Repubblica 3.11.18
Lo studio dello psichiatra Boris Cyrulnik
Le zone del cervello in cui ha sede lo spirito religioso
di Massimo Ammaniti
È ben noto che la fede religiosa e la spiritualità aiutano lo stato psichico delle persone che soffrono di depressione e addirittura potrebbero rallentare l’evoluzione dei tumori. Non si tratta di un’ipotesi, la conferma sperimentale viene da una ricerca pubblicata dalla rivista Cancer su un ampio campione di pazienti che presentavano un tumore. Non è ancora chiaro, tuttavia, come la fede possa influire sull’evoluzione dei tumori, se aiuti a cambiare l’attitudine psicologica con cui si affronta la malattia oppure influisca sul funzionamento neurobiologico e immunitario potenziando le difese.
È un tema appassionante approfondito da Boris Cyrulnik, psichiatra francese di origine ebraica, sopravvissuto nella sua infanzia alle persecuzioni naziste.
Il libro Psicoterapia di Dio (Bollati Boringhieri) esplora in vari capitoli l’influenza crescente delle religioni nel mondo occidentale. E questa religiosità riguarda i cristiani, gli ebrei e i musulmani che vivono un’esperienza totalizzante che incide sulle pratiche della vita quotidiana e sulla loro visione del mondo. E mentre la religione ha le proprie cerimonie di culto, la spiritualità indica spesso un vissuto e un viaggio interiore che non necessita di una pratica religiosa.
E se tutto questo aiuta a trascendere le sofferenze della vita quotidiana e raggiungere uno stato di pacificazione personale, la fede troppo esclusiva può anche generare intolleranze, violenze e addirittura guerre che hanno segnato la storia dell’umanità.
L’adesione e l’appartenenza alla religione si costruisce giorno per giorno fin dall’infanzia, come il linguaggio, scrive Cyrulnik. Infatti attraverso l’esempio e le sollecitazioni dei genitori i bambini introiettano la fede che diventa parte integrante della loro identità. Nel film di Woody Allen Crimini e misfatti il protagonista, che appartiene a una famiglia ebraica praticante, racconta che da piccolo i genitori gli ripetevano «Dio ti guarda continuamente qualsiasi cosa fai»: «Forse per questo — commenta ironicamente — sono diventato oculista».
Il sentimento religioso si intreccia fin dall’inizio con l’attaccamento amoroso ai genitori e aiuta a sentirsi più sicuri. Quando si devono affrontare compiti impegnativi oppure si è vittime di traumi e avversità, ci si rivolge a Dio con la speranza che il suo intervento possa essere risolutivo. E anche quando ci si sente soli e disperati la relazione affettiva con Dio può essere consolatoria, aiutando a ritrovare la propria sicurezza personale.
Ma il sentimento religioso non riguarda solo la mente, anche il corpo ne viene coinvolto. Nelle pratiche religiose i fedeli si inginocchiano e si stendono a terra, si battono il petto, si muovono ritmicamente col corpo quasi a rafforzare con un coinvolgimento totale la propria partecipazione religiosa. Lo stesso cervello viene chiamato in causa quando ci si rivolge alla religione, soprattutto quando si raggiungono esperienze di ascesi e di estasi, nelle quali ci si libera del corpo e ci si avvicina a Dio.
Forse nel libro non viene abbastanza approfondito il coinvolgimento del cervello nel vissuto religioso, nonostante negli ultimi anni siano stati pubblicati interessanti studi. Fra questi una ricerca italiana che ha documentato quali aree cerebrali vengono attivate quando ci si immerge nella meditazione e si entra in un mondo trascendente, nel quale si perde il senso del tempo e si raggiunge una fusione ideale. Non sarebbe una singola area cerebrale che spiegherebbe la spiritualità, interverrebbero ampie aree cerebrali che interagiscono fra loro, dalla corteccia frontale a quella parietale e temporale. Il pregio maggiore del libro consiste nell’affrontare i significati dell’esperienza religiosa con spirito critico, ma anche profondamente rispettoso, anche perché le religioni stanno assumendo una rilevanza sempre più grande nel mondo contemporaneo.
Corriere 3.11.18
La Lega vola oltre il 34%
Salgono ancora i consensi per la Lega: adesso arrivano al 34,7%. Cala il M5S, soprattutto al Nord, e il 16% dei consensi perduti finisce proprio al partito di Salvini
Sondaggio cala il pd, risale Forza Italia
di Nando Pagnoncelli
Salgono ancora i consensi per la Lega: adesso arrivano al 34,7%. Cala il M5S, soprattutto al Nord, e il 16% dei consensi perduti finisce proprio al partito di Salvini. Sono questi le indicazioni del nuovo sondaggio Ipsos. Resta stabile il consenso per il governo giallo-verde, il più alto degli ultimi sei esecutivi, a parità di periodo di tempo. Anche se diminuisce, da 60 a 58, quello per il premier Giuseppe Conte. Il Pd si attesta sul 16,5%, in leggero calo, e Forza Italia all’8,7%, in salita. Il centrodestra va al 46,5%, il centrosinistra si colloca al di sotto del 20%.
Il consueto aggiornamento mensile dello scenario politico fa registrare la sostanziale tenuta del governo: infatti, come un mese fa, il 57% degli italiani esprime un giudizio positivo sull’esecutivo, mentre le valutazioni negative aumentano di poco (da 32% a 33%) e l’indice di gradimento flette di un punto, passando da 64 a 63.
Il consenso per il presidente Conte diminuisce di due punti passando dal 60% al 58%, i critici aumentano di 3 punti (da 30% a 33%), l’indice di gradimento passa da 67 a 64 e si mantiene più elevato rispetto a quello dei vicepremier Salvini (58) e Di Maio (51), riportato la scorsa settimana in questa rubrica.
Cinque mesi dopo l’insediamento l’apprezzamento per il governo si attesta sul livello più elevato degli ultimi 6 esecutivi a parità di periodo, seguito dai governi Letta (60), Renzi (56) e Berlusconi (53), mentre il premier si colloca al secondo posto preceduto da Renzi (70) ed ottenendo lo stesso indice di Enrico Letta (64), di due punti superiore a quello di Monti (62).
La maggioranza
La stabilità dei giudizi sull’esecutivo desta sorpresa, tenuto conto delle forti tensioni emerse nell’ultimo mese all’interno della maggioranza e delle notevoli differenze tra gli elettorati di Lega e M5S, in termini di profilo, di aree territoriali e di domande che esprimono. Ed in effetti, se si guarda alle esperienze del passato, all’indebolimento della coesione della maggioranza i governi iniziavano a perdere consensi, com’è accaduto ad esempio con gli esecutivi guidati da Prodi e Berlusconi.
Il governo Conte per il momento sembra pagare poco pegno: infatti le difficoltà emerse tra le due forze della maggioranza si riflettono più sulla fiducia nei leader dei partiti e nelle intenzioni di voto che nel consenso per l’esecutivo, la cui caratteristica principale è quella di essere basato più su un contratto che su un’alleanza, più su un impegno reciproco che su una piena consonanza valoriale. Insomma, è una sorta di «matrimonio di convenienza». Ne consegue che la maggior parte degli elettori leghisti e pentastellati ha interiorizzato il compromesso che sta alla base del contratto e per il momento è disposto ad accettare provvedimenti non graditi pur di ottenere quelli sostenuti dalla propria parte politica.
Gli orientamenti
Tutto ciò sembra quindi avere più riflessi sugli orientamenti di voto: a distanza di un mese si evidenzia la crescita della Lega che raggiunge il valore più elevato di sempre (34,7%), seguita dal M5s, stabile al 28,7% (+0,2%), quindi dal Pd con il 16,5% (-0,6%) e Forza Italia con l’8,7% (+0,9%). Più staccati in graduatoria si collocano, entrambi al 2,7%, + Europa, stabile sui risultati del 4 marzo, e Fratelli d’Italia, in flessione rispetto alle Politiche, quindi Leu al 2,1%. Rispetto alle elezioni politiche il centrodestra passa dal 37% al 46,5%, superando abbondantemente la «soglia implicita» del 40% che garantirebbe la maggioranza, il centrosinistra si colloca al di sotto del 20% (-3%) e il M5S arretra di 4 punti .
La Lega può contare su un elettorato molto fedele — l’85% di coloro che hanno l’hanno votata alle Politiche confermerebbe il proprio voto — e su una straordinaria capacità di attrarre nuovi elettori: basti pensare che oltre la metà (54%) di coloro che oggi la voterebbero, non votarono il partito di Salvini lo scorso 4 marzo e provengono per il 16% dal M5S, per il 16% dall’astensione, per il 12% da Forza Italia, per il 4% da un altro partito di centrodestra e per il 3% dal Pd. Rispetto a un mese fa la Lega si conferma nelle regioni del Nord, superando abbondantemente il 40%, e del Centro nord (32,5%), mentre si rafforza ulteriormente nelle regioni meridionali, incontrando il favore di un quarto degli elettori.
Il M5S si attesta nettamente al primo posto nelle regioni del Centro e del Sud (mentre subisce un significativo calo nelle regioni del Nord e del Centro) e rispetto alle Politiche evidenzia una fedeltà di voto da parte di due elettori su tre e una più debole — ma tutt’altro che trascurabile — capacità di attrazione di nuovi elettori (quasi uno su cinque).
La crisi della sinistra
Il Pd soffre non solo nelle regioni meridionali, dove si colloca tra il 12% e il 13%, e nel Nord est (13,6%), ma anche nelle tradizionali zone di insediamento (Emilia-Romagna, Toscana, Marche e Umbria), dove si colloca al terzo posto, sopravanzato dalla Lega e dal M5S.
Infine Forza Italia, che subisce una contrazione significativa di consenso, potendo contare su una modesta fedeltà di voto (solo 49% confermerebbe il proprio voto al partito di Berlusconi, mentre il 27% voterebbe Lega e il 18% si asterrebbe) e fatica ad attrarre nuovi elettori, arretrando sia nel Nord ovest sia nel Meridione.
Insomma, lo scenario attuale fa segnare cambiamenti profondi rispetto alle politiche, ma sarebbe illusorio pensare che si possa mantenere inalterato fino alle Europee del 26 maggio. In mezzo ci saranno le elezioni regionali in Basilicata, Abruzzo e Sardegna che potranno rappresentare un importante indice di salute dei partiti e dei loro leader.
il manifesto 3.11.18
L’abbraccio tra sinistra progressista e sovranismo xenofobo
Sovranismi. La questione nazionale è sempre stata causa di conflitti interni e scissioni politiche nel mondo della sinistra. E’ accaduto con (e dopo) la Prima guerra mondiale
di Riccardo Petrella
Fra i numerosi segni della crisi strutturale di valori identitari della sinistra progressista v’è il suo ( nuovo) ripiego sulla sponda del sovranismo nazionalista. Lungi dall’essere salvatore sul piano dell’esistenza politica, esso si traduce in un abbraccio mortale.
Lo stato sovrano nazionale nel contesto di una economia capitalista è stato raramente un vettore di ” liberazione del popolo ” e dei “popoli”. Molto più sovente “il popolo sovrano” (a partire d al XIX secolo), è stato imprigionato dalla borghesia “nazionale” per costruire il “proprio Stato” ed assicurarsi la “propria sovranità” in lotta e competizione con le altre borghesie anch’esse definitesi “nazionali” .
La questione “nazionale ” e della sovranità nazionale è stata sempre causa di conflitti interni e di scissioni politico-ideologiche e culturali in seno al mondo della sinistra. Sui temi chiave ad essa collegati – la guerra o la pace, lo straniero o l’ospitalità e la solidarietà tra le persone e le comunità umane –, si è giocata, male, l’esistenza e la coesione del mondo dei socialisti e dei comunisti. Ciò è accaduto tragicamente a proposito della prima guerra mondiale e, dopo, nella nascita e ed affermazione del nazismo e del fascismo.
