliche dovute alla generale
constatazione dei difetti dell’Unione. C’è una crisi di leadership che
ha colpito, in un modo o nell’altro, tutte le grandi democrazie europee.
A queste sfide ne va aggiunta un’altra: il «paradosso della società
aperta». Vediamo in che consiste. Prendiamo il caso di una società che
definiamo «aperta» (o libera), ossia fondata sul primato della libertà
individuale, sull’economia di mercato, sulla democrazia politica,
eccetera. Messa di fronte alla prospettiva di quelli che vengono
percepiti come probabili, massicci, flussi migratori di un futuro
vicino, una società di tal fatta può reagire in due modi. Può fare la
scelta di chiudere (o di tentare di chiudere) più o meno ermeticamente
le frontiere. Ma se lo fa il serio rischio che corre è di perdersi: se
chiudi le frontiere alle persone rischi, prima o poi, di chiuderle alle
merci e poi anche alle idee. Perdi la capacità di innovare e di
rinnovarti. Declino demografico e decadenza economica marceranno
insieme. Ne conseguirà il passaggio dalla società aperta alla società
chiusa.
s i passerà dalla economia (più o meno) di mercato alla
economia (più o meno) statalizzata, dalla democrazia rappresentativa
all’autoritarismo (più o meno mascherato da democrazia plebiscitaria).
Oppure
quella società può fare una diversa scelta: decide di non chiudere le
frontiere. Prima o poi la prevista massiccia immigrazione si realizzerà
davvero. A quel punto delle due l’una: o ci sarà un contraccolpo
politico, una svolta autoritaria, oppure la crescente presenza di gruppi
con tradizioni differenti innescherà feroci e interminabili conflitti
di civiltà: infatti, mentre una parte dei migranti si adatterà agli usi
della società ricevente, un’altra parte, soprattutto a partire dalle
seconde generazioni, non lo farà.
Il paradosso della società
aperta consiste dunque in questo: quale che sia la scelta (chiusura
delle frontiere o no), almeno in linea di principio, l’esito finale sarà
comunque la distruzione della società aperta. C’è un modo per sfuggire a
questo destino? Per quanto riguarda noi europei la risposta dipende da
come evolveranno i nostri rapporti con il continente africano.
Le
proiezioni demografiche sono impressionanti. Ci si aspetta che l’Africa
raddoppi la propria popolazione in pochi decenni. È possibile, secondo
certe stime, che nel 2050 un quarto degli abitanti del pianeta sia
africano. Contemporaneamente, l’Europa, sia pure con differenze fra i
vari Paesi (l’Italia si è guadagnata un triste primato), è
complessivamente in flessione.
Si ha un bel dire che i «numeri»,
oggi, smentiscono quelli che parlano di «invasione» dall’Africa. Certo
che in questo momento non c’è alcuna invasione. Ma l’attesa generale è
quella di flussi migratori sempre più consistenti verso la ricca Europa
nei prossimi anni e decenni. Basterebbe questa attesa a spiegare perché
in quasi tutti i Paesi europei siano sorti partiti anti migranti e
abbiano mietuto consensi. Se si fosse ricorso in tempo a misure per
controllare gli ingressi in Europa prima che i mercanti di schiavi
scoprissero il remunerativo business delle migrazioni clandestine, forse
le cose starebbero ora diversamente. Comunque sia, la frittata è fatta:
il «paradosso della società aperta» è incombente e non sarà facile
eluderlo.
La salvezza della società aperta europea, se ci sarà,
dipenderà da un eventuale, massiccio, sviluppo economico dell’Africa:
così massiccio da assorbire gran parte della prevista espansione
demografica (ma anche tale da porre le condizioni per una successiva
contrazione dei ritmi di crescita della popolazione). Gli europei hanno
delle eccellenti ragioni egoistiche per desiderare che in Africa — anche
in quelle parti dell’Africa ove non ve ne siano ancora i segnali — ci
sia un vigoroso sviluppo economico.
La consapevolezza di ciò
spiega perché circolino idee poco realizzabili o, se realizzabili,
pericolose e controproducenti. Ogni tanto, ad esempio, si sente qualche
politico europeo evocare un «piano Marshall» per l’Africa. Ma l’Europa
non è l’America del dopoguerra, né l’Africa è l’Europa di allora. Il
cosiddetto piano Marshall servirebbe solo a riempire di quattrini le
tasche di ras locali corrotti, signori della guerra e simili. Lo
sviluppo non dipende dagli «aiuti allo sviluppo», comunque definiti e
mascherati. Dipende dall’esistenza di istituzioni (sociali, economiche,
politiche) locali solide, in grado di generare ordine: quell’ordine che
serve alle persone per intraprendere, lavorare, investire i propri
risparmi, eccetera. Il problema però è che nessuno sa bene come si fa a
costruire istituzioni solide là dove non esistono. Nell’attesa di
scoprirlo, quello che gli europei possono fare per l’Africa (e quindi
per se stessi) è non lasciare alla Cina campo libero negli investimenti.
Conviene ai Paesi europei scommettere sul futuro dell’Africa e
investirvi molte risorse. Per un vantaggio a breve scadenza: ampliare la
propria presenza in un mercato in espansione. E per un vantaggio a
lungo termine: tutelare la società aperta europea.