Corriere 27.11.18
Alle origini della mafia
Un saggio di
Salvatore Lupo (Donzelli) ripercorre le vicende di Cosa nostraa partire
dal XIX secolo. L’autore smentisce che le cosche siano state favorite
dagli americani e avanza forti riserve sulle teorie di carattere
complottista
Un «frutto tossico» dei moti siciliani che rovesciarono il dominio borbonico
di Paolo Mieli
La
mafia nacque a metà Ottocento da una costola in un certo senso della
«rivoluzione» siciliana. Questa in sintesi la tesi del libro — La mafia.
Centosessant’anni di storia tra Sicilia e America — di un grande
studioso di questa materia, Salvatore Lupo.
Il libro tira le somme
di una serie di precedenti lavori e sta per essere pubblicato da
Donzelli. Qualche lontana origine del fenomeno — sostiene Lupo — può
essere rinvenuta nel partito democratico del proprietario terriero
Francesco Bentivegna il quale nel 1848 a Palermo guidò un manipolo di
uomini per sostenere l’insurrezione antiborbonica e successivamente si
collegò con i circoli radicali che — dopo la sua morte — avrebbero
ispirato la sfortunata impresa di Carlo Pisacane a Sapri; lui nel
frattempo aveva mobilitato una «squadra popolare» per «sollevare»
nuovamente Palermo, ma era stato catturato e fucilato dai soldati
borbonici. I suoi seguaci nel 1860 si schierarono con la corrente
radicale garibaldina. Suo fratello, Giuseppe Bentivegna, nel 1862
sarebbe stato a fianco di Garibaldi sull’Aspromonte. Identiche
considerazioni valgono per Giovanni Corrao, anche lui rivoluzionario del
1848, finito poi in prigione e in esilio. Mazziniano «spinto», Corrao
fu con Garibaldi al tempo dei «Mille» e lo seguì fino alla battaglia
finale sul fiume Volturno. Cospiratori antiborbonici erano stati anche
due amici di Corrao, Giuseppe Badia e Francesco Bonafede.
«È
possibile che i Corrao e i Bentivegna», scrive Lupo con le dovute
cautele, «si siano rapportati, lungo il loro percorso, anche ad elementi
definibili come proto mafiosi». Quanto a coloro, prosegue Lupo, che
furono qualificati come capimafia in tempi successivi, vale a dire in
età postunitaria, «troviamo nella loro biografia non pochi punti di
contatto con l’esperienza rivoluzionaria». In questo senso Lupo crede
«si possa dire che la mafia rappresentò il frutto tossico di una
stabilizzazione post rivoluzionaria».
Come ciò avvenne lo si può
capire da un opuscolo pubblicato nel 1864 dal senatore della sinistra
«moderata» Nicolò Turrisi: Cenni sullo stato della sicurezza pubblica in
Sicilia. Turrisi racconta come sia nel 1848, sia nel 1860 nell’isola
«era in armi tutta la vecchia setta dei ladri, tutta la gioventù che
viveva col mestiere di guardiani rurali, e la numerosa classe dei
contrabbandieri dell’agro palermitano». Poi, dopo l’impresa garibaldina,
era mancato un governo in grado di restaurare l’ordine, sicché a quella
setta di «tristi» si affiliarono altri personaggi della stessa risma.
Turrisi, nota Lupo, non usa il termine «mafia», ma ricorre ad altre
parole chiave: «setta» appunto, e poi «camorra», «infamia», «umiltà». In
che senso «umiltà»? Spiega Turrisi: «umiltà comporta rispetto e
devozione alla setta ed obbligo di guardarsi da qualunque atto che può
nuocere direttamente o indirettamente agli affiliati». Due anni dopo lo
stesso Turrisi chiamerà la setta con il suo nuovo nome, mafia,
testimoniando davanti alla Commissione parlamentare sulla rivolta del
1866. Dirà: questi uomini armati «si fanno o si impongono guardiani
della proprietà; proteggono le proprietà e ne sono protetti; ma restano
malandrini; la Mafia fu protetta da’ signori che se ne valsero nel ’48».
E il cerchio si chiude.
La prima volta che il termine «maffia»
(con due effe) compare in un documento governativo è in una relazione
del prefetto di Palermo Filippo Gualterio (nel 1865). Il funzionario
spiegava che la mafia era una specie di «camorra», un’«associazione
malandrinesca» in rapporto con i «potenti», a suo tempo guidata dal già
citato Corrao e ora capeggiata dal suo sodale Badia. In altre parole «la
faceva coincidere col partito repubblicano, col chiaro intento di
delegittimarlo», osserva Lupo. L’operazione politica di Gualterio
consisteva nel «mettere insieme promiscuamente l’aspetto politico e
quello criminale».