Ed è quel che sta accadendo oggi. Si pensi ai disastri in corso in Europa operati nel nome della nazione, della sua sovranità e sicurezza, contro i diritti umani, la giustizia sociale e la democrazia. In particolare contro gli immigrati nell’Italia di Minniti e Salvini, o negli Stati Uniti di Trump o nell’Austria di Kurz e l’Ungheria di Orban. Asservimenti espliciti agli interessi delle imprese private capitaliste globali multi-nazionali verso cui ha condotto in questi anni la deriva nazionalista e sovranista della sinistra. Le imprese capitalistiche globali se ne infischiano apertamente della sovranità nazionale e della sicurezza del popolo e dei popoli. In questi mesi ne hanno dato una prova evidente riuscendo ad impedire l’interdizione dell’uso del glifosato e, il 23 ottobre a non far approvare dal Parlamento europeo l’imposizione di tolleranza zero dei Pfas nell’acqua. In ambo i casi, ci sono riuscite grazie all’alleanza “nazionalista ” tra le forze “sovraniste” di destra e di sinistra.
Non soprende, dunque, l’affermazione (25 ottobre) di Melanchon in Francia di essere alleato a Salvini e Di Maio contro l’Ue, né la tendenza sempre più chiara anche da parte della Linke in Germania di riprendere temi e proposte cari alla «nuova» destra tedesca nel tentativo di arrestare il travaso dei voti verso la destra xenofoba nazista.
Il caso della sinistra progressista in Catalogna ed in Spagna è molto significativo. Nella logica dell’ identità nazionale le forze di sinistra si trovano in una lotta “finale” per la “sovranità”. Non per lottare insieme per i diritti dei cittadini dei loro “popoli” contro lo schiacciante e potente esproprio dei diritti e dei poteri demo-cratici operato dai grandi gruppi economici e finanziari privati (e pubblici) catalani e spagnoli, ma per lottare le une contro le altre restando sottomesse agli interessi dei poteri economici forti privati in Catalogna o in Spagna.
Da un lato coloro che si battono per un’Europa democratica (rappresentativa e partecipata) federale sovranazionale al servizio di una società europea fondata sull’uguaglianza e, dall’altro, coloro che difendono un’Europa interstatuale arroccata sulle sovranità nazionali e su un’economia capitalista fondata sull’appropriazione privata delle risorse esistenti al servizio della massimizzazione del rendimento del capitale disponibile. Invece nell’opinione pubblica europea passa il messaggio che la lotta politica per il divenire dell’Europa è principalmente attorno all’opposizione tra gli europeisti difensori dell’Europa attuale e gli anti-europeisti difensori della sovranità delle nazioni europee contro le oligarchie tecnoburocatiche dell’Ue. Si tratta di una tesi che conviene sia ai gruppi sociali dominanti che hanno costruito e governano l’attuale Europa, sia ai gruppi sociali nazionalisti, xenofobi, anti-democratici e pro-capitalisti tipo Afd in Germania o Lega e parte di M5S in Italia.
L’abbraccio della sinistra riformista moderata all’economia capitalista di mercato nella convinzione di poterlo «umanizzare» le fu letale. Nel contesto attuale, l’abbraccio della sinistra progressista radicale alle sirene del sovranismo nazionalista xenofobo nella speranza di non divenire irrilevante sulla scena politica è un abbraccio mortale.
La Stampa 3.11.18
Se Mélenchon sdogana la violenza e spinge la sinistra francese alla ribellione
In una democrazia ci sono pochi gesti più violenti della minaccia di colpire un poliziotto
di Bernard-Henri Levy
È già da un po’ che Jean-Luc Mélenchon offre un brutto spettacolo.
Quel suo essere estremista, quel suo ruolo di perdente senza lustro.
I colpi al di sotto della cintura contro Macron, l’Olanda, Valls, e altri.
La strana contiguità con l’estrema destra lepenista su temi molto sensibili come il dégagisme (neologismo, significa cacciare chi ha il potere senza necessariamente sostituirlo, ndr) e i migranti.
Gli insulti al Crif (Conseil Représentatif des Institutions Juives de France).
Il processo, stile Trump, e con una fissazione su Radio France, ai giornalisti e ai media ai quali a quanto pare non perdona di aver tardato a riconoscerlo.
O l’imbarazzante trasmissione politica durante la quale, alcuni mesi fa, ha cercato di umiliare due donne, Laurence Debray e Nathalie Saint-Cricq, colpevoli di avergli chiesto, con un’insistenza che considerava sospetta, del suo tropismo venezuelano.
Questo Mélenchon non era più «populista». Era odioso. Sessista. Servile con i potenti (Putin, Assad). Implacabile con le vittime (i democratici ucraini, i civili massacrati, i tibetani). Beffardo con «la gente», come a dire il servidorame, che non gli piace (ancora la settimana scorsa, questa giornalista di France 3 di cui scimmiottava stupidamente l’accento meridionale). Tutto questo su uno strano piccolo ritornello che, combinando l’appello al popolo con il culto della personalità, ricorda quell’antica conoscenza dell’ideologia francese nota come Boulangismo.
Contro l’ufficiale di polizia
Tuttavia, con la reazione alle perquisizioni richieste dall’indagine sui suoi resoconti elettorali e su possibili impieghi fittizi, ha appena raggiunto un nuovo stadio della sua inquietante metamorfosi.
Come per Michel Onfray la scorsa settimana, bisogna vedere per credere.
Bisogna vederlo, su Youtube, mentre con uno sparuto drappello di seguaci infuriati, cerca, vero ariete umano, di sfondare la porta dei propri uffici.
Bisogna vederlo, gli occhi strabuzzati, l’indice levato, mentre minaccia un imperturbabile ufficiale di polizia e poi un procuratore della Repubblica, che mostra un impeccabile sangue freddo.
Bisogna vederlo mentre gli si fa addosso, quasi bocca a bocca, urlando, sputacchiando, cercando la rissa e, non trovandola, mettendosi poi a urlare ancora più forte, schiumante di rabbia.
Bisogna vedere tra la ressa, la confusione dei tavoli ribaltati e i suoi che strillano «colpiscilo, colpiscilo, colpiscilo», l’arrivo di un luogotenente che commenta: «Vi avevo detto che era violento» a proposito di un altro poliziotto che, gettato a terra, conserva un ammirevole autocontrollo.
«La Repubblica sono io», esclama questa nuova Marianne in versione maschile. «La mia persona è sacra», geme a un tratto, come in una rissa tra ubriachi.
E la scena sarebbe ridicola se non fosse per quello sguardo folle, quella voce spessa e sgangherata, quel tratto «tenetemi o faccio un macello», che rivelano il vero, orribile volto dell’anima.
Il via libera alla forza
I più onesti tra i «Ribelli» potranno sempre preoccuparsi per quello che è successo.
Potranno, come Alexis Corbiere, al programma di Cyril Hanouna, cercare di fare l’agnellino e dissolvere questa sequenza raggelante nella melassa di scuse vaghe e, volendo, sincere.
Qualcosa è successo.
Qualcosa è stato liberato, sulla scena politica francese, che autorizza, d’ora in poi, il ricorso alla violenza, alle discussioni muscolari, alla forza.
E non è facile capire, ad esempio, cosa si potrà ancora obiettare all’autentico delinquente che, domani, in qualche periferia difficile, si concederà il gesto di Mélenchon e della sua sciarpa tricolore per colpire davvero un rappresentante della legge.
La verità è che in una democrazia ci sono pochi gesti più essenzialmente violenti dell’atto o della minaccia di colpire un pubblico ministero, un poliziotto o qualsiasi altro esponente dell’autorità repubblicana.
La verità, più esattamente, è che non ci vuole molto perché un volto diventi un muso, perché la parola ceda il passo alle escandescenze e poi all’aggressione. E basta questo «non molto» perché, se si trova seguito, si passi dalla serietà dei poteri separati e distribuiti, dall’equità delle procedure imposte ai potenti così come agli altri, in breve, dal regno assoluto della legge, all’odio, alla rabbia, ai gruppuscoli e alle fazioni armati non già di pensieri alati, ma di pugni e zanne.
È lo stesso tragitto che abbiamo visto percorrere, negli Anni 30, a un comunista di nome Doriot, sindaco di Saint-Denis; anch’egli mostrava tutto il suo disprezzo per le istituzioni e le leggi.
È lo stesso percorso raccontato dai libri di Maurice Barrès, dove altri «ribelli», alla vigilia della Prima guerra mondiale, passano da Sorel a Maurras e dall’estrema sinistra all’estrema destra.
Bene, il signor Mélenchon è esattamente a questo punto.
Lo avevamo lasciato seguace di Robespierre - lo troviamo emulo di Doriot.
Voleva essere un sans-culotte - ma si ritrova nello spirito delle Leghe.
Lui, il capo, lo sa. Conosce troppo bene la storia della Francia per ignorare le strade che sta per prendere. Ma eccolo qui. È stufo. Forse non è nemmeno così arrabbiato come pretende di essere, pensa solo che ci sia troppo da aspettare. «Non saranno certo - dice testualmente - giudici, poliziotti e politici perdenti che ci obbligheranno a vivere diversamente». Dobbiamo intendere: «Ho atteso troppo i favori dei Mitterand, degli Hollande, dei Jospin, di quei vecchi anziani che mi lodavano e quindi mi metto in proprio».
Sì, è giunto il momento, pensa. E si frega le mani. Anche se sappiamo che quest’ora non sarà la sua, ma quella dei distruttori della Repubblica.
Traduzione di Carla Reschia
Il Fatto 3.11.18
Il governo m5s-lega e il barbiere di Lenin
di Piergiorgio Odifreddi
Secondo Silvio Berlusconi, il governo gialloverde è “il più sbilanciato a sinistra della storia del Paese”. Poiché però il leader di Forza Italia è notoriamente ossessionato dai comunisti, che secondo lui sono insediati in ogni luogo e responsabili di ogni male, la sua opinione non va presa troppo seriamente. Ma può fornire lo spunto per ricercare analogie tra ciò che è successo a Palazzo Chigi dopo il 1° giugno 2018, con il governo del cambiamento italiano, e ciò che è accaduto allo Smolnij e al Cremlino dopo il 7 novembre 1917, con il governo rivoluzionario russo.
Lasciando da parte le opinioni ideologiche, grillo-leghiste da un lato e marxiste-leniniste dall’altro, concentriamoci sui fatti concreti, a cominciare dall’atteggiamento pauperista e semiascetico che i partiti pentastellato e bolscevico hanno imposto ai propri vertici e proposto ai propri militanti. Ad esempio, gli scontrini dei rimborsi spese dei parlamentari 5S della scorsa legislatura e i viaggi in economy dei nuovi ministri richiamano lo stile di vita modesto adottato da Lenin, che si accontentava di vivere insieme alla moglie e alla sorella in quattro sole stanze al Cremlino, e attendeva pazientemente in coda il proprio turno per passare dal barbiere. Anche l’astio verso i tecnici e il sospetto nei confronti delle loro “manine”, uniti alle minacce e alle promesse di epurazione politica nei ministeri, trovano un’antecedente molto più drastico e radicale nell’esecuzione degli alti comandi zaristi e nel licenziamento degli ufficiali dell’esercito, che furono sostituiti da una nuova gerarchia tratta dalle truppe rivoluzionarie, di scarsa preparazione ed esperienza militare, ma di fidata fede bolscevica. Quanto alla rimozione del pessimismo dei fatti e alla sua sostituzione con l’ottimismo della volontà, sintetizzate nel rifiuto del nuovo governo grillo-leghista di farsi condizionare dai mercati e dai trattati europei, e nel proposito di abolire la povertà per decreto, impallidiscono di fronte all’analogo rifiuto del nuovo governo bolscevico di farsi condizionare dalla situazione bellica al fronte e dai trattati internazionali, e al proposito di uscire unilateralmente dalla guerra con il decreto sulla Pace, approvato già l’8 novembre 1917.
