lunedì 17 dicembre 2018

Corriere 17.12.18
La prigionia della seduzione
Matteo Nucci esplora il desiderio d’amore: una spinta mai appagata ma inesauribile
Itinerari «L’abisso di Eros» (Ponte alle Grazie) è un viaggio nella Grecia e nei suoi miti fondativi
Neppure la nascita di Afrodite è idilliaca come la rappresenta Botticelli, ma trae origine da un episodio di violenza
di Giorgio Montefoschi


Matteo Nucci viaggia da molti anni nella Grecia continentale e nelle sue isole, e ne conosce ogni metro quadrato. La sua fortuna non è solo quella di possedere l’amore per il passato di questo luogo centrale del mondo, per le testimonianze della sua bellezza, per i suoi miti, per le parole dei filosofi e della poesia. Come un Pausania dei tempi moderni, lui riesce a vedere le pietre che il cemento delle città nasconde, la campagna antica contaminata dalle periferie, il mare com’era una volta. Gli bastano pochi sassi, le modeste rovine assediate dai pini e dai grandi cespugli di lentisco, e lui rivede Atene e Sparta, la reggia in cui Menelao ed Elena hanno ricomposto il loro amore, la strada in cui Socrate si allontana con Fedro, la costa dell’Eubea nella quale si narra che un giorno lontano Esiodo e Omero si misurarono in una gara di versi. Vinse Esiodo, perché seppe andare all’inizio di tutto, mentre Omero si limitava a raccontare le cose che accadono fra gli uomini e abbiamo sotto gli occhi; ma quando, alla fine della gara, Omero condusse il rivale in riva al mare per mostrargli una corrente che a capriccio mutava di direzione (come accade nelle vicende amorose degli uomini) e cominciò a cantare quello che noi possiamo leggere nel canto XIV dell’ Iliade , «i versi si diffusero nell’aria come bagliori e miraggi», mentre Esiodo tratteneva le lacrime a stento.
L’abisso di Eros (Ponte alle Grazie), l’ultimo libro di Matteo Nucci, ha per sottotitolo: Seduzione. È un libro sapiente, colmo di suggestioni, molto bello, che consigliamo ai lettori che per qualche ora vorranno perdersi in quei paesaggi incantati, rivedere quel mare azzurro, riascoltare le parole dimenticate sepolte nel loro cuore. All’inizio — scrive Nucci, seguendo Esiodo e la sua Teogonia — era il Chaos, poi venne Gea dall’ampio seno, poi Eros, «la divinità che dà inizio alla generazione, fa tremare le gambe, sottomette il raziocinio, spinge all’accoppiamento e alla riproduzione». Ma il Chaos, diversamente da come immaginiamo, non era disordine: era un immenso squarcio nella terra. Eros si sporse e penetrò in questo abisso nero: nel medesimo squarcio che è fuori e dentro di noi, «quando sentiamo il vuoto che ci divora, l’assenza di chi desideriamo come un abisso interiore, la voglia di ricreare una unità perduta». L’amore che lacera e distrugge, unisce e rapisce, che non ha nulla a che fare con i giardini della pace. È la «spaccatura» di tutti i romanzi e poesie che parlano d’amore. Fino a quello che ogni scrittore moderno vorrebbe aver scritto: il romanzo di Malcom Lowry, Sotto il vulcano, in cui è rappresentata una spaccatura della terra agli antipodi, nella Sierra Madre messicana, e la tortura di un’impossibile riconciliazione, quella del Console ubriaco e della moglie Yvonne.
