lunedì 19 novembre 2018

ItaliaOggi 17.11.18
Diritto & Rovescio

Esplode la polemica sull'opera letteraria di Ezra Pound, uno scrittore Usa che aderì alla Repubblica di Salò. Il lettore di un grande quotidiano interviene dicendo: «Alcuni grandi scrittori del Novecento sono stati fascisti, nazisti, stalinisti e tra questi Cèline, Heidegger, Hamsun. Per questo devono godere di extraterritorialità? Proprio perché intelligenti e sensibili la loro adesione al totalitarismo fascista è ancora più degna di biasimo». Sembra un testo oggettivo. Ma proviamo a rivederlo con la moviola per capire se lo è. Calimani pare mettere assieme i bestiali totalitarismi del ventesimo secolo. E infatti dice: «Fascisti, nazisti, stalinisti». Primo, però, elenca «fascisti e nazisti» che sono la stessa cosa. Poi parla di stalinisti. Due a uno. Secondo, evita di parlare di comunisti, come se gli stalinisti non fossero tali. E quando elenca gli autori da demonizzare tra «fascisti, nazisti e stalinisti» cita solo Cèline, Heidegger e Hamsun, cioè autori nazifascisti. Gli altri sono scomparsi. Calimani è diritto come la torre di Pisa. Si presenta come analista equidistante. Ma è solo distante dalla parte che lui coccola. Tanto per capire.

La Stampa 19.11.18
Luis Sepúlveda
“Coraggio e fantasia: la sinistra deve ispirarsi a Gramsci”
intervista di Carlo Grande


Luis Sepúlveda faceva parte della scorta di Allende, il golpe dell’11 settembre 1973 l’ha marchiato a fuoco. Ha conosciuto la dittatura, la galera, l’esilio, ha tenuto in tasca l’orribile «passaporto bianco» dell’apolide. Dopo il vis-à-vis con la cruda realtà e il fascismo, continua ancora a combattere e a scrivere fiabe. Ha molti nipoti, «Sei!» dice sorridendo.
L’ultima a solcare i mari della letteratura, la Storia di una balena bianca raccontata da lei stessa (Guanda), è una sorta di prequel di Moby Dick. Ma soprattutto l’occasione per mettere in scena un animale ribelle, un leggendario difensore di balene: «La leggenda è una forma di spiritualità», dice. «Le fiabe sono un genere letterario per tutti, non solo per i bambini. E sono una grande metafora, che permette di umanizzare gli animali e capire meglio gli umani. Inoltre amo la scrittura con una grande dose di poesia».
«Si racconta - scrive Sepúlveda - che il 20 novembre 1820 nelle acque dell’Oceano Pacifico, lungo la costa del Cile, davanti all’Isola Mocha, un grande capodoglio bianco attaccò e affondò la baleniera Essex, salpata dal porto di Nantucket, nell’Atlantico settentrionale, quindici mesi prima del naufragio. Si racconta che l’enorme capodoglio bianco attaccò la Essex perché i ramponieri avevano ucciso una balena femmina e il suo piccolo. Si racconta che furono necessarie varie navi per riuscire finalmente a catturare il grande capodoglio bianco chiamato Mocha Dick […]. La testimonianza dei superstiti della Essex,confermata dagli altri balenieri che avevano visto il grande cetaceo, permise qualche tempo dopo a un doganiere di nome Herman Melville di scrivere Moby Dick».
Sepúlveda, è un omaggio a Melville?
«Indirettamente. Nel suo capolavoro, da lettore, mi è sempre sembrato che qualcosa non fosse abbastanza presente: la balena».
La sua balena è consapevole e combattente.
«Sì, da quieto abitante del mare, dopo aver conosciuto gli umani (l’unica specie che fa guerra ai propri simili), rompe il silenzio e si ribella. Vede le baleniere e gli arpioni, dialoga con un bambino della Gente del Mare, i Lafkenche, che trattano le balene con rispetto, che hanno un patto con loro».
ILafkenchesono di etniamapuche: cosa succede agli indigeni «sotto il cielo grigio del Sud del Mondo»?
«Il genocidio e la guerra continuano: pochi giorni fa è stato ucciso a sangue freddo dalla polizia cilena un giovane attivista, Camillo Catrillanca. Oggi i Mapuche sono quasi il 20 per cento della popolazione cilena, chiedono la restituzione delle terre che appartenevano loro da sempre. L’unica risposta dello Stato cileno è la repressione. Ma sono un popolo resistente, continueranno a combattere».
A cosa bisogna ribellarsi oggi?
«Al conformismo, al pensiero che le profonde ingiustizie del sistema neoliberista - milioni di persone abbandonate alla miseria e a una vita precaria - siano normali. La precarietà del lavoro e del salario, della pensione, dell’educazione e della sanità non sono normali. È il sistema economico che non funziona. La grande sfida è immaginarne uno migliore. Pensare che il mercato sia un grande regolatore, che più libertà di mercato significhi più democrazia, è sbagliato. Crescono non gli interessi generali, ma quelli di una minoranza».
A proposito, come sta la sinistra?
«Dopo il crollo del muro di Berlino ha perso in parte i riferimenti. Deve rinnovarsi, affrontare nuovi problemi senza le vecchie ricette. Contro la speculazione economica l’arma dello sciopero è debolissima, come gli Stati. La sinistra mondiale deve fare uno sforzo immaginativo, elaborare un progetto di riforma e appellarsi al popolo: nuove idee e più partecipazione. Gramsci era l’intellettuale più attivo e coraggioso di tutta la sinistra: non era disciplinato, aveva una curiosità enorme, lottava contro l’indifferenza».
Domani [oggi per chi legge, ndr] lei tornerà nella città di Gramsci [ride]. ConosceSantiago, Italia, il documentario di Nanni Moretti sull’ambasciata italiana nei giorni del golpe, in programma al Torino Film Festival?
«Non lo sapevo. Ho una grande ammirazione per Nanni Moretti e sono molto curioso. La prossima generazione dovrà lottare per la giustizia sociale, ma dovrà avere la capacità di uno sforzo rivoluzionario e immaginativo».
Come vede il futuro?
«Con grande speranza: i giovani sanno scendere in strada a protestare e trasformarsi in movimento. In Germania crescono i nuovi Verdi, in loro vedo il desiderio di fare una politica seria, di lungo periodo, con responsabilità pubbliche».
Più onestà e più concretezza?
«Essere di sinistra significa essere onesti. Come Mujica, che quando è diventato presidente dell’Uruguay ha avuto la saggezza e l’onestà di spiegare al popolo di essere contro il capitalismo ma di non avere ricette facili o populiste. La rivoluzione è un bellissimo sogno, ma bisogna essere concreti. L’unica forma per manifestarsi uomo di sinistra è avere un’etica rigorosa, così la vedo anche per me stesso. Altrimenti sarei solo un ciarlatano».