In fondo non è sorprendente trovare simili analogie, in governi che si propongono programmaticamente di apportare cambiamenti radicali nello status quo del proprio Paese, e quelli fatti non sono che esempi paradigmatici delle novità da introdurre nel comportamento individuale dei nuovi leader, nell’organizzazione interna del nuovo Stato e nelle relazioni esterne con i Paesi stranieri. Novità che devono essere introdotte, per mantenere le promesse di cambiamento, ma che non necessariamente si possono introdurre.
Al proposito, la storia sovietica lascia poche illusioni al riguardo. Ad esempio, fare la fila dal barbiere poteva essere naturale per un politico disoccupato in esilio, ma diventava velleitario e sciocco per un capo di governo occupato a condurre una Guerra civile che impegnava tutto il suo tempo e richiedeva tutte le sue energie. Infatti, poco dopo Lenin capì che era meglio fare meno gesti simbolici, ma meglio il proprio lavoro. Anche aggirare e rimuovere i tecnici nell’esercito non si rivelò essere una grande idea, visti i risultati ottenuti al fronte. Infatti, durante la Guerra civile non si poterono risuscitare gli alti comandi zaristi fucilati, ma si dovettero reintegrare di corsa gli ufficiali rimossi, pur mettendo al loro fianco dei commissari del popolo a controllare le loro “ditine” posate sui grilletti. Perché con i dilettanti si stava perdendo la guerra, mentre per vincerla servirono i professionisti. Quanto ai condizionamenti esterni, si possono anche rimuovere nella propria testa, ma non per questo essi svaniscono miracolosamente.
Il decreto della Pace portò in poche settimane a un ultimatum tedesco e alla capitolazione di Brest-Litovsk, con la perdita di un terzo dell’impero russo: a sconfiggere in seguito la Germania non fu certo l’unilateralismo sovietico, ma l’azione comune degli Alleati.
I sovietici impararono presto la lezione che i proclami utopici e le azioni dimostrative sono malattie infantili del cambiamento, e li sostituirono con un realismo e un pragmatismo che permisero loro di sopravvivere per settant’anni, tanti quanti la nostra Repubblica.
Se il governo giallo-verde vuole provocare un cambiamento serio e desidera durare a lungo, dovrà imparare anch’esso presto la stessa lezione e vaccinarsi velocemente contro le stesse malattie infantili.
il manifesto 3.11.18
Migranti spediti in Slovenia, denunciate infrazioni dei diritti umani al confine
Immigrazione. Un reportage descrive operazioni illecite condotte dalla polizia di frontiera al valico di Fernetti. La questura di Trieste con una nota nega le irregolarità
di Shendi Veli
Un sistema di respingimenti a catena che dal confine orientale italiano riporta i migranti fino alla Bosnia-Erzegovina, fuori dal territorio dell’Unione europea. Sono due richiedenti asilo pakistani a raccontarlo dopo essere riusciti, in un secondo tentativo, a rientrare in Italia.
MA LO CONFERMANO anche il presidente dell’Ics (Consorzio Italiano Solidarietà) e le testimonianze di alcuni residenti delle zone di frontiera. Il reportage pubblicato ieri su La Stampa rivela una condotta delle autorità italiane, in combinazione con quelle slovene e croate, che se fosse confermata sarebbe molto grave. Se infatti gli abusi della polizia francese nei valichi occidentali sono ormai noti, le forze dell’ordine italiane non sarebbero da meno.
SOTTO ACCUSA LA POLIZIA di frontiera di Fernetti, ultimo presidio friulano, a 12 chilometri da Trieste e a poche centinaia di metri dal confine sloveno. I MIGRANTI INTERVISTATI raccontano di essere stati prelevati dagli agenti in territorio italiano, portati in caserma e trattenuti per l’identificazione. In quel frangente avrebbero dovuto compilare anche le richieste di protezione umanitaria ma questa opportunità non è mai arrivata. Dopo diverse ore di fermo infatti, sarebbero stati caricati su delle camionette di ordinanza e scaricati dopo una ventina di minuti, dove inizia la giurisdizione slovena. La Slovenia, paese membro della Comunità europea , dovrebbe garantire il diritto di asilo. Ma una volta lasciati dentro i confini del paese balcanico i migranti dichiarano di essere stati oggetto di un ulteriore trasferimento, stavolta verso la Croazia. Qui avrebbero subito anche le violenze della polizia croata durante l’ennesimo spostamento che li avrebbe riportati ancora indietro.
UN VIAGGIO A RITROSO gestito illegalmente dalle autorità di tre paesi europei che si conclude nei boschi al confine con la Bosnia Erzegovina, primo paese non comunitario dell’area. Il meccanismo raccontato dai testimoni infrange le disposizioni di legge italiane ed europee sull’immigrazione e diritti umani, impedendo di fatto anche a chi ne avrebbe diritto di presentare la richiesta di asilo politico.
«IL TRASFERIMENTO dei migranti, rintracciati irregolarmente sul territorio italiano presso i valichi di frontiera, è effettuato nel rispetto della procedura di riammissione prevista nell’accordo bilaterale firmato dalle autorità italiane e slovene» cosi si è espressa in merito alla vicenda la questura di Trieste.
Nella nota si precisa anche che la Polizia di Frontiera di Fernetti rimanda indietro soltanto le persone che dichiarano di non voler presentare domanda di asilo in Italia. I dubbi tuttavia restano, rafforzati dai recenti sviluppi della politica locale, dove la Lega che governa la regione ha dichiarato di voler impiegare anche il Corpo Forestale nel monitoraggio dei confini italiani.
EPPURE GLI ARRIVI IN ITALIA sono in diminuzione. Lo conferma il report dell’Oim reso pubblico ieri. Si registra invece un aumento record di sbarchi in Spagna nel 2018. Il picco è stato raggiunto proprio nel mese di Ottobre con oltre 10mila ingressi.
Durante tutto l’arco dell’anno hanno raggiunto le coste iberiche quasi 50mila persone in fuga. Quasi la metà degli di tutti gli sbarchi in Europa. Un numero equivalente a quello che il paese aveva accolto in tre anni, dal 2015 al 2017. Sono invece 1.987 le persone morte in mare dall’inizio dell’anno, di cui i due terzi nel tratto di Mediterraneo tra il nord Africa e le coste siciliane.
La Stampa 3.11.18
Il caso dei migranti riportati in Slovenia
La polizia: “Agiamo seguendo le regole”
La Questura di Trieste: sono riammissioni previste dalle norme Ue. Ma è giallo sui respingimenti a catena
di Francesco Grignetti
«Nessun respingimento irregolare alla frontiera con la Slovenia», giura il questore di Trieste. «Tutto viene fatto secondo le regole». È comprensibile infatti lo smarrimento del povero disgraziato che dopo settimane di marcia nei boschi di Slovenia e Croazia, si butta tra le braccia di un poliziotto italiano pensando di avercela fatta. Ma non è così perché c’è l’impersonale, algido, fors’anche crudele accordo di Schengen che stabilisce la sua sorte.
Ebbene, Schengen dice che se un irregolare è individuato in una «fascia frontaliera» e nella presunta «immediatezza» dell’ingresso, può essere riaccompagnato oltre frontiera e affidato alla polizia dell’altra parte. È una procedura che si chiama «riammissione» e sostituisce il vecchio «respingimento» di quando esistevano le frontiere. Abolite appunto grazie a Schengen.
È quanto accade quotidianamente al confine con la Slovenia, come anche con l’Austria e la Francia. A regolare queste «riammissioni» ci sono alcune circolari della Ue che fissano lo spazio e il tempo: per fascia frontaliera s’intende un corridoio di 150 metri da una parte e dell’altra della linea di confine, per fascia temporale s’intende un massimo di 2 ore. C’è poi un accordo bilaterale italo-sloveno firmato a Roma il 3 settembre 1996, entrato in vigore dal 1° settembre 1997, più estensivo quanto a territorio e orari. Secondo quest’accordo, può essere «riammesso» (e succede ormai massicciamente da quando si sono intensificati gli arrivi dalla rotta balcanica e ci sono molte più pattuglie a controllare il confine, comprese la guardie forestali mobilitate dal governatore Massimiliano Fedriga) chi non ha richiesto l’asilo politico.
Il database nazionale
In ogni caso, dato che la polizia slovena non è felice di riprendersi i clandestini, l’intera procedura viene documentata (e secondo la questura ciò avviene alla presenza di interpreti, ma chissà se questo avviene davvero a ogni ora del giorno e della notte) per essere poi condivisa con i colleghi d’oltre frontiera. Agli stranieri vengono prese le impronte digitali, che si confrontano con il database nazionale e quello cosiddetto Eurodac per verificare se la persona non sia stata già fotosegnalata in Slovenia, Croazia o Grecia. Nel secondo caso, la procedura è più lunga e complessa. E se mai nessun poliziotto di altri Paesi li ha identificati, paradossalmente la procedura è più spiccia. I minori stranieri non vengono riammessi, ma affidati ad apposite strutture di accoglienza italiane, e così le persone particolarmente malate.
Diverso ancora è il caso di chi è sbarcato in uno hotspot in Grecia. Oppure di chi ha presentato domanda di asilo politico in un Paese della Ue e poi si presenta alla nostra frontiera: una selva di situazioni giuridiche diverse che agli occhi del migrante, proveniente da Paesi immensamente lontani, rappresenta un’incomprensibile roulette russa. E che magari interpreta come il capriccio del poliziotto che ha davanti. Tocca comunque agli sloveni accettarli. Perciò gli italiani devono documentare con scontrini, biglietti di treno, qualsiasi prova, l’immediatezza dell’ingresso in Italia. Quindi, se arriva il via libera, rigorosamente entro le ore 16 perché dopo gli sloveni non ci stanno, gli stranieri vengono consegnati «esclusivamente con mezzi con i colori d’istituto della Polizia di Stato» presso la stazione di polizia Krvavi Potoc (Pesek).
Le accuse contro Zagabria
Quel che accade da quel momento, lo sanno solo gli sloveni ma è immaginabile che abbiano accordi diretti con la polizia croata. E nessuno dubita che sia un circuito infernale per il disgraziato che vi finisce dentro. Pochissimi sono i diritti riconosciuti ai migranti, specie da parte croata. L’ultimo Rapporto di Amnesty International ci ricorda che «la Croazia ha continuato a rimandare in Serbia rifugiati e migranti entrati nel Paese irregolarmente, senza garantire loro l’accesso a un’effettiva procedura per la determinazione del diritto d’asilo. Durante i respingimenti, talvolta anche dall’interno del territorio croato, la polizia è ricorsa regolarmente a coercizione, intimidazione, confisca o distruzione di oggetti personali di valore e uso sproporzionato della forza».
La Stampa 3.11.18
“Respinti dopo una notte in questura
Non abbiamo potuto chiedere asilo”
“La polizia ci ha scaricato in Slovenia con in furgone”
Almeno altri venti casi simili. L’Italia viola il regolamento di Dublino
di Francesco Grignetti
Eppure, eccone un altro. Un altro ancora. Questa è la sua voce, tradotta da un interprete parola per parola: «Era metà giugno. Camminavamo sul lungomare di Trieste. Il trafficante ci aveva scaricati pochi minuti prima. Avevamo viaggiato dalla Bosnia tutti in piedi, pigiati stretti, in 36 dentro il cassone di un camion. Tre di noi erano svenuti durante il viaggio. Ma in Italia avevamo bevuto l’acqua, stavamo bene, la gente faceva il bagno e noi ci sentivamo felici. Eravamo arrivati. Quando abbiamo visto tre auto della polizia, abbiamo pensato di essere salvi. Due miei amici erano già saliti sul pullman numero 6, ma sono scesi per andare incontro agli agenti».