Il primo giuramento di mafia registrato in un
rapporto di polizia è del 29 febbraio 1876. Il rito, scrive Lupo, ci
rinvia non solo al futuro della mafia, ma anche al passato della
rivoluzione, in particolare alle «vendite» carbonare e a quei patti
«giurati» (di cui dicono le fonti sul 1848), in forza dei quali il
popolo prometteva di seguire le classi superiori nella lotta contro il
dispotismo borbonico, ma impegnandosi a non mettere in discussione
l’ordine sociale». Dopodiché la mafia non solo trasse originariamente
suggestioni o modelli dalla massoneria, ma condivise con la stessa
massoneria «alcuni caratteri di fondo». Qui Lupo afferma — pur senza
«voler criminalizzare la tradizione massonica», mette in chiaro — che
«le cosche mafiose e le logge massoniche sono società di confratelli che
si basano sull’idea del mutuo sostegno, usano rituali barocchi per
l’ammissione dei neofiti, puntano sul mantenimento del segreto». E in
questo sono assai simili tra loro.
Nel 1874 l’ultimo governo della
Destra storica, guidato da Marco Minghetti, propose una legge per
l’ordine pubblico, una legge «straordinaria» e specifica per la Sicilia.
Minghetti citò la statistica sugli omicidi del 1873 che vedeva l’isola
in testa tra le regioni d’Italia, con un omicidio ogni 3.194 persone,
laddove la Lombardia era in coda, con un ucciso ogni 44.674 abitanti. Il
prefetto di Palermo, Giovacchino Rasponi, protestò per il varo della
«legge straordinaria» e si dimise. Quello di Caltanissetta, Guido
Fortuzzi, si disse, invece, entusiasta e volle specificare che l’idea di
governare i siciliani «con leggi e ordinamenti all’inglese o alla
belga, che suppongono un popolo colto e morale come colà o come almeno
nella parte superiore della penisola», implica «un azzardoso e terribile
esperimento». Destinato a fallire.
Successivamente i sospetti di
collusione si spostarono sulla destra per iniziativa del procuratore
generale del re Diego Tajani, che ebbe uno scontro con il questore di
Palermo Giuseppe Albanese, da lui accusato di essere il mandante di una
catena di omicidi. Nel giugno del 1875 il caso arriva in Parlamento,
dove il deputato della Sinistra Francesco Cordova puntò l’indice contro i
banchi governativi: «Signori del governo», urlò, «il centro della
maffia è nelle fila della vostra forza pubblica, i manutengoli siete
voi». E quando Leopoldo Franchetti con Sidney Sonnino andò a trovare
Tajani prima di «scendere» — tra il marzo e il maggio del 1876 — a
studiare il «caso siciliano», l’uomo del re rivelò loro che la
degenerazione del governo della Destra in Sicilia era cominciata, a suo
avviso, nel 1866-67 essendo prefetto Antonio Starabba, marchese Rudinì.
Il quale Rudinì, disse Tajani, «principiò a impiegare assassini contro
assassini, per modo che per un assassino che distruggeva ne creava
quattro».
E l’uso della forza per combattere la mafia? Negli anni
iniziali della storia d’Italia, quando il Paese fu governato dalla
Destra storica (1861-76), «ancora non era ben consolidato il sistema
delle garanzie liberali e si era appena avviato il tormentato percorso
verso la democrazia politica». La prima battaglia di quell’epoca contro
la mafia fu combattuta sotto il segno di un sistema di governo
centralistico, autoritario, che non disdegnava di far ricorso allo stato
d’assedio e di affidarsi ai militari. Accadeva che «per difendere la
propria rozza idea di legalità, indulgesse ad ogni genere di sostanziale
illegalismo». In alcuni periodi storici, almeno due, «la lotta alla
mafia — sostiene Lupo — confinò con la negazione di valori, che per noi
sono irrinunciabili, di rispetto dei diritti individuali e collettivi,
insomma di libertà». La mafia, è vero, rappresenta una patologia delle
relazioni sociali e dei sistemi rappresentativi. Ma, afferma Lupo,
alcune delle soluzioni che storicamente sono state proposte possono ai
nostri occhi essere considerate peggiori del male. Dopodiché vanno
annotate anche le due stagioni, quella tardo ottocentesca della Sinistra
storica e quella della prima età repubblicana, che Lupo definisce del
«lungo armistizio».