La Stampa 19.11.18
La sinistra nel vortice populista
di Franco Bruni


Si lamenta giustamente l’assenza di vera opposizione ai gialloverdi, puntando il dito sulle divisioni e i personalismi che bloccano il Partito Democratico. Vanno però tenuti presenti almeno due fattori.
Primo. La «sinistra» italiana (e non solo italiana) ha sempre sofferto la tendenza a dividersi fra chi accetta la modernizzazione e la vuol cavalcare in senso progressista e chi la ostacola vedendola come un pericolo per la giustizia sociale. La divisione assume aspetti molto diversi con passare dei decenni ma nel fondo ha qualcosa di invariante. Dalla separazione dei comunisti dai socialisti a quella dei socialdemocratici dai socialisti e così via, mille divorzi, fino alla separazione fra Renzi e Bersani e oltre. Divorzi tutti diversi ma con un tema costante. Divisioni che indeboliscono la «sinistra», cui insisto a mettere le virgolette perché il concetto è diventato nel frattempo sfuggente e, secondo alcuni, superato. Divisioni il cui tema comune si può però comprendere. Soprattutto in materia economica, la modernizzazione può essere temuta da chi nel mercato non vede un’opportunità di crescita per tutti ma un pericolo dal quale è difficile proteggere i più deboli. Non è facile trovare una sintesi fra i due atteggiamenti, una sintesi che sia abbastanza unitaria da esprimersi in un solo partito o in una stretta coalizione. Per cercare una soluzione non serve stracciarsi le vesti facendo finta che il problema sia trascurabile.
Secondo. La rincorsa fra la domanda e l’offerta di populismo ha ormai dato luogo, in Italia e altrove, a un circolo vizioso, un vortice dal quale è difficile uscire. L’insoddisfazione di molti elettori per le difficoltà di un mondo che cambia son state cavalcate opportunisticamente dai politici che le hanno alimentate con semplicismi e falsità. La ricerca di consenso di breve periodo ha indicato nemici inesistenti, incitato proteste senza proporre soluzioni fattibili, dati per scontati rimedi controproducenti. Gli eletti evitano la responsabilità di decisioni necessarie negando di essere delegati a decidere, presentandosi come trasmettitori diretti di decisioni del «popolo». Così si autoalimentano e ingigantiscono come valanghe, soprattutto tramite i social media, narrazioni che travisano i problemi, allontanano le soluzioni, tornano a incrementare le insoddisfazioni e il populismo che non le risolve. È un clima travolgente nel quale voci di opposizione ragionevole suonano strane. Un gran numero di persone catturate dal populismo accoglie quelle voci con l’orecchio stranito di chi vede disconosciute analisi che ritiene ovvie. Le voci critiche cadono nel vuoto, trovano negazioni aprioristiche, sorrisi fra l’insolente ironia e l’incredula sorpresa, nessuna vera attenzione, l’accusa di provenire da illegittimi interessi minacciati. È un clima dove costruire un’opposizione che abbia ascolto e qualche successo è davvero difficile.
Nascono allora negli oppositori opposte tentazioni. Da un lato sono attratti dall’idea di inseguire il populismo, le sue diagnosi e le sue ricette, con diversa etichetta. Dall’altro son tentati di aspettare, nascosti su una sorta di litigioso Aventino, che il populismo produca il disastro che lo seppellirà, di sottolineare i preamboli di quel disastro senza suggerire rimedi costruttivi. L’essere accomunati da questa attesa può diventare l’unico elemento unitario dell’opposizione dietro al quale le sue divisioni persistono e si approfondiscono nutrendosi dell’amarezza che nasce dall’incapacità di influire sull’evoluzione delle cose.
Comunque si voglia affrontare questi fattori, che sterilizzano l’opposizione al governo populista, è in primo luogo necessario riconoscerli e studiarli a fondo.

