Repubblica 31.10.18
Camilleri "Come Tiresia la cecità mi rende più acuto"
Dal
5 al 7 novembre nei cinema lo spettacolo andato in scena in un’unica
serata al Teatro Greco di Siracusa, regia di Roberto Andò. Protagonista
lo scrittore
Intervista di di Silvia Fumarola,
ROMA
Ora mi chiederanno di andare a Hollywood a fare l’attore?». Andrea
Camilleri fa una di quelle sue risate roche irresistibili. L’aria
rilassata, spegne una sigaretta e ne accende un’altra. Ha la scorta in
un armadio, e lo sciroppo per la tosse sulla scrivania. «La passione per
Tiresia, aver vinto la sfida di recitare, mi ha fatto venire voglia di
fare altre cose» racconta seduto nel suo studio. «Il produttore Carlo
Degli Esposti dice che andare in scena mi ha fatto diventare più
giovane. Non è così, io dico che mi ha fatto crescere».
Conversazione
su Tiresia con la regia di Roberto Andò (e le riprese in alta
definizione di Stefano Vicario), di cui è stato protagonista per
un’unica serata al Teatro Greco di Siracusa approda nei cinema (300
sale) con Nexo dal 5 al 7 novembre. In scena nei panni dell’indovino
cieco Tiresia («cieco come me»), a 93 anni, per parlare del passato e
del futuro, con l’ironia caustica che è il suo marchio di fabbrica.
Camilleri, lei ironizza ma sa che ha commosso tutti?
(Ridacchia)
«Ma sì perché avevo detto quella frase finale un po’ ruffiana: "Spero
che tra cent’anni ci ritroveremo qui". Mi è stata suggerita dall’idea
dell’eternità».
In scena da solo al Teatro Greco ha avuto paura?
«La
paura è fondamentale per trovare il coraggio. Rivolsi a mio padre la
stessa domanda: "Quando andavi all’assalto avevi paura?".
Faceva
parte della Brigata Sassari, papà era tenente e fascista, Emilio Lussu,
antifascista, era il suo colonnello. Gli chiesi: papà come la metti? Mi
rispose: "Lussu poteva permettersi parecchie cose"».
La cosa che colpiva di più era il silenzio.
«Ha
colpito anche me, l’unico momento di vera tensione, quasi di spavento, è
stato proprio quel silenzio iniziale in cui malgrado avessi un orecchio
tappato dall’auricolare per ricevere i suggerimenti — di cui non ho
avuto bisogno — sentii le cicale. Ho pensato: non è possibile, sto
cominciando a dare i numeri.
Quella sera gli animali hanno avuto una parte importante».
In che senso?
«In
camerino ho sentito qualcosa che mi sfiorava le gambe: era un gatto,
che poi ha attraversato il palcoscenico mentre parlavo ed è venuto a
salutarmi alla fine.
Quello per me era il Genius loci. Mi ha rinfrancato».
Quanto si è preparato per il debutto da attore?
«Ho
lavorato tutti i giorni: non lavorare tutti i giorni è come avere la
barba lunga, mi fa sentire in disordine. Ma guardi che non è stato il
mio debutto».
Come no?
«Avevo fatto teatro nel 1950: Il
poverello di Assisi, con la regia di Orazio Costa. Facevo una parte più
lunga di Enrico Maria Salerno.
Lui diceva: "E il Papa?". Tre parole. La mia battuta era: "Senza il più piccolo libro?", che sono cinque.
Poi non sono mai più apparso in palcoscenico».
È disciplinato quando lavora?
«Disciplinatissimo.
Scrivo tutte le mattine, detto appunti. Ma ad agosto, quando è venuta
la ragazza a cui detto le mie cose, non ce l’ho fatta. Mi sono riposato
un mese, dopo Tiresia. Mi ha svuotato. A settembre mi era tornata la
voglia di lavorare».
Mai avuto dubbi sull’idea di andare in scena?
«Mai.
Quando Andò ha parlato con la mia curatrice Valentina Alferj ho detto
subito di sì, l’ho considerata una sfida con me stesso, con la memoria e
i miei 90 anni passati: è stato un modo per assicurarmi di essere vivo.
Mi è venuto subito in mente Tiresia per la cecità. Ma da quando ho
perso la vista ho la sensazione di vedere con più chiarezza. Poi ho
chiesto a Laura, la mia aiutante, di fare una ricerca su Tiresia. Era
incinta e doveva stare a riposo. Deve sapere che avverto sempre le
ragazze che vengono qui a lavorare: questa stanza aumenta la fertilità.
Credevo che mi avrebbe mandato una ventina di pagine, invece erano quattro faldoni».
Il dono della preveggenza è una condanna?
«Penso di sì, perché di ogni persona vedi dolori e dispiaceri.
Ma in certi casi avere un po’ di lungimiranza aiuterebbe».
Cosa l’ha affascinata in Tiresia?
«L’ambiguità. Per sette anni è stato compiutamente donna, poi è tornato uomo. Mi affascina l’idea.
Da
scrittore sono entrato nella testa delle donne ma spero di non
incontrare quelle dei miei libri, sarei imbarazzato dopo averle
possedute, create e molte uccise.
In Montalbano c’è una frase sul
femminicidio che risale a sette anni fa. Non bisognava essere Tiresia
per prevedere quegli sviluppi. Da ex uomo, penso che si debbano cedere
le armi alle donne. È ora che il pensiero femminile domini il mondo».
Che effetto le fa l’idea che il teatro conquisti il cinema?
«Ho risentito tutto lo spettacolo.
Ascoltare
le mie parole e non vedere nulla del pubblico è terribile. Ma lo
sentivo respirare, percepivo i respiri. Una delle mie necessità quando
parlo in pubblico è scegliermi una faccia per vedere le reazioni. Non
posso più farlo, non ho più quella risposta, ma avevo quella uditiva.
Una grande emozione».
Il momento più forte?
«Gli
applausi. Ma la cosa folle è che mi avevano messo una giacca di lana
cotta temendo che sentissi freddo. E il calore aumentava con gli
applausi».
Si capisce che quella di Tiresia non resterà un’esperienza isolata.
«Sto
pensando a una storia da almeno dieci anni, quella del condottiero
spagnolo Álvar Núñez Cabeza de Vaca che intorno al 1500 parte per
l’America con una spedizione e torna dopo nove anni da prigioniero degli
indigeni.
Quando ritrova i compagni è incapace di vestirsi con
gli abiti europei, non sa più dormire in un letto ed è diventato uno
sciamano. Da conquistatore viene conquistato. Dimentica la civiltà».
Oggi manca un Tiresia?
«Se
in Italia ci fosse una persona lungimirante non saremmo con lo spread a
300. Si sente una forte assenza di Tiresia perché al governo si ragiona
con un’ampiezza di vedute che va da oggi a 24 ore. Da che dipende?
Dalla
presunzione. E poi questo seminare odio è inaccettabile. Il discorso
della senatrice Liliana Segre sulle parole che possono diffondere l’odio
è bellissimo, Tiresia non usa mai la parola odio. Vendetta sì».
Il complimento più bello?
«Quello di Michele Riondino: "Andrea non sta recitando, sta testimoniando"».