Anche Mohammad M., 22 anni, contadino partito dal Pakistan, testimonia la stesso trattamento denunciato da altri migranti sulle pagine di questo giornale. Anche lui, appena arrivato in Italia, sta per essere caricato su un pullman della polizia: una camionetta azzurra con i lampeggianti. Anche lui sta per essere scaricato in Slovenia. Anche lui, nel giro di tre giorni si troverà sul limitare di un bosco, al confine con la Bosnia, con i poliziotti croati che gli indicano la strada non troppo benevolmente: «Mi hanno preso il telefonino, un Huawei P8. Dentro c’erano tutti i miei ricordi. Però non sono stato picchiato, io no». Era di nuovo al punto di partenza.
La notte in questura
Ma prima di arrivarci, quello che conta adesso è il racconto del giorno passato in questura a Trieste. Eccolo: «Ci chiamavano a turno. Mi hanno preso le impronte. Mi hanno fatto la fotografia. C’era l’interprete. A lui ho dichiarato che volevo chiedere asilo politico in Italia. Nessuno aveva mai preso prima le mie impronte digitali, nessun poliziotto mi aveva fermato. L’Italia è il primo posto in Europa su cui io ho appoggiato i miei piedi». Ecco perché è difficile capire quello che segue: «I primi quindici fra noi sono riusciti a fare la domanda e sono rimasti, io e tutti gli altri invece no. Abbiamo dormito nell’androne della questura. La mattina dopo è arrivato il furgone della polizia. Il viaggio è durato venti muniti. Gli agenti italiani ci hanno portato dall’altra parte della frontiera».
Definire «riammissione» questa pratica non si può. La riammissione si può fare solo nel caso in cui ci sia un passaggio certificato dello stesso richiedente asilo in un altro Paese dell’Unione Europea. Il fatto stesso che Mohammad M. ne possa parlare oggi qui, a Trieste, dove è tornato ed è in attesa che venga esaminata la sua domanda d’asilo ne è la prova. Se non poteva stare in Italia la prima volta, perché adesso al secondo tentativo è regolarmente qui?
«Anche i poliziotti sloveni ci hanno preso le impronte digitali, poi ci hanno scaricato in Croazia. Il viaggio di ritorno è durato meno di tre giorni. Tutto di fila». Così, anche Mohammed M., assieme ai suoi compagni, è stato respinto ed espulso dall’Europa. «Ero disperato. Avevo pagato 2200 euro al trafficante. Tutti soldi che mi hanno spedito i miei parenti, mio padre ha dovuto vendere un terreno per farmi arrivare in Italia».
“Sarebbe dovuto restare”
Ci sono almeno venti casi analoghi in questo momento a Trieste. Richiedenti asilo prima accompagnati oltre la frontiera e scaricati in Slovenia, e poi successivamente accettati. «Vediamo soltanto la punta dell’iceberg», dice Gianfranco Schiavone il presidente di Ics, il consorzio dell’accoglienza che segue con la Caritas tutti i richiedenti asilo della città. «Molti, per timore, preferiscono non parlare di questi fatti. Altri ancora, dopo essere stati respinti magari decidono di non passare più da questa frontiera».
Le chiamano riammissioni. Ma sembrano qualcos’altro. «La riammissione di un richiedente asilo tra due Paesi dell’Unione Europea è illegittima perché viola sia il regolamento di Dublino sia il diritto di accesso alla procedura», dice ancora Schiavone. «In questi casi, evidentemente, la polizia ha ignorato il fatto che i migranti chiedessero asilo in Italia. Avevano diritto di restare. Serve maggiore chiarezza. Serve personale delle organizzazioni che tutelano i rifugiati alla frontiere, in modo che possano svolgere una funzione di informazione e orientamento».
Per tutto questo, adesso, Mohammad M. non ha una spiegazione. Sa che prima l’Italia l’ha scaricato dall’altra parte della frontiera, sa che adesso l’Italia lo ha accolto come era suo diritto. La domanda d’asilo è datata 6 agosto 2018. Presto verrà chiamato dalla commissione. «Il mio sogno è restare qui», dice.
La Stampa 3.11.18
Il diritto e la sovranità nazionale
di Riccardo Arena
Palermo aveva dato la via, Catania la segue: Matteo Salvini non ha commesso reati perché nella vicenda della Diciotti le autorità italiane hanno solo preteso «il ripristino delle regole internazionali» che erano state violate da Malta. Regole in tema di soccorso e assistenza ai migranti: cercare di ottenerne il rispetto «significa affermare la sovranità nazionale». Dunque non è sequestro di persona, l’avere impedito lo sbarco dei 177 che vennero trattenuti dal 20 al 25 agosto nel porto di Catania.
Sono i principi di diritto fissati dal tribunale dei ministri di Palermo, che il 16 ottobre aveva trasmesso gli atti a Catania, dopo avere però negato la sussistenza della responsabilità di Salvini nel periodo compreso tra il 15 e il 20 agosto, quando la Diciotti incrociò al largo di Lampedusa: principi adesso recepiti dalla procura di Catania, che ha girato tutto al tribunale dei ministri etneo, seguendo la linea tracciata dal collegio palermitano e quindi chiedendo l’archiviazione. Intanto la competenza di una gran parte delle decisioni apparteneva non al ministero dell’Interno ma alla Guardia costiera, che dipende dal ministero delle Infrastrutture. E poi le pressioni politiche internazionali non sono sindacabili dal giudice penale. «Contestare formalmente l’inadempimento a Malta – aveva affermato il tribunale palermitano – rientra nelle valutazioni di opportunità della pubblica amministrazione, assolutamente insindacabili da parte del giudice penale, al quale è preclusa la possibilità di esercitare il controllo di legalità sulle scelte di opportunità e convenienza amministrativa».
Linea che il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro condivide, nonostante i suoi colleghi di Agrigento, Luigi Patronaggio, e di Palermo, Francesco Lo Voi, avessero ritenuto responsabile Salvini. Non ci fu sequestro di persona, aveva osservato il tribunale di Palermo, ma solo un «legittimo ritardo nella procedura amministrativa, dovuto alla contestazione tra due Stati sovrani». E quando ai migranti fu impedito di scendere a terra la contesa vide entrare in gioco il premier Conte che il 24 agosto chiese di convocare il Consiglio europeo e la Commissione proprio sul caso della Diciotti: nemmeno qui è configurabile un reato, perché l’Italia chiese solo il rispetto degli impegni internazionali.
Il Fatto 3.11.18
Emanuela, Elisa e le altre vittime della “lupara rosa”
Scomparse - Non si trovano, le loro famiglie finite nella trappola dell’attesa che non finisce più. Erano soltanto delle ragazze
di Federica Sciarelli
È uno strano Paese il nostro. In questo momento ci sono due famiglie, o meglio tre, che stanno contando le ore. Stanno contando le ore che le separano da un esame, quello del Dna, per sapere se le ossa trovate nella Nunziatura Apostolica appartengano a un loro caro, scomparso da anni. A casa di Maria, la mamma di Emanuela Orlandi, si aspetta. A casa delle tre sorelle di Emanuela si aspetta, e così a casa del fratello Pietro. E si contano le ore anche a casa di Antonietta, la sorella di Mirella Gregori. Stessa sorte e angoscia per i genitori di Alessia Rosati, caso poco conosciuto ai più. Ma l’incubo è lo stesso: una ragazza romana che non da notizie di sé da anni. E nessuno di questi familiari sta sperando che le ossa della Nunziatura non siano proprio quelle, proprio le loro. Tutti sperano che ci sia finalmente una risposta, anche se la peggiore, avendo vissuto con certezza un lutto che però non è stato mai accertato.
Scomparsa volontaria? Fesserie. Ma alle famiglie è stato detto che si trattava di una ragazzata. Sono passati 35 anni per Emanuela e Mirella. Oggi le due ragazze avrebbero 50 anni, una famiglia forse, o forse no. Forse sarebbero laureate, e quel flauto che è scomparso insieme alla ragazza che viveva in Vaticano sarebbe stato cambiato tante e tante volte. Come mai per i maschi si parla di lupara bianca e per le donne non si può parlare di lupara rosa? Non si potrebbe introdurla nel vocabolario, così come la lupara bianca che è ben descritta nei casi in cui i mafiosi fanno scomparire qualcuno senza lasciarlo per terra, senza sporcare di sangue il marciapiede? Bianca, appunto, perché non c’è il sangue, non c’è il colore rosso, ma solo la nebbia fitta di una scomparsa… il nulla, il vuoto, il niente.
Lupara rosa: maschio che fa scomparire una donna, sia essa moglie o compagna, amica o sconosciuta, adulta o ragazza, e ne occulta il cadavere. I motivi di questi omicidi? Sono tra i più svariati: la gelosia, il possesso, essere stati respinti, ma anche un bieco motivo economico, il non voler pagare gli alimenti per una vita, o la semplice irritazione del momento, come il fastidio di briciole lasciate sul tavolo.
E sapete perché si fanno scomparire le donne? Perché senza il corpo spesso non c’è processo. Non c’è un corpo assassinato, e quindi non c’è un assassino, non c’è un reato da giudicare. Ci sono voluti anni ai genitori di Katiuscia Gabrielli per far capire che la loro figlia non era andata via volontariamente. Poi si scoprì che il compagno pizzaiolo, padre dei suoi figli, l’aveva fatta scomparire mettendola dentro il forno di notte, mentre il ristorante era chiuso. Gli abitanti della zona avevano sentito strani rumori, e visto un fumo e della polvere arrivare dal camino della pizzeria nei loro terrazzi.
Il dottor Belmonte, che era stato direttore di carcere, teneva moglie e figlia dentro una intercapedine sotto la sua stanza da letto. Per anni aveva sostenuto che erano andate via lasciandolo solo. Ma, fatto strano, le due donne avevano lasciato anche le loro cose. I loro vestiti, la macchina, i soldi nel conto corrente; eppure avevano creduto a lui, al dottor Belmonte, fino alla macabra scoperta.
E che dire di quella donna che scompare da Roma, e le viene controllato cellulare e tutto il resto, e pur non trovando nulla di sospetto si insinua il dubbio che avesse deciso di fuggire con un amante? Era una donna come le altre, lavorava e poi si dedicava alla famiglia, ma sulla strada fu rapita da un pazzo criminale che l’ha portata nell’autogrill dell’autostrada per Napoli, altezza Caianello. Lì è stata violentata e gettata via tra gli arbusti. Per anni nessuno aveva saputo nulla di lei, e quella dell’autogrill era rimasta una donna senza identità, e solo perché altre tre ragazze furono fermate dallo stesso pazzo di Caianello si risalì all’impiegata di Roma, fatta scomparire, violentata e uccisa da uno sconosciuto, e fatta pure passare per puttana.
E che dire della mamma di Elisa Claps che all’ennesima risposta “sua figlia se ne è andata, prima o poi torna” , si è levata il tacco della scarpa e lo ha lanciato verso l’uomo delle istituzioni a cui aveva chiesto aiuto con tutto il suo carico di dolore…
Elisa Claps, appunto. La dimostrazione che tutto è possibile: anche ritrovare una ragazza dentro il sottotetto di una Chiesa, quella del corso della città, in questo caso Potenza dopo 17 anni. Eppure in Chiesa era andata Elisa e da lì era scomparsa. Ma anche per lei fu detto che se ne era andata via volontariamente, pensate che fu avvistata dappertutto, persino in Albania. Il ragazzo con cui aveva un appuntamento e che era sporco di sangue proprio quel giorno fu lasciato libero di continuare nella sua follia criminale. E solo dopo 17 anni e solo dopo il ritrovamento dentro i locali della chiesa dai quali non era mai uscita, il giovane diventato adulto e assassino per la seconda volta, è stato fermato.
È facile comprendere perché, oggi, i familiari sperano che quelle povere ossa siano proprio le loro. Bisogna aspettare lunedì, hanno letto e sentito dai giornalisti.