Il Fatto 19.11.18
“L’arroganza dem viene dall’assenza di idee”
Il candidato attaccato dai dirigenti per averli paragonati a Burioni: “Sono fuori dalla realtà”
di Alessia Grossi


Da Alessia Morani a Carlo Calenda fino a Gentiloni, l’intervento di sabato del più giovane candidato alla segreteria del Pd, Dario Corallo che accusava i dirigenti di comportarsi “come dei Burioni qualsiasi” ha provocato quella che lui definisce una “miriade di attacchi anche fake sui social network”.
Cosa è successo dopo l’assemblea?
Nel mio intervento ho paragonato l’arroganza che il virologo Roberto Burioni dimostra nei confronti dei no vax a quella del Pd. Come il “ciaone” di Carbone. Da lì è partito uno sciame di risposte. C’è anche chi mi ha accusato di essere contro la scienza, cosa non vera anche per formazione (Corallo è laureato in filosofia, ndr), altri di essere contro i vaccini.
Chi l’ha insultata?
Anche i dirigenti del Pd che vivono sui social… Calenda ha espresso solidarietà a Burioni. È l’arroganza di chi opera intorno al potere e non sa che solo la metà degli italiani è presente su Facebook.
Lei era un collaboratore di Maurizio Martina al ministero dell’Agricoltura.
Allora diciamo l’arroganza di chi gestisce il potere. Io ho lavorato da impiegato, sono stato scelto dal capo ufficio stampa in base al mio curriculum.
Burioni l’ha accusata di avercela con chi studia con sacrificio.
È ovvio che chi studia ne sa di più. Il punto è che di solito chi riesce è partito avvantaggiato. In ogni caso, lo studio non è uno strumento per prevaricare l’altro, anzi, chi ne sa di più dovrebbe aiutare a capire e non insultare.
Qualche esempio di arroganza del Pd?
Quando il Pd ha perso, che fosse alle elezioni o al referendum, il messaggio era: ‘Gli italiani non ci hanno capito’. Se il popolo italiano si esprime dicendo che quella cosa non la vuole, non si può dire che è perché non l’ha capita.
Ma l’analfabetismo funzionale esiste.
Sì, ma non si può confondere l’analfabetismo con l’ignoranza. Se dopo anni le persone non capiscono, magari è perché il Pd si è espresso male.
Lei è stato frainteso nel suo intervento.
Infatti oggi mi sono spiegato meglio. Se fossi stato come i dirigenti del Pd o come Burioni avrei dato loro degli ignoranti: ho fatto una tesi in filosofia del linguaggio.
Quali sono le verità “scientifiche” dei dem?
Che non si può fare deficit… non è vero. Che l’Unione europea è perfetta, invece non è un soggetto democratico. Che il M5s è stato votato da branchi di ignoranti, e non da professionisti in buona fede a cui il movimento ha offerto una linea politica, molto pericolosa e sbagliata, ma una linea. Soprattutto, il Pd ha messo in discussione i propri principi per non mettere in discussione fattori contingenti. Come non dialogare con gli avversari né con i sindacati, ma con gli imprenditori. Poi ci sono verità che si devono dire, come che il capitalismo è a un punto di crisi. Che i politici di destra non sono gli ultimi scemi, ma che hanno una strategia politica.
Il Pd perde per arroganza?
No, è solo l’effetto. La causa è la mancanza di politica e lo scollamento dalla realtà. I dirigenti non l’hanno capito e l’hanno trasformato in arroganza da spaesamento.

La Stampa 19.11.18
Pd, il congresso della grande confusione
L’unico dilemma è taciuto: che fare col M5S?
di Federico Geremicca


