domenica 11 novembre 2018

L’Espresso 9.11.18
The Huffington Post Usa.Ilhan Omar: «Io, somala, a Washington per costruire ponti»
Il razzismo. L’islam. L’impegno per l’uguaglianza. Parla la prima ex rifugiata a entrare al Congresso. «Sono donna, musulmana e nera. So cosa dicono di me. Per questo faccio politica. Per unire le diversità»
di Carol Kuruvilla


Nel Minnesota Ilhan Omar ha vinto, anzi stravinto, con quasi l’80 per cento dei voti. A 37 anni appena compiuti, sarà la prima ex rifugiata eletta nel Congresso americano. Nata a Mogadiscio, ultima di sette figli, è rimasta orfana di madre quando era molto piccola. Poco dopo è dovuta fuggire dalla sua terra perché in Somalia era scoppiata la guerra civile. Poi ha vissuto per diversi anni in un campo profughi in Kenya, con la famiglia. Aveva 12 anni quando è arrivata negli Stati Uniti, una tra i tanti dell’ondata di somali che si sono stabiliti nel Minnesota negli anni ’90. Come racconta in questa intervista (rilasciata prima della vittoria elettorale) la sua coscienza politica ha iniziato a formarsi quando aveva 14 anni, dopo aver iniziato a partecipare a riunioni del “caucus” democratico insieme a suo nonno. Entrata all’università pubblica del North Dakota, a Fargo, ha quindi iniziato a occuparsi di problemi legati alla nutrizione e alla salute nella comunità locale, per poi dedicarsi all’attivismo politico. Nell’agosto scorso ha vinto a sorpresa le primarie dem, ottenendo la candidatura al Congresso. Adesso è, tra l’altro, la prima parlamentare musulmana degli Stati Uniti, insieme alla compagna di partito Rashida Tlaib, dell’ala sinistra del partito democratico.
Signora Omar, iniziamo dalla sua vita appena è arrivata negli Stati Uniti dal campo profughi in cui si era rifugiata. Com’era? Come si è trovata?
«Quando sono venuta in America il primo problema era che non parlavo inglese. Conoscevo solo due parole: “Hi” e “Shut-up”, stai zitto. Nient’altro. Così a scuola era difficile, diciamo che ho dovuto affrontare molte sfide. Tornavo a casa ogni giorno piangendo e sentendomi male per i problemi che avevo con i miei compagni, alcuni almeno. Mio padre mi diceva di lavorare sodo per imparare la lingua e aveva ragione: appena riesci a comunicare, allora puoi costruire relazioni e amicizie. Se parli con le persone, a poco a poco scompare anche la tua diversità di immigrata, di musulmana, di africana, di nera. Parlando, le persone iniziano a vederti per come sei. È stato così che ho iniziato a capire che la mia missione sarebbe stata quella di costruire ponti tra le persone».
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E poi?
«Al liceo c’erano tensioni tra i vari gruppi etnici: i ragazzi neri nati in America, i neri africani, i latinos, i nativi americani, i nuovi immigrati di varia provenienza, perfino tra i musulmani arabi e quelli dell’Africa orientale. Del resto, se si mettono insieme ragazzi così eterogenei senza creare buoni programmi per costruire relazioni tra loro, inevitabilmente avrai scontri razziali e culturali. Di nuovo, ho cercato di costruire ponti: sapevo che dovevo lavorare per creare una comunità coesa, anche solo allo scopo di rendere a tutti più facile sopravvivere al liceo. Si trattava di trovare studenti che si considerassero come me costruttori di ponti e che lavorassero insieme con gli altri ragazzi, con gli insegnanti, con i dirigenti della scuola, il preside, insomma gli altri. Così abbiamo creato un’atmosfera in cui alla fine mangiavamo insieme, parlavamo a lungo, ci confrontavamo e cercavamo una mediazione tra i conflitti prima che sfociassero nella violenza. Tutto ciò ha reso i miei ultimi anni di liceo un’esperienza molto forte e gratificante».
E questo l’ha portata alla politica?
