Repubblica 5.11.18
Capolavori
Un viaggio all’inferno con la plebe di Belli
di Alberto Asor Rosa
Riuniti
in quattro volumi gli oltre duemila sonetti del grande poeta romano. La
cui opera molti assimilano alla "Commedia" dantesca
Capita talvolta
di veder usare dal critico-recensore il termine «monumentale» a
proposito di questa o quella impresa libraria. Non credo, però, che
questo sia mai stato così adeguato all’oggetto come nel caso che da qui
in poi tenterò di descrivere: una «monumentale», appunto, edizione de I
sonetti di Giuseppe Gioachino Belli, critica e commentata, a cura di
Pietro Gibellini, Lucio Felici, Edoardo Ripari, in quattro giganteschi
volumi (nella collana dei «Millenni» Einaudi ). Le dimensioni della
pubblicazione sono del resto adeguate a quella dell’opera: si tratta di
ben 2.279 sonetti, per complessivi 32.208 versi, più del doppio della
Commedia di Dante: opera, del resto, alla quale quella del Belli è stata
più volte accostata, assumendo talvolta il titolo, surrettizio, ma non
inappropriato, di Commedione.
Gli apparati critici, biografici e
bibliografici sono tutti di altissimo livello, e a misura dell’opera.
Nella sua introduzione, intitolata (non a caso, come abbiamo visto)
Belli, moderno Dante, Pietro Gibellini, che senza ombra di dubbio è il
migliore conoscitore oggi dell’opera belliana, ne traccia un profilo
articolato in tutte le sue parti e corrispondenze. Una lettura di questo
testo apre le porte a una visione più chiara della caleidoscopica,
vivente, eloquente, e spesso brutale, irridente e scatenata realtà
popolare romana, in un momento particolarmente critico, vale la pena di
precisarlo, della sua storia. M’interessa da qui in poi sottolineare
alcuni punti. Il primo riguarda l’alta coscienza che il Belli, modesto
impiegato dell’amministrazione pontificia, rivela nel compiere tali
scelte, impegnativissime. Il Belli ha premesso alla sua raccolta sebbene
non nutrisse alcuna intenzione di pubblicarla, evidentemente non
avrebbe potuto farlo se non a rischio di finire nelle segrete di Castel
Sant’Angelo - una introduzione d’impressionante lucidità. Innanzi tutto
la singolarità estrema, ai limiti dell’isolamento più assoluto, di
quella che era destinata a diventare la protagonista assoluta della sua
poesia dialettale: «In lei (plebe) sta un certo tipo di originalità…
tutto ciò insomma che la riguarda, ritiene (mantiene) una impronta che
assai per avventura si distingue da qualunque altro carattere di popolo»
(I. p.7). E cioè: che Belli abbia torto o ragione, inequivocabilmente
lui afferma l’«originalità» e l’«inconfondibilità» assolute del soggetto
principale - anzi unico della sua poesia, e cioè il popolo romano.
Se
questo è il suo rapporto con il soggetto principale, anzi unico, della
sua poesia, ne consegue da parte sua un atteggiamento interpretativo e
rappresentativo perfettamente coerente con l’identità popolare, che
dovrebbe da lui essere rappresentata e interpretata. Se quella è
assolutamente unica e sola impressionante! - solo una «verità assoluta»
si rivelerà in grado di rappresentarla e interpretarla veritieramente.
Niente può essere lasciato alla pura invenzione (in questo senso Belli è
anche poco romantico; per scoprirne il segreto e profondo romanticismo,
bisognerebbe cercare altrove).
Infatti, così suonano le dieci parole
di esordio della sua Introduzione: «Io ho deliberato di lasciare un
momento di quello che oggi è la plebe di Roma». Se fosse ancora
necessario, Belli continua di seguito a insistere e a chiarire: «Non
casta, non pia talvolta, sebbene devota e superstiziosa, apparirà la
materia e la forma ma il popolo è questo: e questo io ricopro, non per
proporre un modello ma sì per dare una immagine fedele di cosa già
esistente e, più, abbandonata senza miglioramento» (I. p.11).