Ci sono ancora troppe cose che non tornano nel faticosissimo percorso congressuale avviato dal Pd a 250 giorni (dicasi duecentocinquanta) dalla disfatta del 4 marzo: e com’era prevedibile, l’Assemblea nazionale convocata l’altro giorno per fissare procedure e tempi di questo complicato iter, non poteva che confermare questa perdurante situazione di confusione e stallo.
Non torna, prima di tutto, il numero di candidati per ora in pista: sette, che sarebbero già troppi per un partito in formidabile espansione e figuriamoci - dunque - per una comunità che fino a ieri sembrava non aver ancora nemmeno deciso se riprendere il cammino oppure rifondarsi in qualcosa di nuovo e di diverso. Non torna, poi, il dato - letteralmente antistorico - dell’assenza totale di donne nella corsa alla segreteria: quasi non fossero più considerate una risorsa, e quasi non fossero state proprio delle donne le animatrici delle «piazze civiche» di Roma e Torino, pur esaltate come possibile embrione di una nuova opposizione.
Ma più di tutto non tornano le generiche piattaforme politiche abbozzate dai candidati e soprattutto l’oscuro ruolo che sembra essersi ritagliato Matteo Renzi, che diserta l’Assemblea nazionale (offensivo e grave), dice «non mi occupo del Congresso Pd» (offensivo e non credibile) e intanto manovra per azzoppare questo candidato o per condizionare quell’altro, non avendo ancora deciso se restare nel Partito democratico oppure animare un qualche nuovo contenitore.
Matteo Renzi (è bene ricordarlo) annunciò le sue dimissioni immediatamente dopo la rovinosa débâcle di marzo, ma pochi - conoscendolo - credettero che quell’addio fosse sostanziale e non solo formale: col senno di poi, si può dire che avessero ragione, visto che dalla scorsa primavera ad oggi l’ex segretario ha come preso in ostaggio il Pd, tenendolo fermo al palo delle proprie difficoltà. Oggi, la più leale tra i suoi fedelissimi - e intendiamo Maria Elena Boschi - si limita sibillinamente ad avvertire: «Andarsene dal Pd? No, ma il partito va rifatto». Già: ma con quale profilo, su quale piattaforma e con quale segretario?
Parole come piattaforma possono naturalmente sembrare generiche e antiche: ma non è detto che sia sempre vero, soprattutto nella condizione in cui versa il Partito democratico. Per esempio, la piattaforma proposta all’Assemblea nazionale da Katia Tarasconi - renziana delusa - è tanto chiara che di più non si potrebbe: «Se dovessi dare un titolo al mio intervento - ha detto - lo intitolerei ritiratevi tutti». Una posizione magari estrema, ma certamente comprensibile. Si può dire lo stesso per i «sette uomini d’oro» candidati alla segreteria?
Proviamo a cambiare l’interrogativo. Quanto sarebbe diverso un Pd a guida Zingaretti da un partito che scegliesse per leader Marco Minniti? E cosa ci si dovrebbe aspettare se ad essere eletto, al contrario, fosse Francesco Boccia o Cesare Damiano? Infine: che distanza c’è tra la posizione di Maurizio Martina (che punta ad una incomprensibile «candidatura di squadra») e quella di Matteo Richetti o del giovane Dario Corallo? Probabilmente nessuno, nello stesso gruppo dirigente del Pd, sarebbe in grado di elencare punti di contatto o differenze. E figuriamoci, allora, i poveri iscritti-elettori...
Per ora, infatti, le diverse candidature in lizza sembrano volersi caratterizzare soprattutto per il loro tasso di anti-renzismo. Perfino Marco Minniti, l’ultimo a scendere in campo, ha voluto chiarire: «Non sono lo sfidante renziano: in campo c’è solo Marco Minniti». Può sembrare paradossale, e per l’ex presidente del Consiglio non dev’essere certo un bel sentire: ma al di là del Pd che non si vuole più, che partito hanno in testa i sette candidati? E soprattutto: che «politica delle alleanze» proporrebbero oggi, quando la questione delle questioni resta il rapporto con i Cinquestelle del tandem Di Maio-Di Battista?
Le risposte dei candidati sono vaghe, generiche, e oscillano dal comodo «non è questione di oggi» al prudente «valuteremo l’evoluzione del Movimento». E invece, forse, è proprio questione di oggi: e non sono la stessa cosa un candidato che dica «mai con i grillini» ed un altro che assuma l’impegno di provare ad aprire - comunque e subito - un canale di comunicazione con i Cinquestelle. Per un ipotetico elettore Pd, sapere con chi intende allearsi domani il partito che ha votato o voterà, non è cosa irrilevante. In un modo o nell’altro, dunque, una risposta dovrà arrivare: e non è detto che non sia proprio su questo quesito-spartiacque che si deciderà un Congresso tardivo, confuso e per questo ancora difficilissimo da decifrare.

Il Fatto 19.11.18
La penna dentro il Palazzo tra lupi e forfora di Mastella
di Pino Corrias