E ora stanno contando le ore: di pianti se ne sono fatti già tanti, adesso è il tempo di avere giustizia. E se saranno le ossa di una cripta vicina a Villa Giorgina, se saranno le ossa portate dalle catacombe che si trovano a poca distanza, allora vorrà dire che si aspetterà il prossimo ritrovamento.
E si conteranno di nuovo le ore…
Repubblica 3.11.18
Verso il MidTerm
Fenomeno Pressley
Ayanna, la prima afroamericana che corre per il seggio di JFK
di Anna Lombardi
BOSTON Ciascuno di voi ha un superpotere: il voto».
Ayanna Pressley, 44 anni, i lunghi dread raccolti in una crocchia dietro alla testa, fra gli applausi può finalmente scendere dalla scatola di cartone con scritto a pennarello "speaker", affrontata nonostante i tacchi altissimi affinché nel salone del Kinsale Irish Pub al 2 di Central Plaza la vedessero anche dal fondo. Si fa strada fra i tavoli, stringe le mani, offre una parola a tutti: «Non mi sono candidata per mantenere lo status quo» dice a Repubblica. «La questione non è solo sconfiggere Donald Trump. Ineguaglianze e disparità esistevano anche prima». Eccola la candidata che dopo avere sbaragliato alle primarie democratiche il veterano Michael Capuano, dieci legislature al Congresso, spera di diventare la prima donna, e prima afroamericana, a vincere il seggio che lanciò la carriera politica di John Fitzgerald Kennedy.
D’altronde è proprio a casa Kennedy, qui a Boston, che si è fatta le ossa: stagista e poi assistente di quel Joseph, secondo figlio di Bob ed Ethel, deputato fra 1986 e 1999, incontrato ai tempi dei corsi serali al Boston Metropolitan College dove lei studiava, mantenendosi pulendo le stanze del Marriott Hotel. Nel settimo distretto ha praticamente già vinto, ma per lei è arrivato lo stesso anche l’endorsement di Barack Obama: «Servono più donne afroamericane che prendeno decisioni al Congresso».
Il Kinsale è l’ultima tappa di una lunga giornata: al mattino convegno sulla riforma carceraria a Roxbury, dove Ayanna – nata nella violenta Chicago, figlia di un eroinomane che durante la sua infanzia era in prigione ma poi riscattatosi diventando insegnante – ha spiegato il suo programma per reintegrare chi ha pagato il debito con la giustizia. Poi fra le donne di Planned Parenthood, la rete dei consultori che la sostiene.
Evocando, fra le lacrime di molte, lo stupro subito a 19 anni ma denunciato solo 7 anni fa, nel 2011, all’inizio della sua carriera politica. Infine una corsa al Dudley Café a Indiantown: «Come dice Obama: non mugugnate, votate!». Una campagna fatta di piccole cose: «Porta a porta e miriadi di incontri comunitari.
Priva di grandi donatori, cerca gli elettori sugli autobus e nelle università, li raggiunge con video virali» ci spiega Erin O’Brien, politologa dell’Università del Massachusetts. «Questo è uno stato liberal, certo. L’eredità di Jfk è forte: ma i leader democratici, tolta l’eccezione di Elizabeth Warren, sono uomini bianchi. La sua campagna è semplice: in una città dove le disparità fra bianchi e neri è enorme va dicendo a chi non si sente rappresentato che sarà il loro difensore non il loro alleato. E non lo fa alla Bernie Sanders. È vero, alle primarie ha schiacciato l’avversario, ma con una campagna pacata e fattuale.
Pressley non è anti establishment: ha lavorato con Kennedy, con John Kerry. Non è una populista: è una del popolo». Quel popolo di bianchi, neri, latini ed asiatici che affollano il pub di fronte a City Hall, il comune dove fino alle 8 di sera si può usufruire del voto anticipato. L’incontro serve proprio a galvanizzare gli elettori e accompagnarli alle urne. In corteo. Ayanna li scalda. «Faremo pochi passi, ripercorrendo orme importanti. Marciamo lungo la Freedom Trail, il sentiero della libertà che si snoda fra i luoghi che hanno fatto la Storia d’America». Il piccolo corteo prima sfiora la Old Meeting House dove nel 1773 si riunirono 5000 coloni che avviarono la rivolta del Tè: quando, ribellandosi alle tasse britanniche, travestiti da indiani, ne gettarono in mare 45 tonnellate. Poi la cupola d’oro della Old State House, dove nel 1776 la Dichiarazione d’Indipendenza fu letta per la prima volta ai cittadini. «Go vote: votate» canta lei: «È la nostra rivoluzione». E pazienza se, oggi, i "rivoluzionari" sono 50 appena.
Ogni voto conta e per incitarli arriva anche Maura Healey, primo procuratore generale dichiaratamente gay d’America: «Chiamate gli amici, i parenti, i colleghi, i vicini». Ecco pure l’icona del Senato Ed Markey, nemico di chi nega i cambiamenti climatici, che dopo 40 anni alla Camera vinse lo scranno di John Kerry diventato Segretario di stato: «L’America è nata qui.
Siamo stati campioni dell’uguaglianza, dell’abolizionismo. Restituiamo l’America ai suoi valori» dice.
«You’re right!» gli fa eco Pressley come nei gospel. «Lo so» ci dice subito dopo: «Mi considerano un’outsider perché sfido la convenzione di chi deve sedere ai tavoli del potere. Ma io voglio solo essere la voce di famiglie che non arrivano a fine mese, immigrati che hanno paura della deportazione, studenti schiacciati dal debito universitario, ex carcerati che non trovano lavoro. Dire a coloro che hanno alle spalle storie difficili come la mia che possono farcela. Che ce la faranno».
Armati di un superpotere: il voto.
# MidRep2018
I giornalisti di ' Repubblica' in viaggio nell'America che vota
Una gioventù difficile e ora la quasi certezza di conquistare il posto al Congresso che fu di Kennedy. "Avete un superpotere, il voto"
Ayanna Pressley, 44 anni, candidata per un posto al Congresso, con la maglietta di Wonder Woman e la mascherina di Catwoman.
Repubblca 3.11.18
Il voto di Midterm
Se Trump è l’avversario di Trump
di Vittorio Zucconi
Se vivessimo in tempi normali, governati da politici normali, le elezioni generali americane di martedì prossimo, le cosiddette Midterm, non avrebbero storia. Il partito che da due anni controlla il governo e le due camere del Parlamento, il Repubblicano, farebbe piazza pulita, aumentando la propria maggioranza alla Camera e irrobustendo quella, per ora minima, al Senato. Con l’economia nazionale in ebollizione, la disoccupazione ai minimi mai visti dagli anni ’60, il Pil avviato a una crescita annuale oltre il 3 per cento e ora anche la riesumazione del "Grande Satana", l’Iran colpito di nuovo da sanzioni, il partito al governo dovrebbe stravincere. E fare una campagna elettorale tutta puntata sui successi economici dell’ultimo biennio.
Se invece il Gop, il Grand Old Party repubblicano rischia di vedersi sfuggire il controllo della Camera, il ramo del Congresso che controlla il borsellino della spesa pubblica e detiene il potere di "impeach", di incriminare il Presidente, e se persino seggi stra-sicuri al Senato presentano ipotesi di sfide impensabili fino a ieri, all’ultimo voto, la ragione ha un nome e un volto: Donald Trump.
Dopo avere annunciato che "se i Repubblicani perdessero non potrebbero dare la colpa a me", Trump ha fatto una completa inversione a U e si è lanciato a capofitto nella campagna elettorale. Con undici comizi negli ultimi cinque giorni, un tour de force dal lontano West alla Florida, ha trasformato una banale elezione di mezzo mandato in un referendum su se stesso. E per farlo, ha trascurato i dati reali dell’economia, per riesumare tutti i fantasmi della sua propaganda xenofoba, isolazionista e, parole sue, "nazionalista" fino alla grottesca mobilitazione di 15 mila soldati della US Army per fare "muro umano" contro una carovana di disperati in marcia a mille chilometri dal confine del Texas.
Un’offensiva del trumpismo d’assalto che ha scelto proprio questi giorni di vigilia elettorale per annunciare "le più dure sanzioni che mai siano state inflitte all’Iran", una decisione che era largamente scontata, dopo la denuncia del trattato anti-nucleare firmato da Obama, ma che, in queste ore, va letta come tutto il comportamento del Presidente nell’ottica della propaganda. Un altro battersi sul petto da vero "macho", anche se le sanzioni escludono altri Paesi che commerciano con Teheran, un’eccezione che svuota in buona parte la forza delle sanzioni.
A questo punto della campagna che lui ha voluto "trumpizzare" contro i consigli (e le preghiere) di molti candidati repubblicani che avrebbe fatto volentieri a meno di correre con la sua ombra sulle spalle, se dovesse perdere un’elezione che il suo partito avrebbe dovuto stravincere sarebbe la dimostrazione del rischio implicito nella strategia dell’ "uomo solo", della personalizzazione esasperata della politica. Fino a quando la forza magnetica del personaggio è forte, l’affiliazione di partito è marginale. Ma quando la popolarità – che per Trump resta bassissima, a poco più del 40 per cento - declina, il partito viene punito attraverso il suo leader carismatico.
È il fenomeno elettorale che abbiamo visto in Italia alle elezioni politiche, dove non pochi hanno votato per Salvini o contro Renzi, indipendentemente dal partito che essi rappresentavano.
Un fiasco repubblicano alla Camera, come i sondaggi continuano a indicare nonostante i fallimenti delle previsioni recenti, avrebbe dunque un risultato certo: aprirebbe nel partito repubblicano, che ha subìto, ma mai davvero interiorizzato la prepotente ascesa di Trump, quella ribellione che neppure raffiche di tweet insolenti potrebbero più placare. Perché non siamo stati noi repubblicani a perdere la Camera, gli diranno, sei stato tu, Donald.
il manifesto 3.11.18
Espulsa da Israele la scrittrice Susan Abulhawa
Medioriente. La scrittrice palestinese-americana ieri era in attesa di essere espulsa dopo essere stata fermata giovedì al suo arrivo all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv. Era tra gli ospiti più attesi di «Kalimat», il Festival della letteratura palestinese che si apre oggi a Gerusalemme Est, Haifa e in tre città della Cisgiordania
di Michele Giorgio - Gerusalemme
Il suo nome è tra quelli di spicco di «Kalimat», il Festival della letteratura palestinese che si apre oggi a Gerusalemme Est, Haifa e in tre città della Cisgiordania. Ma a quest’appuntamento importante per la cultura palestinese Susan Abulhawa non ci sarà.
La scrittrice palestinese-americana, nota per il best seller Mornings in Jenin, pubblicato in italiano da Feltrinelli con il titolo di Ogni mattina a Jenin, ieri era in attesa di essere espulsa dopo essere stata fermata giovedì al suo arrivo all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv. «I ricorsi presentati dall’avvocato sono stati respinti dai giudici. È un fatto gravissimo. Susan è un’esponente della cultura internazionale e stava rientrando nella sua terra d’origine», ci diceva ieri Mahmoud Muna, il coordinatore di «Kalimat».
Figlia di genitori palestinesi di Gerusalemme, profughi della guerra arabo-israeliana del ’67, Abulhawa, 48 anni, ha pubblicato in italiano un altro romanzo di successo Nel blu tra il cielo e il mare. Da molti anni vive negli Stati uniti, in Pennsylvania. È la fondatrice dell’Ong «Playground for Palestine», che costruisce parchi gioco nei campi profughi palestinesi.
Per la scrittrice, il motivo del suo fermo è politico, legato alla sua attività a favore della causa palestinese. Essendo cittadina americana, aggiunge, non aveva bisogno di ottenere in anticipo il visto d’ingresso in Israele così come le hanno detto gli agenti della sicurezza del Ben Gurion. L’Autorità israeliana per l’immigrazione e le frontiere afferma invece che Abulhawa, alla quale era già stato negato l’ingresso nel 2015 mentre dalla Giordania si accingeva ad entrare in Cisgiordania, era stata informata che avrebbe dovuto richiedere il visto in anticipo prima di recarsi in Israele e nei Territori palestinesi occupati.