Ne parlò per primo, subito dopo la Grande
guerra, il giurista Santi Romano, il quale notò come ai suoi tempi
l’«ordinamento giuridico maggiore» (lo Stato) si mostrasse tollerante
verso quelli «minori» (le associazioni) reagendo solo contro quelle che
ne minacciavano il potere (le organizzazioni rivoluzionarie). La mafia
poteva agevolmente essere collocata in questo schema. Sotto la minaccia
delle leggi statuali, scriveva Santi Romano, «vivono spesso, nell’ombra,
associazioni, la cui organizzazione si direbbe quasi analoga, in
piccolo, a quella dello Stato: hanno autorità legislative ed esecutive,
tribunali che dirimono controversie e puniscono, agenti che eseguono
inesorabilmente le punizioni, statuti elaborati e precisi come le leggi
statuali». Esse dunque, proseguiva Santi Romano, «realizzano un proprio
ordine, come lo Stato e le istituzioni statualmente lecite».
Lo
Stato italiano (liberale-monarchico, fascista e repubblicano) ha
oscillato tra fasi di tolleranza e fasi di repressione. Ma le prime sono
state assai più lunghe delle seconde. Lo storico propone un paragone
tra la lotta alla mafia di Cesare Mori (1926-1929) e quella degli anni
Ottanta, rilevandone le differenze a partire da quelle concettuali. Il
fascismo «aborriva l’idea di una spinta dal basso nonché di un’autonoma
partecipazione della società civile» e «sosteneva l’incompatibilità tra
logiche liberal-democratiche da un lato e legalità dall’altro». Sul
piano pratico la repressione fascista fu pesante, «spesso
indiscriminata» e «si accompagnò ad ogni genere di abuso». Però dai
processi di quell’epoca la grande maggioranza degli imputati «uscì
bene»: molte delle condanne furono di «modesta entità» e seguì
un’amnistia. Niente a che vedere, sottolinea l’autore, con le
pesantissime pene inflitte ai mafiosi dai tribunali della Repubblica a
partire dal 1985-86.
Lupo non crede alla «leggenda» («priva di
qualsiasi base documentaria») stando alla quale lo sbarco in Sicilia del
luglio 1943 sarebbe stato «il frutto di un complotto tra mafiosi e
servizi segreti statunitensi». E anche a proposito della strage di
Portella della Ginestra (1° maggio 1947) non gli sembra «sia venuto
qualcosa di serio dai vari tentativi di dimostrare che gli americani
abbiano avuto in essa qualche responsabilità», mentre «è vero», concede,
«che, in generale, intorno alla vicenda del bandito Salvatore Giuliano
si intrecciarono complotti a ogni livello». Molti sono stati quelli che
(in Italia e altrove) hanno ricondotto i successi della mafia nel
secondo Novecento alle «trame del governo statunitense o delle sue
agenzie di sicurezza, nell’ambito di strategie della tensione destinate
ad inquinare in permanenza la vita democratica della nostra Repubblica».
Si tratta, per Lupo, di una tesi «che ha avuto fortuna nella cultura di
sinistra, sinistra che è stata a lungo antiamericana per definizione».
Ma questa tesi ha spopolato anche «su altri versanti che antiamericani
non lo sono stati mai».
Ora, secondo l’autore, «può darsi che, nei
giochi complicati dei servizi segreti, qualche spezzone di qualche
agenzia statunitense abbia tramato con qualche banda mafiosa americana o
siciliana». Però in sostanza l’unica cosa «provata» è questa: «Più
volte il governo statunitense intervenne, anche su sollecitazione
dell’agenzia federale antidroga (il Narcotic Bureau) perché le autorità
italiane facessero qualcosa contro la mafia, ottenendo scarso successo».
Nient’altro.
Lupo si dice consapevole che solo parzialmente la
ricerca può illuminare gli spazi torbidi oscuri in cui si sviluppa
questo fenomeno, la rete di intrighi che «costituisce la storia della
mafia». Ritiene però che «la storiografia possa fare la sua parte, dal
punto di vista conoscitivo e anche da quello civile, evitando di
accreditare le mitologie del Supercomplotto». Sottraendosi cioè alla
tentazione di «seguire la china della discussione pubblica, che troppo
spesso si ubriaca dell’immagine della mafia come invincibile
superpotere: finendo per risolversi, quali che siano le sue intenzioni,
in una sottile apologia». Un’apologia che rischia di provocare un danno
non lieve, che va ad aggiungersi a quelli provocati dalla mafia in sé.