La Stampa 27.11.18
Tutti i modi del Talmud per chiedere la pioggia
di Elena Loewenthal
Potrà
sembrare strano per una lingua che nasce nell’aridità del deserto, ma
l’ebraico ha un lessico variegato per dire «pioggia»: la più amata è
certamente la prima della stagione, che si attende quasi quanto il
Messia.
Il trattato Ta’anit del Talmud, oggi in traduzione
italiana a cura di Michael Ascoli nel contesto del «Progetto Talmud»
finanziato dal ministero dell’Istruzione e della Ricerca, è dedicato ai
tempi e ai modi del digiuno ebraico. Che non è mai una mortificazione
fisica fine a sé stessa, ma racchiude sempre vari livelli di
significato. Il primo capitolo del trattato è interamente dedicato alla
pioggia - e alla benedizione che essa porta con sé - , a ciò che si ha
da fare quando non arriva: «Non si richiede la pioggia se non nel
periodo vicino alla stagione delle piogge».
Il digiuno che si
pratica per la pioggia diventa un modo come un altro per dialogare con
il Signore. Il trattato Ta’anit prosegue con una ricca disamina dei
modi, dei momenti, delle preghiere prescritte per i digiuni. Spiega
quelli «canonici» - dal 9 del mese di Av che commemora la caduta del
Tempio di Gerusalemme a quello del Kippur, il giorno dell’Espiazione.
Questo momento solenne del calendario ebraico è, insieme al 15 del mese
di Av, il «più festivo per Israele». Se di quest’ultimo è detto che «fu
il giorno in cui fu permesso alle tribù di sposarsi fra loro», il
digiuno di Espiazione è un «giorno di perdono e assoluzione», ma anche
«il giorno in cui furono date le seconde tavole della Legge». Vita e
memoria, fede e dialettica, si intrecciano sempre nelle parole del
Talmud.