Corriere3.11.18
Antisemitismo, scatta l’indagine sui laburisti
di Luigi Ippolito
La ferita dell’antisemitismo nel partito laburista britannico si riapre: e in maniera ancora più dolorosa, se possibile. Perché Scotland Yard ha lanciato un’inchiesta formale per appurare se nella grande formazione della sinistra siano stati commessi «crimini d’odio» nei confronti degli ebrei. È un ulteriore colpo alla credibilità del leader laburista Jeremy Corbyn, che già questa estate era stato coinvolto direttamente nella polemica sull’ostilità anti-ebraica che alligna fra i laburisti: erano emerse foto della sua partecipazione a una cerimonia per i palestinesi di Settembre Nero e soprattutto era stato reso publico un audio in cui affermava che «i sionisti non capiscono il senso dell’umorismo inglese, anche se hanno passato tutta la vita in Gran Bretagna». Ma certamente non hanno riso gli ebrei laburisti, che si sentono sempre più marginalizzati nel partito. L’intervento di Scotland Yard è stato deciso dopo l’esame di un dossier che documentava casi di conclamato anti-semitismo, come quello del militante che proclamava che «bisogna sbarazzarsi degli ebrei, che sono un cancro fra noi». Cressida Dick, la capa della polizia, ha precisato che sotto inchiesta non c’è il Labour in quanto tale, ma solo casi specifici: ci si chiede tuttavia perché la leadership del partito non sia intervenuta per tempo e abbia aspettato che si muovesse Scotland Yard. La reazione dei laburisti è stata cooperativa: «Se ci sono persone che hanno commesso crimini d’odio devono subire tutta la forza della legge - ha detto il vice leader Tom Watson -. Non c’è posto per loro nel partito». Ma restano i dubbi sulla capacità di giudizio di Corbyn, probabilmente offuscata dalla lunga militanza nella sinistra terzomondista e anti-imperialista, che considera Israele un avamposto del colonialismo: tanto da non accorgersi quando le legittime critiche alle politiche dello Stato ebraico scivolano nell’antisemitismo preconcetto. Il Labour ha adottato qualche mese fa, a fatica, un codice di condotta in materia: ma c’è voluta Scotland Yard per tradurlo in pratica.
il manifesto 3.11.18
Cina: più che la crescita preoccupano i consumi
Cina. Per la leadership al potere in gioco c’è molto più della stabilità economica. A rischio è il patto implicito con cui all’indomani del massacro di Tian’anmen Pechino ha promesso alla popolazione benessere in cambio di lealtà politica
di Alessandra Colarizi
“Siamo preparati al peggio”. Con queste parole il governatore della banca centrale cinese Yi Gang ha rassicurato i vertici di G20 e FMI riuniti a Bali sulla resilienza della seconda economia mondiale, trascinata da Trump in una guerra commerciale tutt’altro che passeggera e alle prese con nuovi smottamenti del mercato finanziario, la svalutazione del renminbi e “un iceberg del debito” (copyright S&P Global).
Ma, affermando che “in Cina molti sono pronti alle prolungate incertezze,” Yi sembra dare voce a pochi ottimisti, ignorando le preoccupazioni nutrite da quella fetta di popolazione su cui la leadership cinese punta tutto per ribilanciare il proprio modello di crescita. “E’ finito il tempo del binomio investimenti-export, si passa a consumi e servizi,” aveva annunciato Pechino nel 2013, anticipando l’arrivo di riforme economiche.
Secondo i dati dell’agenzia di stampa statale Xinhua, lo scorso anno i consumi hanno contribuito al Pil nazionale per il 58%, mentre i servizi sono arrivati a contare per il 51,6%. Ma quei numeri, sbandierati fino a oggi a riprova della soddisfacente performance economica, rischiano di segnare una traiettoria decrescente ora che le frizioni commerciali con Washington – abbinate alle misure restrittive nei settori finanziario e immobiliare – cominciano a esercitare i loro effetti psicologici sulla pancia del paese prima ancora di intaccare l’economia reale.
Non è il rallentamento della crescita al 6,5% a preoccupare gli esperti.
Quest’anno durante la Golden Week, uno dei pochi periodi vacanzieri nella Repubblica popolare tradizionalmente dedicato allo shopping selvaggio, i consumi hanno toccato i minimi dal 2000, perdendo 10 miliardi di dollari rispetto all’anno scorso. La crescita delle vendite al dettaglio (barometro della spesa dei consumatori) è rallentata al livello più basso degli ultimi 15 anni, con segni di sofferenza anche nell’automotive, di cui la Cina è il primo mercato al mondo.
Secondo Li Shi, professore di economia presso l’Università Normale di Pechino, l’erosione dei consumi, sul lungo periodo, andrebbe imputata al calo del reddito delle famiglie – sceso al 50% del reddito nazionale complessivo dai circa due terzi del 2000 – a causa di un aumento più rapido delle entrate statali dovuto alla sostenuta imposizione fiscale; un punto che Pechino vorrebbe correggere con l’introduzione di sgravi fiscali e l’annuncio del primo taglio in sette anni delle tasse sul reddito. A ciò si aggiungono mutui e affitti, spese mediche, per l’istruzione dei figli e l’assistenza agli anziani.
A contribuire all’assottigliamento dei portafogli concorre la riduzione delle possibilità di investimento, minacciate dal recente crollo delle borse e dal rallentamento del real estate, settori che negli ultimi anni si sono alternati nel fornire un rifugio ai risparmi delle famiglie cinesi. Dall’inizio dell’anno a oggi, gli investitori hanno perso in media più di 100.000 yuan ciascuno dopo che il crollo registrato dai listini negli ultimi mesi ha bruciato 3 trilioni di dollari di capitalizzazione di mercato. Secondo la Xinhua, nel 2017 il 66% degli investitori ha chiuso l’anno in perdita. Il tutto proprio mentre il mattone – che conta per il 15% del Pil – comincia a perdere terreno dopo sei mesi di crescita continuativa sulla scia delle misure introdotte dal governo centrale in ottica di deleveraging. Un trend che spaventa tanto gli sviluppatori immobiliari quanto i proprietari che vedono polverizzarsi il valore delle loro abitazioni, spesso acquistate con scopi speculativi.
Per la leadership al potere in gioco c’è molto più della stabilità economica. A rischio è il patto implicito con cui all’indomani del massacro di Tian’anmen Pechino ha promesso alla popolazione benessere in cambio di lealtà politica. Segni di insofferenza tanto tra i piccoli investitori quanto tra i proprietari immobiliari evidenziano la posizione scomoda delle autorità, chiamate a intervenire come deus ex machina per riportare la situazione alla normalità. Negli scorsi giorni, la riduzione dei prezzi delle case a Shanghai, Xiamen e Guiyang è stata accolta da proteste violente e appelli “in lacrime e in ginocchio affinché il governo serva il popolo.”
Che la fiducia nei confronti di Pechino sia in discesa lo dimostra la premura con cui, negli ultimi anni, la classe media ha provveduto ad assicurarsi assets all’estero con l’obiettivo di ottenere permessi di residenza e un accesso a servizi migliori in paesi come Australia e Stati Uniti. Acquisti spericolati talvolta sfociati in frodi. In altre circostanze culminati in pesanti sanzioni a causa dei limiti imposti sull’esportazione di capitali. Alla fine di agosto la SAFE ha reso noti 23 casi, di cui cinque concernenti l’acquisizione di proprietà immobiliari, con multe fino a 1,45 milioni di yuan per l’impiego di “banche sotterranee”.
Chi è che sarebbe “pronto a tutto”?
il manifesto 3.11.18
Il romanzo criminale della crisi brasiliana
Intervista. Parla lo scrittore britannico Joe Thomas, autore di "Paradise City"
di Guido Caldiron
«Osservarono il cratere. Alti grattacieli lo fronteggiavano su tutti i lati. Leme si chiese come cazzo si potesse pensare di costruire una superstrada in mezzo.. a quello. A destra, la favela precipitava giù verso il fiume, una macchia marrone che si allargava senza sosta. Dietro, una foresta di edifici, la luce che filtrava nei buchi tra l’uno e l’altro. I palazzi salivano fino all’Avenida Paulista, nel cuore della città. Quando ci sei dentro, pensò Leme, è solo un posto come un altro. La favela».
Dodici milioni di abitanti che quasi raddoppiano con i quartieri extraurbani, milioni di auto che ogni giorno intasano le strade, decine di distretti industriali, finanziari, commerciali, ma anche centinaia di mercati, teatri, parchi. Tutto è enorme, ampio, strabordante a São Paulo. E forse non a caso è nel cuore di tutto ciò, nel centro europeo e residenziale della metropoli brasiliana, una delle più grandi del mondo, che si deve guardare per trovare quella che è a sua volta la favela più estesa del Brasile, Paraisópolis, il quartiere-città dove vivono decine di migliaia di persone che è servito a Joe Thomas da ispirazione per Paradise City (Carbonio, pp. 313, euro 17,50), un romanzo che con il timbro crudo e la determinazione del noir racconta le contraddizioni e la crisi della società brasiliana.
Docente di letteratura e scrittura creativa all’Università di Londra, Thomas ha vissuto e lavorato per oltre dieci anni nella metropoli paulista e ha deciso di scrivere quello che è poi diventato il primo capitolo di un trilogia – di cui in Gran Bretagna è già uscito anche il secondo volume, Gringa –, prendendo spunto dalla campagna di violenza scatenata oltre dieci anni fa, in occasione dei Mondiali di calcio del 2006, dal Primeiro Comando da Capital, una delle maggiori gang criminali locali. Un esempio, tra i tanti, dall’intreccio inestricabile tra malavita, corruzione, politica come tra le forze dell’ordine, e le drammatiche diseguaglianze sociali che caratterizzano la città e il paese.
«São Paulo rappresenta uno scenario straordinario per chi voglia scrivere un noir. – spiega Thomas – È una città che si nutre di contraddizioni, dell’enorme abisso che separa i molto ricchi e i molto poveri, e il tutto in spazi attigui, come accade a Paraisópolis che è circondata da grattacieli residenziali. L’ingiustizia sociale va di pari passo con la corruzione, la criminalità nelle favelas con quella dell’élite politica ed economica, la violenza di strada con la repressione cieca e gli abusi della Policia Militar. La città stessa ha il ritmo di un romanzo poliziesco e solo con questo strumento narrativo se ne può indagare l’anima e le mille insanabili contraddizioni».
Le favelas sono luoghi terribili soprattutto per chi è costretto a viverci, ma incarnano anche i «fantasmi» della violenza e del crimine che vengono agitati verso il resto della società brasiliana per giustificare ogni sorta di repressione. Lei ha però scelto di capovolgere questi stereotipi per raccontare il paese. Come sono andate le cose?
Ho vissuto a lungo accanto alla favela di Paraisópolis, che sorge nei pressi di alcuni dei quartieri più ricchi di São Paulo e mi è capitato di trovarmi lì la sera a bere con gli amici o di frequentare e stringere amicizia con persone del posto. Spesso attraversavo quella zona «malfamata» per recarmi al lavoro e non mi è mai accaduto nulla. La stragrande maggioranza degli abitanti di quelle «città nella città» che sono le favelas brasiliane sono persone oneste, che lavorano sodo, poveri o poverissimi che fanno i conti con condizioni di vita inimmaginabili, con dei livelli di sfruttamento terrificanti. Con i miei romanzi ho cercato di raccontare questo aspetto della vita nelle favelas, senza nascondere la violenza, la droga, la criminalità o le azioni delle gang, ma sottolineando come si tratti di comunità che si basano anche su dei valori condivisi e sull’idea di far fronte con la determinazione all’emarginazione e alla miseria. E questo, a fronte di una situazione in cui per l’élite brasiliana chi vive in queste zone – solo a Paraisópolis oltre 40mila persone – sembra incarnare ogni sorta di deriva e minaccia. Non solo, proprio sulla pelle degli abitanti delle favelas si compiono ogni giorno abusi e speculazioni: dalle esecuzioni sommarie ad opera della Policia Militar alle grandi truffe immobiliari e urbanistiche, vicende che sono al centro di quanto scrivo.