Se le
cose stanno così, - e io, naturalmente, non dubito che stiano così - due
domande si pongono. La prima: com’è possibile che l’unico scrittore
italiano nato e vissuto a Roma sia un poeta dialettale? (l’unico? E chi
altri, se no? Metastasio? Nel Novecento la situazione cambia un po’: ma
Moravia è scrittore all’altezza del Belli? E la cubana-parigina De
Cespedes può definirsi stricto sensu una scrittrice romana?). La seconda
domanda: è mai possibile che nel novero dei quindici-venti scrittori
italiani più alti di tutti i tempi un poeta dialettale come Belli occupi
un posto di tanto rilievo?
Queste domande, e le loro eventuali
risposte, sono secondo me decisive per valutare a pieno grandezza e
ruolo di Belli. C’è un enigma da sciogliere nella collocazione storica
di Giuseppe Gioachino Belli, da cui in un certo senso dipende tutto il
resto. Al centro del problema ci sono Roma, la sua (cosiddetta) plebe e
il linguaggio della sua plebe. Roma, dopo milleduecento anni di
dominazione pontificia - una misura incredibile, rara se non unica nel
resto del mondo -, appare come un buco scavato dolorosamente nel fondo
del modo d’essere umano. Belli, potenzialmente un intellettuale
risorgimentale di prim’ordine, ma represso e scagliato anche lui laggiù
in fondo, avrebbe potuto usare l’italiano forbito degli Arcadi e degli
illuministi per descrivere veritieramente e al tempo stesso poeticamente
quest’abisso senza fondo?
Evidentemente no; e perciò sceglie come
suo protagonista la plebe, il veicolo della verità (che Riccardo Merolla
chiamava giustamente "il protagonismo plebeo"), e di quelle plebe
adotta in pieno il linguaggio (il dialetto romanesco, che io preferisco
chiamare romano), che è la forma espressiva esemplare di quella verità e
infatti riflette in ogni sua sfumatura - dal ridicolo al tragico, dal
sudicio all’appassionato - quel mondo.
Torniamo su di un punto già
toccato. A questo Belli giunge semplicemente (semplicemente!) per la
forza trascinante della sua vocazione poetica. Infatti: la verità alla
quale Giuseppe Gioachino senza remore né limiti si ispira, non è una
categoria intellettuale né tanto meno etica: è una legge
fisico-esistenziale, è la forza trascinante non del cervello ma del
corpo quando decide di agire e di farsi sentire, e a cui non si può in
nessun caso sfuggire, ammesso che lo si voglia. Belli non potrebbe esser
più chiaro e definitivo: «la verità è ccom’è la cacarella /Che cquanno
te viè ll’impito e tte scappa /hai tempo, fijja, de serrà la chiappa /E
stòrcete e ttremà ppe rritenella…» ( La Verità II, p. 1993).
Questo è il dogma fondativo dell’intera poesia belliana: questo è il valico per andare ancora di più in profondità.
Dal
documentario all’esistenziale, dalla rappresentazione veritiera al
grandioso. Questo è l’ultimo passaggio. La grandezza di Belli consiste
infatti nel rispettare la verità senza cedimenti di nessuna natura: ma
consiste al tempo stesso nel non limitarsi a fissare ossessivamente un
aspetto particolare della condizione umana (anche se c’è anche questo,
come abbiamo detto più volte). Va al di là di questo: scopre, e ci fa
scoprire, che si tratta invece di un aspetto universale della condizione
umana, lì celato, e da lui riscoperto, al quale comunque, quale che ne
siano le premesse esistenziali, nessuno può sfuggire. In conclusione:
tra i grandi scrittori italiani Belli è inequivocabilmente quello che va
più a fondo nel rappresentare la irrimediabile sconfitta dell’uomo di
fronte al proprio destino (anche il grande, grandissimo Dante, così
esperto nel rappresentare i mali dell’uomo, ha tuttavia in serbo una
riserva finale, quella teologica, e dunque la sempre possibile
salvazione, che Belli ha ab imis e per sempre cancellato).
Due sono
le condizioni negative irrimediabili della vita umana: la feroce
disuguaglianza, come permea il modo stesso d’essere dell’uomo e lo
strizza fino in fondo ( Li dù ggener’umani III, p. 2603); e, ancor più
radicalmente, la vita umana in sé, che non lascia scampo alcuno a chi la
vive e si trasforma inevitabilmente in una condanna ( La vita dell’Omo;
II, p.
1749). Come avrebbe potuto Belli arrivare a queste ultime,
fulminanti conclusioni, se non si fosse spinto anche lui nel fondo
dell’abisso?