Vanitas vanitatum, guai ai potenti: “Credono di avere il red carpet sotto i piedi e invece si ritrovano una spada affilata sopra la testa. Tale è l’agognata condizione dello statista”. Nell’inquieto, costoso, ma anche smandrappato circo esistenziale della politica e dei politici, Filippo Ceccarelli è il re dei narratori, e naturalmente anche il re dei domatori in prosa. Un cronista che sa maneggiare i tempi del teatro e i lampi del sipario, specialmente quando tutto lo spettacolo che gli sta intorno mostra le sue capriole quotidiane sotto agli imperturbabili affreschi del potere. Capace di trasformare le pulci in leoni, o viceversa, guardarle mentre saltano nel cerchio infiammato della storia. Raccontarne l’ampiezza delle evoluzioni ideologiche, ma anche sartoriali, mentre si bruciano da sole in forma di parole al vento, carriere al vento, neuroni al vento.
Per poi spazzarle via, come ritagli di giornali che nevicano sul tappeto dei Palazzi, quando a fine giornata Ceccarelli se ne va a casa sua in Trastevere, fischiettando, ma sempre con qualche memorabile dettaglio in tasca. È lunga mille pagine, anzi novecentocinquantotto, la sua ultima passeggiata intorno ai nostri settant’anni di politica, agnizioni e congedi. Un catalogo di mondi morti e di mondi sempre nascenti, che hanno brillato per tre intere Repubbliche: la prima, cresciuta democristiana, socialista, berlingueriana, fino al Muro di Berlino e alle polveri di Tangentopoli; la seconda, accomodata tra gli argenti di Arcore e le bambole gonfiabili delle cene eleganti, fino alla fatale indigestione che finì per far venire i crampi anche alla sinistra che bisticciava in rancorosa modalità Ulivo; la terza, cresciuta lungo la parabola apolide del renzismo, i furori di Grillo, le ruspe della nuova Lega sovranista. Un’Italia che al momento ci brilla intorno, ma sempre minacciando l’implosione di un tramonto rapido quanto la sua ascesa.
Il rendiconto si chiama Invano. Che è già un consuntivo del viaggio. Anzi una traversata che va dall’Italia in macerie di ieri, alle macerie di oggi.
Dalle maschere di un tempo, quelle dei De Gasperi, Nenni, Togliatti che poi erano altrettante culture sedimentate in un Paese che era fatto di terra, alfabeti e classi sociali. Fino ai tre danzatori sul nulla di oggi: Matteo Renzi, Matteo Salvini, Gigi Di Maio, cresciuti tra i tepori della piccola borghesia, l’unica classe sociale rimasta ad abitare il tinello insonne della Rete, “a suon di furbizie pseudotecniche, buonismi, celodurismi, e vaffanculi televisionari”.
Tutti e tre addestrati alle frasi automatiche, “ci metto la faccia”, “non arretreremo di un millimetro”, “la pacchia è finita”, “non accettiamo lezioni di democrazia”, le maniche delle camicie bianche rimboccate, lo sguardo in (tele) camera, mimando intimità con l’elettore trasformato in target da sondaggio, “un po’ sirenetti, un po’ sbruffoni, un po’ lupi mannari”. Tutti e tre “il frutto dello sconquassato sistema scolastico italiano varato dopo gli anni Settanta”, nessun lavoro vero alle spalle, nessuna competenza, se non quella di vendersi sul mercato della politica e in quello capovolto dell’antipolitica, contemporaneamente, sperando di sfangarla e anzi sfangandola alla grande, per il momento: oplà.
In quei corridoi, per una quarantina d’anni, Ceccarelli ha consumato le scarpe, ma non lo sguardo. Qualche volta la pazienza, mai l’ironia. Ha scritto migliaia di articoli (per Panorama, La Stampa, Repubblica) cento volte di più ne ha ritagliati, classificati, archiviati: le pipe di Pertini, la forfora di Mastella, i baffi sprezzanti di D’Alema, le canottiere popolane di Bossi, il commovente beauty-case di Silvio B. Scrive: “Sono un analogista, un accumulatore seriale di ricordi, un custode unilaterale dell’inutile”, che a lungo andare diventa indispensabile.
Tre anni fa il suo intero archivio di carta, 334 raccoglitori, è traslocato dentro ai velluti della Biblioteca della Camera, prima metà del suo omaggio alla curiosità dei posteri. L’altra metà è in questo libro, scritto in prima persona singolare, maturandone un “vivo senso della catastrofe”. Non per passatismo o malinconia di perduta giovinezza, ma proprio per la pertinenza della materia da cuocere, la politica, che ha talmente masticato le sue radici da galleggiare in questo indistinto quotidiano, abitato dai “protagonisti dell’istante” che “comunicano senza aspettare risposte”.
Era fatta di domande-e-risposte la vecchia politica, quando il Paese respirava ansia di modernizzazione: le fabbriche invece del latifondo e poi l’ufficio invece della catena di montaggio. I cattolici ancora genuflessi all’autorità millenaria della Chiesa. I marxisti a quella secolarizzata del progresso. E dunque la sintesi stava nelle riforme, ma con la cautela del “casto connubio”. Delle infinite trattative che passavano per il Quirinale, il Vaticano, l’America, mai violando il perimetro della Guerra fredda, con i suoi segreti che arroventavano il doppio fondo della nazione e le molte mafie che in quelle fiamme bruciavano compromessi, fatturati e cadaveri.
Per mezzo secolo fu lo stallo. Officiava Fanfani, poi Andreotti, poi Moro. E dopo il sangue di Moro, Cossiga. Con il rito dei partiti satelliti, i repubblicani di Ugo La Malfa, i liberali di Bozzi a fare e disfare cinquanta governi in quarant’anni. Fino alla lunga meteora di Bettino Craxi, il socialista, che si è preso il miglior partito in circolazione e in una dozzina d’anni l’ha schiantato, dissolto, rendendolo persino impronunciabile.
E nel danno, la beffa allestita dal suo erede naturale, Silvio B. “il quale a suo modo spostò le forme della politica al di là di qualsiasi immaginazione dando vita alla più straordinaria storia di potere degli ultimi settant’anni”.
I quali anni, grazie anche alla insonne dissoluzione della sinistra transitata da Occhetto a Martina, ma passando per Bertinotti e poi per Maria Elena Boschi, si sono infilati nel labirinto di oggi in compagnia di “questi qua”, i novissimi, come recita il sottotitolo del viaggio di Ceccarelli intorno alla nostra memoria collettiva di res publica e privata. Che al netto di tutti gli strologanti retroscena dei consueti resoconti quotidiani, viene qui rappresentata (e finalmente!) in scena, bastando quello che si vede a riconoscerla e a giudicarla.
A dispetto di tutte le nostre dimenticanze: una pedagogia portatile del Potere. Che brucia tanto velocemente le vite dei suoi protagonisti, li illumina, li illude, ce li restituisce in cenere.