Lo scrittore britannico Joe Thomas
Protagonista di «Paradise City», il detective Mario Leme passa molto tempo nella favela: sembra guardare da questa prospettiva a quanto accade intorno a lui, ai molti misteri insoluti di São Paulo. È la sua stessa prospettiva?
Sono nato e cresciuto in Gran Bretagna e sono consapevole che in Europa si guarda alla realtà delle favelas con un’atteggiamento intriso di feticismo: «il luogo del male, del pericolo». Perché si pensa che da noi non esistano luoghi simili, anche se in realtà non è vero fino in fondo. Eppure, queste zone non costituiscono affatto un «altrove» rispetto alla città in cui sorgono e anzi rappresentano un punto di osservazione particolarmente interessante per cogliere ciò che sta accadendo nelle metropoli contemporanee. Così, la São Paulo dei miei romanzi ha molto in comune con Londra: gentrificazione e «pulizia sociale» dei quartieri avanzano di pari passo, l’élite politica è sempre più sorda di fronte alla sofferenza dei diseredati, si assiste al boom dell’industria delle costruzioni e, al contempo, ad una crisi abitativa sempre più profonda, al crollo dell’edilizia popolare mentre gli edifici di lusso sono spesso abitati da fantasmi. E, su tutto questo, aleggia lo spettro di una violenza crescente, nutrita dal crimine ma anche dall’emarginazione e dalla sofferenza.
Corruzione, criminalità, violenza, paura: i temi al centro del suo romanzo sono gli stessi su cui ha puntato il candidato dell’estrema destra Bolsonaro per vincere le elezioni. Avete «scritto» lo stesso «libro», ma da punti di vista contrapposti: lei con la consapevolezza delle diseguaglianze sociali, l’ex parà facendo appello alla repressione…
Trovo molto interessante questo modo di guardare al mio romanzo. In realtà, non pensavo potesse vincere proprio Bolsonaro. Detto questo, nell’ultimo capitolo della mia trilogia paulista, Playboy, che ho finito di scrivere da qualche mese, già prima delle elezioni, e che uscirà nel 2019 in Gran Bretagna, c’è un personaggio che riflette sul modo in cui le proteste di piazza contro la presidente Dilma Rousseff e la gestione politica dell’indagine sulla corruzione, l’operazione Lava Jato/Petrobas – utilizzata per mettere fine alla presidenza del Pt e per ridurre Lula al silenzio -, si sono tradotte in una generale perdita di fiducia nelle forze politiche e negli stessi processi democratici, tale da favorire l’ascesa di un leader populista e autoritario che guarda con nostalgia alla dittatura che ha retto il paese fino agli anni Ottanta. Per fare una simile previsione mi sono limitato ad immaginare i possibili sviluppi del clima che è andato montando in Brasile negli ultimi anni. Alla luce di questo contesto, la vittoria di Bolsonaro era certo un’ipotesi remota, ma era pur sempre tra quelle in campo. Seppure la peggiore da ogni punto di vista.
Oltre agli elementi che ha già indicato, a cosa attribuisce questa vittoria?
Bolsonaro ha espresso delle posizioni aberranti su qualunque argomento – si tratti delle donne, della comunità Lgbtq, del razzismo, dell’uso delle armi da fuoco, della tortura, della dittatura militare brasiliana -, ciononostante la sua popolarità è dovuta prima di tutto al fatto che è riuscito a convincere tanta gente esasperata, una fetta molto ampia e diversificata di elettori, che è in grado di risolvere i problemi del crimine e della corruzione, anche se è evidente che non sarà così. L’esito scioccante di queste elezioni è frutto di un clima di delusione e di rabbia che è andato crescendo sempre più e che ha finito per coinvolgere anche la sinistra, il Partito dei lavoratori di Lula e Dilma che certo hanno fatto molto per il Brasile – e che sono stati messi «fuori gioco» ad arte dalle già citate vicende giudiziarie – ma che agli occhi di tanta gente non sono stati in grado di mantenere le promesse che avevano fatto e di soddisfare le attese che ne avevano accompagnato l’arrivo ai vertici del paese. Anche molti ex elettori del Pt hanno votato per Bolsonaro o si sono astenuti, favorendo così nei fatti la vittoria di quest’ultimo. Il risultato è che oggi il Brasile è un paese sofferente, triste e diviso che è stato spinto dalla paura verso un abisso ancora più profondo.
A proposito del suo primo romanzo sono stati chiamati in causa Don Winslow e James Ellroy, la critica è sulla strada giusta?
Sono ovviamente entusiasta di tali immeritati paragoni, ma voglio aggiungere che per rendere a pieno il clima e gli umori di São Paulo, oltre ad ogni sorta di riferimento letterario e cinematografico, come Tropa de Elite, il controverso film che ha raccontato la brutalità della Policia Militar, mi sono ispirato ai testi di quei musicisti brasiliani che come il rocker Cazuza, scomparso da tempo, hanno raccontato la vita di strada, i sogni e gli incubi delle favelas.
La Stampa 3.11.18
L’ascesa della premiata ditta Topf, i migliori forni crematori per le SS
Auschwitz: costruiti dalla Topf & figli dal 1940 al 1944
Non erano Nazisti della prima ora. Furono travolti, con i loro tcnici, dall’ambizione
di Mirella Serri
Quando i servizi di controspionaggio dell’esercito americano fecero irruzione nella villa della famiglia Topf, a Erfurt, per sequestrare carte e disegni, furono stupiti dal lusso: le camere da letto erano fiancheggiate da sontuosi bagni neri e bianchi. Il proprietario dell’abitazione, Ludwig Topf, aveva fama di dongiovanni che destinava alle bionde le toilette in chiaro e alle brune quelle in scuro. L’11 aprile 1945 le truppe Alleate, prima che Erfurt passasse sotto il controllo sovietico, avevano raggiunto il campo di concentramento di Buchenwald, a pochi chilometri dall’abitazione dei Topf, ed erano stati raggelati da una visione raccapricciante: il lager traboccava di poveri corpi divorati dai topi e dalla collina di Ettersberg arrivava un fetore insopportabile. I forni crematori, con il marchio in bella vista della società di Ludwig e di suo fratello Ernst Wolfgang, la Topf&Figli, avevano smesso di funzionare.
Le autorità a stelle e strisce avviarono un’indagine sull’azienda. Ma la famiglia Topf, dopo che Ludwig il dandy si fu suicidato il 31 maggio, sostenne con grande improntitudine di aver offerto semplicemente dei «servizi» al lager. Ma adesso a raccontarci la vera storia della «famiglia che progettò l’orrore dei campi nazisti», come recita il sottotitolo, arriva il libro di Karen Bartlett, Gli architetti di Auschwitz (Newton Compton, pp. 325, € 12, 90). La fabbrica dei Topf all’inizio del secolo produceva birra, poi sviluppò un piccolo reparto di impianti per il riscaldamento successivamente destinato alla cremazione civile. Proprio questo settore calamitò l’attenzione delle SS che gestivano il vicino lager e che si rivolsero ai Topf.
Come mai Ludwig, il direttore dell’impresa, ed Ernst Wolfgang, accettarono di essere coinvolti nell’ «incinerazione» di massa, così chiamavano lo smaltimento delle vittime? Non erano nazisti dalle granitiche convinzioni: come emerge dai documenti, infatti, s’iscrissero al partito nazionalsocialista prendendo l’ultimo treno, quando già Hitler era al potere. Non erano nemmeno antisemiti ma coltivavano rapporti di amicizia con famiglie ebree. Dai registri contabili peraltro risulta che non cumularono nemmeno cifre spettacolari. Però manifestarono un entusiasmo e una partecipazione incredibili all’avventura dell’ «incinerazione»: «Siate certi», scriveva Ernst Wolfgang ai responsabili dei lager da loro serviti, «che forniremo un sistema adeguato e ben funzionante, e ci raccomandiamo a voi con un «Heil Hitler».
Grandi fans del progetto furono poi gli ingegneri e i dirigenti Kurt Prüfer, Fritz Sander, Karl Schultze, Gustav Braun che vennero catturati dai sovietici e trasferiti in Russia. Prüfer in particolare si applicò a perfezionare la struttura dei forni il sabato e la domenica e chiese a Ernst Wolfgang e a Ludwig un premio in denaro: «Sono stato io a capire come creare i forni per la cremazione lavorando anche nel tempo libero. Questi forni sono davvero rivoluzionari, e posso supporre che mi concederete un bonus per il lavoro che ho fatto». Le maestranze partecipavano poi ai frizzi e lazzi degli ufficiali tedeschi che chiamavano scherzosamente le camere a gas «bagni speciali» e si permettevano feroci battute: «Ragazzi abbiamo finito? C’è ancora qualcuno da bruciare?».
I Topf e il folto gruppo di manager, installatori di forni ed esperti di ventilazione, ottennero risultati notevoli. Gli impianti che modificarono permisero ai lager di Buchenwald, Mauthausen, Dachau, Gross-Rosen e Auschwitz di accelerare spaventosamente i ritmi. Arrivando a cremare circa 4.500 corpi al giorno dal 1940 al 1944. In particolare i loro impianti di ventilazione migliorarono il funzionamento delle camere a gas che aumentarono le loro capacità distruttive.
La famiglia Topf e i dipendenti si difesero sostenendo di non essere gli unici in quel settore e ricordando che vi erano anche altre società, come la Kori di Berlino. Si definivano commercianti che non avevano dato alcun apporto all’Olocausto, al pari dei «fornitori di tavoli, sgabelli e armadi» dei lager. Quando capirono che queste menzogne non funzionavano, sostennero di essere stati ricattati e di aver temuto le rappresaglie dalle SS. Il gruppo dirigente fu condannato dai russi a 25 anni di lavori forzati ma dopo nove anni ottenne la libertà, mentre Ernst, che si era rifugiato nella Germania dell’Ovest, tentò invano di rimettere in piedi la rete di filiali dell’azienda.
Qual è dunque la spiegazione di tanta dedizione? A guidare i proprietari e le menti più brillanti della Topf&Figli furono, spiega l’autrice del saggio, l’ambizione personale, la competizione aziendale e le tante piccole rivalità che li spinsero a gareggiare per sviluppare la tecnologia. Riuscirono così a superare persino le più rosee previsioni delle SS. La cenere dei loro forni a volte era così densa che creava una fitta nebbia e i figli del comandante di Buchenwald non potevano raccogliere le fragole divenute tutte bianche.
Corriere 3.11.18
Vittorio Veneto senza retorica
L’Italia alla prova in guerra e pace
1918-2018 Oggi con il quotidiano un libro di Silvia Morosi e Paolo Rastelli sul primo conflitto mondiale
di Antonio Carioti
Il successo militare dell’autunno 1918 portò il tricolore a Trento e Trieste
Ma alla conferenza di Parigi la nostra delegazione commise gravi errori
Circola un’aria vagamente familiare nel libro 4 novembre 1918. Fu vera gloria? di Silvia Morosi e Paolo Rastelli, in edicola oggi con il «Corriere della Sera». Gli autori parlano di eventi successi cento anni fa, in ben altra situazione storica. Eppure qualche analogia sorge alla mente. Ricordano la situazione di oggi il gioco perverso degli egoismi nazionali, le recriminazioni reciproche tra diversi Stati e il rancore diffuso nelle popolazioni, alimentato da una parte delle classi dirigenti. Per l’Italia poi c’è anche un vizio antico: il vittimismo autoconsolatorio. Cresce il sospetto che i Paesi europei (ma anche gli Usa di Donald Trump) stiano dimenticando la lezione delle guerre mondiali. E dal lavoro di Morosi e Rastelli si possono trarre vari elementi per corroborare questa sensazione, soprattutto dal capitolo iniziale e da quello finale.