«Penso che abbia reso più ancora più acuto il mio desiderio di costruire ponti e lavorare in direzione della collaborazione. Bisogna sempre cercare di trovare i punti in comune per affrontare le questioni più importanti. E non scordarsi mai che nessuna persona da sola ha la soluzione dei problemi: questa può arrivare solo dalla comunità, dalla collaborazione».
Lei è anche musulmana. E aveva vent’anni quando ci fu l’attentato alle Torri Gemelle...
«Per me la fede islamica è sempre stata molto importante. Sa, uno dei suoi valori fondamentali è che bisogna sempre cercare di costruire il consenso attorno a una decisione. Ad esempio, quando si tratta di capire se qualcosa è permesso o no nell’Islam, di solito questo avviene attraverso una discussione e le persone devono raggiungere un consenso comune per poter decidere qualcosa. Quindi questa idea di costruzione del consenso era quasi innata in me, faceva parte della fede in cui sono nata, nella cultura in cui sono cresciuta. Questo principio è fondamentale per quello che faccio»
Anche nell’attivismo politico?
«Penso che una grande parte degli insegnamenti della mia fede si riassuma nel principio che dobbiamo intraprendere insieme il cammino verso l’uguaglianza, siamo stati tutti creati uguali al cospetto di Dio, tutti abbiamo ​​diritto alla libertà e a un uguale accesso ai nostri diritti. Partendo da questa premessa, io lavoro per l’uguaglianza e per assicurare che i nostri sistemi siano aperti a tutti».
Quali sfide prevede che dovrà affrontare?
«Voglio continuare a cercare di costruire un consenso generale, in modo da non affrontare i nostri problemi in un’ottica particolaristica. Io rappresento una comunità certamente particolare, ma devo lavorare al servizio di tutti. Affrontare la politica in questo modo è una sfida perché non è quello che la maggior parte della gente si aspetta. Ed essendo una donna somala musulmana proveniente dall’Africa orientale, sono esposta alle critiche di molte persone che cercano di farmi passare come una che difende un gruppo particolare. Voglio essere al servizio di tutti».
Quest’anno abbiamo visto molti musulmani organizzare campagne elettorali. Che cos’è stato a risvegliare questa coscienza politica?
«Questo non è stato un turno elettorale come qualsiasi altro in cui puoi startene in disparte e dire che ti lascia indifferente. Ecco perché molte persone si sono mobilitate in massa. Stiamo finalmente prendendo coscienza che le cose potrebbero finire molto male. È la prima volta nella mia vita e probabilmente nella storia della nostra nazione in cui abbiamo politici che cercano consensi facendo leva sulla paura e sull’islamofobia. Credo che stiamo rendendoci conto degli effetti collaterali di quel tipo di retorica, con tutti gli attacchi odiosi e i crimini di intolleranza che vediamo aumentare, e le manifestazioni di odio verso i bambini e gli adulti che potrebbero essere percepiti come musulmani. Dobbiamo evitare di renderci corresponsabili della catastrofe incombente e contribuire a imprimere una diversa direzione alla storia».
Qual è la sua più grande speranza per la sua carriera di rappresentante politico?
«Spero che la mia elezione dimostri che possiamo effettivamente correre in aree dove non tutti quelli che ci vivono ci assomigliano o hanno un’identità condivisa con noi. Non è una maggioranza della comunità musulmana che sta influenzando la mia elezione, anzi siamo una minoranza nel mio collegio. Spesso, quando si tratta di minoranze e di donne, siamo incoraggiati a scendere in campo solo quando i dati demografici sono a nostro favore - e siamo scoraggiati quando non lo sono. Spero che la mia candidatura consenta alle persone di avere l’audacia di incoraggiare le persone che non rientrano in un particolare gruppo etnico o demografico a mobilitarsi. E a credere nel loro messaggio e nella buona disposizione degli elettori a scegliere qualcuno che ritengono che condivida il loro orientamento. E non necessariamente la loro identità».
(Copyright The Huffington Post Usa.
Traduzione Mario Baccianini)