Corriere 19.11.18
Il futuro della Cgil
La sfida con Colla Il contropiede di Landini: meglio l’unità del sindacato
di Enrico Marro

Sul ruolo che la sinistra giocherà nei prossimi anni avrà un peso anche la scelta che la Cgil sta per fare sul prossimo segretario generale. Il mandato di Susanna Camusso è scaduto. Sono in corso i congressi di base mentre a fine gennaio si terrà a Bari il congresso nazionale. Che eleggerà l’Assemblea che a sua volta eleggerà il nuovo leader. Per ora formalmente c’è in campo solo Maurizio Landini, uno dei pochi leader sindacali emersi con forza nell’ultimo decennio, sempre pronto a scendere anche nell’arena del dibattito politico. L’ex segretario della Fiom (metalmeccanici) è stato proposto dalla stessa Camusso dopo una consultazione interna. Una mossa che ha spaccato la Cgil, dove importanti categorie, dai pensionati agli edili ai chimici, vorrebbero al posto di Camusso l’ex capo dell’Emilia-Romagna, Vincenzo Colla. La spaccatura è stata per ora ricomposta con un accordo interno che tiene di fatto in gara entrambi fino a gennaio. Ma se Colla, benché non abbia ancora formalmente presentato la sua candidatura, resta in corsa, Landini spiazza tutti con una delle sue abili mosse. Come? Rilanciando lui, sindacalista della sinistra Cgil e già leader della più identitaria delle organizzazioni, la Fiom, il «sindacato unitario» (in senso organizzativo, non una sigla unica) con Cisl e Uil per andare oltre la semplice unità d’azione, perché «le ragioni politiche» che hanno diviso nel Dopoguerra Cgil, Cisl e Uil non ci sono più col venir meno dei vecchi partiti (Dc, Pci, Psi), va ripetendo Landini nei congressi di base. Una svolta questa del candidato Landini, giustamente sottolineata dal sito Il diario del Lavoro che sta seguendo molto da vicino il dibattito congressuale. Il voto del 4 marzo ha rivoluzionato il quadro politico e ormai anche i militanti di Cgil, Cisl e Uil votano in massa per 5 Stelle e Lega. I vecchi partiti che hanno bloccato i tentativi di costruire un sindacato unitario negli anni Settanta e Novanta non ci sono più. Quelli nuovi sono però potenzialmente più pericolosi per i sindacati, perché non li riconoscono come soggetti politici. Per opporsi alla disintermediazione e alla marginalizzazione, il sindacato unitario, costruito sulla verifica per legge della rappresentanza, può essere la soluzione, dice Landini. Se non è solo tattica per spiazzare Colla, ma strategia vale la pena di discuterne. Per Cgil, Cisl, Uil. E per la sinistra.

La Stampa 19.11.18
Fotografie, abiti e ossa
Così Cristina dà un nome ai migranti morti in mare
di Mattia Feltri