In mezzo ci sono le vicende conclusive della Prima guerra mondiale, ricostruite dagli autori in modo competente e attento, con l’assillo di separare i fatti dai miti. C’è da sfatare la leggenda eroica, enfatizzata a dismisura dal fascismo, che assegna al successo militare di Vittorio Veneto, nell’autunno 1918, una portata decisiva che in realtà non ebbe, dato che le forze austro-ungariche erano già logore e, dopo un’iniziale resistenza accanita, in pochi giorni si sfaldarono senza rimedio. Ma è opportuno anche smentire la versione limitativa, a volte interessata, di parecchi storici stranieri (ma non solo), secondo cui il fronte italiano non ebbe alcun rilievo nel quadro generale della Grande guerra e l’esercito asburgico, nei giorni dell’offensiva finale, era ridotto a una massa di sbandati ansiosi di arrendersi. Rastelli e Morosi hanno il merito d’inquadrare Vittorio Veneto nel contesto complessivo del conflitto, con l’unico approccio che permette di esprimere un giudizio equilibrato. Stiamo parlando di una lunga guerra di posizione, durata anni e contrassegnata dall’impiego massiccio di uomini e materiali: non possiamo valutarne le vicende con i criteri validi per le fulminanti campagne in cui era maestro Napoleone Bonaparte, solitamente concluse da una decisiva battaglia campale.
Fin qui la guerra. Ma i parallelismi possibili rispetto alla situazione odierna riguardano ovviamente il dopoguerra. Allora l’Europa aveva alle spalle un’immensa strage. Era un continente esausto e incollerito: non solo i vincitori tendevano a infierire sui vinti in modo miope e ottuso, ma nello stesso schieramento che aveva prevalso si manifestavano acuti contrasti.
Oggi l’Unione Europea è appena uscita (ma le ricadute non sono escluse) da una crisi economica lunga e dolorosa, che ha impoverito una parte consistente dei suoi abitanti, soprattutto nei Paesi più deboli, e vive con estrema apprensione, sconfinante a volte nell’isteria, il fenomeno migratorio che ne sta modificando la composizione etnica e demografica. Uno Stato importante come la Gran Bretagna l’ha appena abbandonata, aprendo un contenzioso su cui regna la più assoluta incertezza. La moneta unica, che doveva consolidarne l’integrazione, rischia invece di rivelarsi destabilizzante per le vistose asimmetrie tra i diversi sistemi economici. I problemi sono di gran lunga meno tragici rispetto al 1918, ma è simile la tendenza perniciosa degli Stati a chiudersi nel loro «sacro egoismo».
In tutto questo l’Italia appare il classico vaso di coccio tra quelli di ferro, più o meno come cento anni fa. Alla conferenza di pace, che si aprì a Parigi nel gennaio 1919, i nostri governanti andarono a pretendere il rispetto del patto di Londra, stipulato nell’aprile 1915, che gli eventi successivi della Prima guerra mondiale avevano reso decisamente obsoleto. Uno dei contraenti principali, la Russia zarista, non c’era più, immersa nella sanguinosa guerra civile postrivoluzionaria che avrebbe visto il trionfo dei bolscevichi. Al fianco dell’Intesa nel 1917 era scesa in campo, fornendole risorse decisive, una potenza che non aveva sottoscritto il trattato londinese, gli Stati Uniti di Woodrow Wilson. L’Austria-Ungheria era scomparsa dalla carta geografica, il che modificava il contesto in cui si era svolto il negoziato del 1915 e ci consentiva di rivendicare la città di Fiume, abitata in prevalenza da italiani, ma intanto al nostro confine orientale stava sorgendo la futura Jugoslavia, il cui nucleo duro, la Serbia, aveva pagato un prezzo enorme alla causa alleata e reclamava legittimamente un adeguato compenso. Invece di valutare con il necessario realismo la nuova costellazione geopolitica, il governo di Roma rimase prigioniero della sua rigidità, mentre l’opinione pubblica si rifugiava nel mito della «vittoria mutilata», una delle formule più efficaci e al tempo stesso più deleterie tra quelle inventate da Gabriele d’Annunzio, uno slogan ingannatore di cui molto si sarebbe giovato il nascente fascismo.
Ebbene, anche oggi la nostra classe dirigente non appare all’altezza di una situazione internazionale difficile e preferisce cercare consensi interni battendo sul tasto comodo, ma sterile, del vittimismo. Attacca di continuo l’Unione Europea facendo la faccia feroce, ma ne invoca contestualmente l’aiuto sul tema dell’immigrazione, dichiarandosi peraltro in sintonia con i governanti dei Paesi ex comunisti che, favoriti da una posizione geografica meno esposta, rifiutano qualsiasi forma di condivisione del problema con chi, come noi, si trova sul fronte caldo del Mediterraneo. Addebita all’euro e alle regole del patto di stabilità la colpa di guasti economici che hanno cause ben più profonde nella debolezza di un’economia dalla bassa produttività, ma poi comunque non ha il coraggio di andare fino in fondo contro la moneta unica, anche perché difficilmente potrebbe trovare a Bruxelles alleati su posizioni del genere.
Morosi e Rastelli rievocano l’abbandono della conferenza di pace da parte del presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando e del ministro degli Esteri Sidney Sonnino, nell’aprile 1919, un gesto melodrammatico e stizzoso che in realtà screditò ulteriormente il nostro Paese. Non potevano certo permettersi una rottura piena e non poterono far altro, poco più tardi, che tornare a Parigi con la coda tra le gambe. Una prova di debolezza abbastanza simile a quella fornita dagli attuali due partiti di governo, che dopo aver condotto per anni una campagna virulenta e demagogica contro l’euro, invocando il recupero di una illusoria sovranità monetaria, oggi dichiarano di non avere alcuna intenzione di portare l’Italia fuori dalla valuta comune.
Forse conviene fermarsi con le analogie, perché gli ultimi cent'anni non sono passati invano, per fortuna, ed eccedere nell’allarmismo sarebbe un errore. Però tanto basta a chiarire che il testo di Morosi e Rastelli non è soltanto un interessante viaggio nel passato, ma anche un utile vademecum per orientarsi meglio nella realtà di oggi.
Il Fatto 3.11.18
Basta un verso di Ovidio. E il mito diventa arte
Una mostra alle Scuderie del Quirinale e il libro di Paolo Isotta restituiscono al Sommo la sua grandezza
“Ovidio. Amori, miti e altre storie” prosegue fino al 20 gennaio
di Pietrangelo Buttafuoco
Da pochi giorni si è aperta alle Scuderie del Quirinale una mostra dedicata al bimillenario di Ovidio. Gioielli e affreschi antichi, alcuni di forma fallica e dedicati alle varie posizioni dell’accoppiamento, si alternano a quadri e sculture dal Medio Evo in poi. Alti e tragici miti, dalla morte di Adone alla caduta di Fetonte e a quella di Icaro, da Orfeo ad Atteone che – trasformandosi in cervo – viene sbranato dai suoi stessi cani. Poi meravigliosi e rarissimi codici. Consiglio di visitarla: con questa mostra la nostra patria si è lavata gli sputi dalla faccia, quelli che portava per l’ignavia mostrata verso uno dei più grandi Poeti mai vissuti, e proprio nostro, abruzzese di Sulmona. E l’Italia gli sputi dalla faccia per Ovidio se li è lavati due volte.
L’altra è con un volume – un evento per la cultura mondiale – ramificato com’è non solo nel mondo latino e greco, ma nella storia culturale italiana, francese, inglese, tedesca.
È La dotta lira. Ovidio e la musica (Marsilio, pp. 427, euro 22). L’autore – i lettori del nostro giornale lo conoscono bene – è uno dei più grandi nostri uomini di cultura, ma anche dei più amabili e simpatici amici, e dei più corrosivi nemici, che l’Italia possegga: Paolo Isotta. È un evento non solo per la sua altissima qualità letteraria, intellettuale e filosofica, ma perché è il primo mai dedicato al rapporto fra il Poeta di Sulmona e la musica.
Isotta spiega che Le metamorfosi e I Fasti sono il più ampio catalogo mitologico che mai la poesia abbia tentato. Nemmeno Omero e Virgilio hanno influenzato le arti della figura quanto il Poeta di Sulmona. Ma aveva pensato qualcuno che lo stesso vale per la musica? Nessuno: prima di “Paolino”. Lui si è messo a considerare il fenomeno storicamente. E si è accorto che, almeno dall’Orfeo di Poliziano (Mantova, 1480) alla Dafne di Strauss, 1938 (la ninfa che, ghermita da Febo, si trasforma in alloro), un filo ininterrotto lega Ovidio all’opera lirica (che nasce in suo onore: Dafne, Firenze, 1598). Alla sinfonia, al poema sinfonico, al “melologo”, alla cantata, al concerto, alla sonata.
Isotta scova cinque secoli di musica, che stavano lì, davanti agli occhi di tutti, ma attendevano qualcuno capace di vedere il filo che li lega. Monteverdi, Cavalli, Scarlatti, Pergolesi, Porpora, Händel, Gluck, Dittersdorf, Haydn, Berlioz, Liszt, Offenbach, Suppè, fino al trionfo di Strauss, sono i principali nomi toccati. E dico il trionfo di Strauss giacché questo sommo compositore, incurante di avanguardia, espressionismo, impegno politico, attraversa il mondo classico e Ovidio dall’Arianna a Nasso del 1916 a L’amore di Danae del 1942.
La Dafne è l’oggetto del mirabolante ultimo capitolo del libro perché Isotta lega questo capolavoro alle origini del teatro musicale e spiega che solo allo stile sinfonico moderno è dato addirittura simboleggiare con le sue architetture il processo della metamorfosi da uno stato all’altro dell’esistenza. Ciò che Ovidio fa coi suoi versi e che la musica non è pronta prima della fine dell’epoca classica e romantica. E per un altro motivo l’ultimo capitolo è dedicato a Dafne. Isotta si è accorto che più di trent’anni prima, in Alcyone, il Comandante Gabriele d’Annunzio ha rifuso in versi lo stesso mito, e con un virtuosismo e una profondità nella riflessione e rimeditazione sul mito che lo rendono pari allo stesso compositore. Avreste mai pensato che Strauss e D’Annunzio, i quali personalmente si odiavano, siano due fratelli nell’arte, e tutti e due figli di Ovidio? Doveva arrivare un napoletano a mostrarlo.
Questo non è un libro di un musicologo né scritto per musicologi. È un libro di storia della cultura e della poesia. È un libro sull’Europa dal Medio Evo in poi e sul suo rapporto con Ovidio. C’è la maestria di un filologo grecista e latinista, oltre che storico della musica. Ma, di tutti quelli di “Paolino”, il più piano stilisticamente. Alla fine, la Dotta lira, è un’opera letteraria, e quasi di narrativa, della quale i personaggi non sono solo le grandi figure della mitologia, Arianna, Medea, Apollo, Ercole, Giove, Giunone, Mercurio, Proserpina, Marte, Orfeo… Sono anche i poeti che hanno preparati i testi per i compositori traendoli da Ovidio. Sono i musicisti. Sono i pubblici d’Europa per cinque secoli. E personaggio è lo stesso Paolino, nel più letterario dei suoi libri. Nel più dotto, ma anche nel più piacevole.
Affrettatevi per goderlo e per farne incetta – in libreria – per le Strenne di Natale.
Lui mi ha detto: “I latinisti e i musicologi mi chiameranno concordemente un dilettante. Ma a sessantotto anni, ti immagini quanto me ne fotto…”.
https://spogli.blogspot.com/2018/11/repubblica-3_3.html