Cosa racconta Omero, facendo piangere Esiodo? Il famoso episodio di Era, che nella guerra di Troia sta dalla parte dei greci, vuole fermare l’avanzata dei troiani, e quindi deve persuadere Zeus, suo marito. Per farlo sa che l’unico modo è la seduzione. E chiama Afrodite, dalla quale si fa consegnare tutti i mezzi: «l’amore e il desiderio, il colloquio segreto,/ la persuasione, che ruba il cervello e chi pure ha saldo pensiero». Appena la vede, Zeus è colpito, la prende fra le braccia e la esorta a non avere pudori. Traduce, insuperabile, Giovanni Cerri: «Sotto di loro la terra divina produsse erba novella,/ loto rugiadoso e croco e giacinto/ soffice e folto, che riparava la terra a mo’ di tappeto./ Vi si stesero sopra, si coprirono con una nuvola/ bella dorata: ne stillavano gocce splendenti di rugiada». Poi, di quello che accade — in ottemperanza alla regola fondamentale di ogni racconto, valida tanto più quando è un racconto d’amore — nulla vien detto.
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Neppure la nascita di Afrodite è idilliaca come la rappresenta Botticelli, ma trae origine
da un episodio di violenza
La nascita di Afrodite, la dea del desiderio e della seduzione, non è quella idilliaca rappresentata dal Botticelli nel suo quadro più famoso. Afrodite nasce da un episodio primordiale di violenza, e non sempre — come accade nei sublimi versi dell’Agamennone nei quali è descritto l’arrivo di Elena a Troia — si accompagna a «una sensazione di sereno senza vento,/ un pudico ornamento di ricchezza,/ una dolce freccia degli occhi/ un fiore d’amore che penetra». Per evocare la sua nascita vera, narrata da Esiodo, Nucci suggerisce di appostarsi in alto, sull’isola di Kythira, a sud del Peloponneso, in una giornata invernale buia, col mare in tempesta. Da Gea è nato Urano, che si unisce a lei in un amplesso insaziabile e infinito. Ma Urano non vuole figli, li odia, e li comprime nel ventre di Gea che un giorno, per liberarsi, escogita un tranello: offre a Crono, l’ultimo nato, un falcetto. Con quel falcetto, Crono taglia il membro di suo padre e lo getta nel mare. Quindi, da quel membro divino, sanguinante nei flutti, sorge una bianca spuma, e da essa una fanciulla. È Afrodite.
Ed ecco perché, molto spesso, alla seduzione fa seguito un sentimento di prigionia, una prostrazione tormentosa, un desiderio insostenibile. Afrodite ha gettato il laccio. Il seduttore o la seduttrice, ingabbiati in quel laccio, sanno che a loro volta devono lanciare il loro. E scegliere il momento unico, irripetibile per la conquista, esattamente come fa il cacciatore con la preda: un momento che, essendo nel tempo e fuori del tempo, ci fa riconoscere il divino che è in noi. Come accade a Penelope e Odisseo quando dopo vent’anni si riabbracciano e formano un corpo solo.
Ma perché questo desiderio è insostenibile, non trova requie, non avrà mai soddisfazione? Forse, perché il desiderio afrodisiaco, spinto soltanto dall’attrazione sessuale, non può realizzarsi in pieno se non troviamo un modo in noi stessi, nella nostra anima, di dargli un senso più alto che lo trasferisca altrove? Nell’Abisso di Eros — il lettore lo ha già capito — come Alcibiade ubriaco nel Simposio, ha fatto la sua irruzione Platone. «Quando amiamo — dice Diotima a Socrate nel famoso discorso — non cerchiamo di ricreare una unità perduta ma cerchiamo ciò che è bene per noi. L’amore non è la simbiosi afrodisiaca che spesso sogniamo. L’amore è ricerca, tensione, aspirazione continua a qualcosa che sempre dobbiamo continuare a cercare, qualcosa che è bene per noi e che non si realizza nella perfezione ma nella inesauribile spinta». Qualcosa che è bene per noi. Matteo Nucci conosce molto bene Platone, avendolo studiato per un quarto di secolo, e lo segue. Eppure, quell’unità perduta esiste: l’unità nostra con il Tutto. La conserviamo nell’anima come una debole memoria che l’amore carnale e la bellezza risvegliano, facendoci desiderare un bene universale. È il medesimo desiderio di ricongiunzione che ci guida quando, magari segretamente, per riunirci in noi stessi, torniamo nei luoghi del nostro dolore.