A prima vista doveva avere diciotto anni. Date un’occhiata alla cresta iliaca, disse una delle dottoresse. La cresta iliaca non era ancora fusa, e succede da adulti: il ragazzo era più giovane, forse sedici anni. Passarono alla dentizione. Estrassero facilmente il secondo e il terzo molare. Il terzo aveva la radice che cominciava appena a formarsi. Quattordici anni. Lo spogliarono. Piumino, gilè, camicia, jeans. Dentro il piumino sentirono qualcosa di più duro, quadrato. Lo scucirono. C’era una pagella scritta in arabo e in francese. Mathematiques, sciences physiques. Doveva essere la cosa più preziosa che possedeva per cucirla dentro il piumino. Era il suo lasciapassare per diventare grande in Europa.
Cristina Cattaneo è nata a Casale Monferrato, Alessandra. È ordinario di Medicina legale all’Università degli studi di Milano e direttore del Labanof, il Laboratorio di antropologia e odontologia forense. Di mestiere, uno dei tanti suoi mestieri, cerca di dare un nome ai morti che non l’hanno per la semplice ragione che tutta la saggezza del mondo è stata scritta alle origini dell’uomo, e tutta la saggezza sui morti è nel pianto di Priamo che chiede ad Achille il corpo del figlio Ettore per dargli sepoltura. Era già tutto scritto lì. Stiamo ricevendo numerose richieste da eritrei e siriani, le aveva detto un giorno un collega della Croce rossa, perché aspettano l’arrivo di parenti e non sanno più nulla, nemmeno se siano vivi o morti. Per anni la gente è morta attraversando il Mediterraneo ed è rimasta in fondo al mare, oppure è sepolta sotto lapidi senza nome. Dal 2001 oltre trentamila morti. Nessuno ha mai pensato di fare con loro quello che si fa con noi: dargli un’identità e dare una risposta a madri, figli, nonni, dirgli se tocca ancora attendere o ci si può mettere il cuore in pace. Vedete che Totò non aveva ragione, dice Cristina Cattaneo, qualche volta nemmeno la morte è una livella.
Le fotografie
Quando il gruppo fu costituito, nel 2013, cominciarono ad arrivare da tutta Europa. Una donna guardò le foto del database: cercava il fratello che aveva sentito due ore prima che si imbarcasse in Libia; si bloccò, si concentrò su frammenti di carta con segnati numeri di telefono. È la sua grafia, disse, questo è il suo quattro e questo è il suo sette, e scoppiò a piangere. Un’altra donna arrivò con una busta con la ciocca di capelli di un’amica eritrea, che non aveva notizie del figlio e sperava che i capelli servissero per il Dna. Un uomo era sicuro che la sorella fosse annegata, ma se non ho un certificato di morte non posso adottare mio nipote, disse, è un bambino rimasto in Somalia.
Perché fate tutto questo?, chiese a Cristina un amico. Perché non buttate una corona di fiori in mare, e chiusa lì? Se tu sospettassi che tua figlia era su un aereo caduto in mare, rispose Cristina, butteresti una corona di fiori o cercheresti di sapere? Ah bè, se la metti così, disse l’amico.
Poi affondò il Barcone. Era il 18 aprile 2015, nel mare di Sicilia. Sul Barcone, che poteva contenerne cento a dir tanto, morirono più o meno in mille. Per due mesi, in un capannone della Marina militare a Melilli, Siracusa, Cristina e gli altri lavorarono alla schedatura di 525 corpi. C’erano corpi interi, come quello del ragazzo che aveva cucito all’interno della giacca un sacchetto con la terra del suo Paese, l’Eritrea. C’erano corani, rosari buddhisti, una croce ortodossa. C’erano crani senza corpo e corpi senza cranio. C’erano decine di piccole ossa della mano rimaste sole in quell’ossario. C’era il dente minuscolo e tondo di un bambino di sei anni. C’erano tessere della biblioteca, foto di gruppi sorridenti, felpe del Real Madrid. C’era la stiva del Barcone in cui bisognò entrare una volta che era stato recuperato e tirato a secco, ed era «un tappeto di sagome umane», «si stendeva per tutta l’area della stiva, ampia all’incirca sessanta metri quadri, quasi tutte a faccia in giù, qualcuna in posizione fetale, molte gonfie per via della putrefazione, rese più umane da cappelli, guanti, maglioni e scarpe». I morti parlano meglio dei vivi, dice Cristina. Si può andare dai superstiti, ascoltarli, ma non sapranno mai spiegare bene come i morti. «Immersi un braccio protetto dalla tuta quasi fino all’ascella: sentii almeno quattro strati di corpi».
Noi italiani siamo stati i primi a mettere su una squadra che facesse per i loro morti quelli che si fa con i nostri. Tutte le istituzioni hanno collaborato con l’impegno dovuto, e arrivano i primi risultati. La mamma del bambino rimasto in Somalia è stata identificata, e lui è stato adottato dallo zio e lo ha raggiunto. Altri non aspettano più, ora sanno e pregano per l’anima del padre e della sorella. Il Barcone, dice Cristina, dovrebbe essere un monumento nazionale, e non c’entra nulla quello che uno pensa dell’immigrazione e dell’accoglienza, c’entra soltanto quello che noi pensiamo degli esseri umani e della loro dignità, da vivi e da morti. (Tutto questo è raccontato in Naufraghi senza volto, di Cristina Cattaneo, centonovantadue pagine di fatica e strazio e speranza in libreria da giovedì per Cortina editore).

La Stampa 19.11.18
Reporter uccisa con autobomba
Identificati i mandanti
di Nadia Ferrigo


I mandanti dell’omicidio della giornalista investigativa Daphne Caruana Galizia sono stati identificati. Secondo quanto riporta il “Times of Malta”, gli investigatori hanno individuato «un gruppo di più di due persone». La celebre blogger maltese fu assassinata il 16 ottobre dello scorso anno con una bomba piazzata nella sua auto. Due mesi dopo tre cittadini maltesi - i fratelli George e Alfred Degiorgio e Vincent Muscat - sono stati accusati di aver innescato la bomba. In carcere da undici mesi, si sono sempre dichiarati innocenti. Il quotidiano spiega di aver ricevuto la notizia da alti funzionari che guidano l’indagine. Questi avrebbero infatti riferito che l’inchiesta «è a uno stadio avanzato e i sospetti principali sono stati individuati». Le fonti non hanno dato informazioni né su chi siano questi sospetti né se provengano da ambienti criminali, politici o economici. Gli inquirenti ritengono però che i mandanti avessero motivazioni diverse per volere la morte della reporter, decidendo dunque di ingaggiare i tre uomini poi accusati di essere i responsabili dell’esecuzione.
La collaborazione con l’Europol
«Abbiamo una grande quantità di dati che richiedono analisi. I partner come l’Europol hanno esperienza e competenza necessarie a contribuire a queste operazioni» ha spiegato una fonte, aggiungendo di avere «diverse prove in mano». Ma senza precisare quali. La famiglia Caruana Galizia, contattata dal quotidiano, ha riferito di non essere ancora stata informata dalla polizia su questi sviluppi.
Daphne Caruana Galizia era una delle giornaliste più famose a Malta per via delle sue inchieste sull’evasione fiscale internazionale sull’isola legata ai Panama Papers, i documenti riservati che rivelarono una rete internazionale di società off shore e i loro beneficiari.Tra questi si imbattè in una piccola banca maltese, la Pilatus, di proprietà dei figli del dittatore dell’Azerbaigian.
Per la Pilatus erano passati bonifici milionari a una società di Dubai, che risultava intestata a Michelle Muscat, la moglie del premier maltese Joseph, allora presidente di turno della Ue. Muscat fu costretto a dimettersi per lo scandalo, per poi indire nuove elezioni subito rivinte. «Oggi è un giorno nero per la democrazia - aveva commentato l’imbarazzato premier, che aveva appena trascinato la blogger in tribunale per diffamazione, nel giorno del suo assassinio -. Tutti sanno quanto Galizia fosse critica verso di me, sia a livello personale che politico. Ma nessuno può giustificare questo atto barbaro. Non avrò pace finché non sarà fatta giustizia».

