La Stampa 17.11.18
Uccisi a 7 e 9 anni dalla mamma
Lettera al marito: “Ora soffri tu”
L’infermiera
si è suicidata: aveva preso i farmaci in ospedale e preparato
l’iniezione I vicini di casa: “Non salutava più. Ora anche Osvaldo
rischia di fare una pazzia”
Una donna di 48 anni, Marisa Charrère
(sopra) ha ucciso i figli e poi si è tolta la vita. È accaduto in
un’abitazione nel centro di Aymavilles, paese a pochi chilometri da
Aosta
di Lodovico Poletto
Dicono che Marisa non
abbia mai detto una parola a nessuno delle sue pene. E dicono anche che
il piano lo abbia studiato per settimane, ostaggio di quella
disperazione che si portava dentro. Marisa ha preso i farmaci in
ospedale e ha preparato il veleno. Marisa ha ucciso i suoi bambini con
una puntura. Poi ha scritto al marito: «Mi hai spento il sorriso». Mi
hai fatto soffrire: «Adesso soffrirai tu». Poi ha afferrato l’ultima
siringa, se l’è piantata nel braccio e si è lasciata andare tra il frigo
e il tavolo da cucina.
Marisa Charrère era un’infermiera del
reparto di Cardiologia dell’Ospedale di Aosta. Vivien e Nissen avevano 9
e 7 anni ed erano bellissimi come lo sono tutti i bimbi a quell’età. E a
guardarla adesso, ventiquattr’ore dopo che l’orrore è stato scoperto,
viene da pensare che questa non è soltanto la storia di un
omicidio-suicidio. Questa è una vendetta. «Dì a tutti che i bimbi sono
morti per colpa del gas» ha scritto Marisa su quei fogli. Come se
potesse salvare almeno la faccia davanti alla gente di Aymavilles,
tremila anime, le montagne che fanno da sipario in questa Valle d’Aosta
che sembra custodire troppe storie malate di mamme assassine.
La
cronaca di questa vicenda pazzesca, e non ancora del tutto chiarita,
racconta che verso la mezzanotte di giovedì Osvaldo Empereur, il marito
di Marisa, è rientrato a casa. E che quando ha scoperto che il suo mondo
non c’era più, si sia messo a gridare così forte che mezzo paese lo ha
sentito. Ed è corso in piazza, davanti alla chiesa, dove ci sono il
lavatoio e la scala che porta alla casa di questa tragedia assurda. Lui
era lì, sugli scalini, piegato sulle ginocchia, che piangeva e gridava. E
Simone Reitano, un ragazzone che abita lì vicino, cercava di calmarlo,
facendogli le carezze sulla testa, come si fa con gli animali feriti.
Dodici
ore più tardi la casa di Marisa e Osvaldo ha le porte e le finestre
sbarrate da scuri di legno massiccio. Lui è in ospedale, gli hanno dato
dei sedativi. Chi lo ha incrociato l’altra notte, invece, racconta che,
come una nenia, ripeteva i nomi di Vivien e di Nissen. Su di lei, su
Marisa, neanche una parola. Come se non esistesse più, o addirittura non
fosse mai esistita. Come se avesse compreso il perché di questa
vendetta, di questa strage che gli ha tolto tutto. Carlo Introvigne il
magistrato che deve far luce su questa storia dice: «Addosso a quella
donna gravava il peso insopportabile delle avversità di tutta una vita».
Che vuol dire tutto e niente. Dentro cui puoi farci stare il dolore per
la morte di un fratello, qualche anno fa, e una spiegazione qualunque a
quella frase che nella lettera suona più o meno: «Adesso tocca a te
soffrire». Come se uccidere i figli fosse la strada più atroce pensata
per fargli espiare una colpa «enorme». Di cui, però, in paese nessuno
riesce - o vuole - immaginare la natura.
E allora qual era il
segreto di Marisa e di Osvaldo? Che cosa c’era dietro i silenzi di lei
professionista integerrima all’ospedale. Al bar da «Quota 8000» , alle
quattro del pomeriggio, oste e cliente s’indignano per le voci. «Io sono
stato con loro a cena in trattoria. Dovevate vedere com’era paziente». E
lui? «Eh, se non gli stanno vicino quello adesso è capace che fa una
pazzia».
Se si vuole capire com’era lui bisogna però andare a
bussare a due metri da questa casa sprangata. Antonio, il pizzaiolo
calabrese, sa tutto, o quasi. Osvaldo? «Un tipo curioso, brillante
simpatico» Marisa? «La conosco poco, la vedevo raramente». Facevano vite
separate? «Non credo, ma da me veniva soltanto lui, e a volte Vivien.
Il bimbo l’ho visto l’ultima volta a inizio novembre».
E Marisa?
L’ultimo ricordo è della mamma di un alunno che frequenta le elementari
del paese. Era il giorno in cui gli insegnanti incontrano i genitori.
«Eravamo sedute vicino. Le ho domandato se aveva una penna per prendere
due appunti. Neanche mi ha guardata: mi ha trattata come se fossi
trasparente». Che è un po’ quel che dicono tutti da queste parti: non
salutava quasi più nessuno. Marisa già pensava alla sua vendetta. Tre
siringhe e un po’ di farmaci per uccidere. Due fogli e una penna per
scrivere - seppur con altre parole- «Ti odio» a chi l’aveva fatta
soffrire.