La Stampa 19.11.18
Netanyahu assume la Difesa e prova a evitare il voto anticipato
di Giordano Stabile


Benjamin Netanyahu lotta per mantenere in vita il suo governo, il terzo sotto la sua guida dal 1996, ma con la defezione di un altro partito della coalizione le sue chance sono ridotte al lumicino. Il premier, al potere senza interruzioni dal 2009, rischia una sconfitta in caso di voto ravvicinato e ha messo sul tavolo tutte le sue carte per evitare lo scioglimento della Knesset in modo da rinviare le elezioni almeno fino al prossimo marzo. L’ultima mossa è stata un discorso in tv, alle otto di ieri sera. «Spero nella responsabilità dei partner di governo – ha spiegato – perché non facciano cadere il governo. Sarebbe irresponsabile andare al voto, in queste condizioni di sicurezza complesse».
Netanyahu ha assunto il ministero della Difesa ad interim e ha detto di avere un «piano chiaro», anche se non ha rivelato i dettagli: «Ho rischiato la vita molte volte per salvare le vite nella terra sacra di Israele». Il riferimento è alla situazione a Gaza, ma non solo. Con la vittoria di Bashar al-Assad in Siria, e l’ombrello anti-aereo che la Russia ha steso sopra il suo alleato, la posizione strategica di Israele non è più inattaccabile. Non è prudente aprire un fronte Sud a Gaza quando il fronte Nord è incerto, è la convinzione del premier. Ma la crisi nel governo è precipitata proprio con gli ultimi scontri a Gaza, una settimana fa. Dopo un blitz di un commando israeliano nella Striscia, Hamas ha risposto con il lancio di 460 razzi in 36 ore.
Un governo di minoranza
Netanyahu ha preferito raggiungere un cessate-il-fuoco con la mediazione dell’Egitto, nonostante i sondaggi contrari. Il ministro della Difesa Avigdor Lieberman ha reagito con le dimissioni e accusato il premier di «capitolare di fronte ai terroristi». Netanyahu si è poi scontrato con il ministro dell’Educazione, e leader del partito religioso HaBayit HaYehudi, Naftali Bennett, che voleva per sé il portafoglio. Ieri ha avuto un vertice con un altro alleato chiave, il ministro delle Finanze Moshe Kahlon, senza risultati. Bennett ha detto che le dichiarazioni del premier «non spostavano una virgola». In un comunicato suo partito ha accusato il governo di «comportarsi come il centrosinistra» per il rifiuto di affidare la Difesa a Bennett.
Per Netanyahu il percorso è stretto. Fino alle dimissioni di Lieberman il governo aveva 67 seggi (30 del Likud) sui 120 della Knesset. Senza i 6 seggi di Lieberman e gli 8 di Bennett il premier può solo guidare un governo di minoranza per arrivare alle elezioni il più tardi possibile. Fra le due principali formazioni di opposizione, l’Unione sionista di centrosinistra e la centrista Yesh Atid, è quest’ultima, guidata dall’ex star della tv Yar Lapid, ad avere più chance.

Corriere 19.11.18
La trappola tesa da Ciano
Eugenio Di Rienzo sostiene in un saggio (Salerno) che le annotazioni lasciate dal genero di Mussolini sono artefatte. E che in base a quegli scritti è stata costruita una leggenda per scagionare la classe dirigente complice del fascismo
di Paolo Mieli


IL suo diario è molto meno attendibile
di quanto abbiano ritenuto gli storici
Galeazzo Ciano, figlio di Costanzo, marito di Edda (la figlia prediletta di Benito Mussolini), ministro degli Esteri tra la seconda metà degli anni Trenta e all’inizio dei Quaranta, tenne un diario dal 9 giugno del 1936 al 6 febbraio del 1943. Un diario considerato veritiero, addirittura «inoppugnabile» da quasi tutti gli storici del fascismo, a cominciare da Renzo De Felice. Tale lo ritenne senza esitazione il sottosegretario di Stato americano Benjamin Sumner Welles; e così anche Lucien Febvre, Paul Kluke, Maurice Vaussard. Un ex giornalista di regime approdato all’Italia democratica, Ugo D’Andrea, prefatore della prima (incompleta) edizione del diario pubblicata da Rizzoli nel 1946, lo presentò come il libro che, più di ogni altro, «ha saputo descrivere la nostra decadenza di Nazione, mostrando come la tirannide avvilisca, deformi e corrompa il costume e la dignità di un popolo e apra le porte all’invasione straniera». Il più importante storico italiano delle relazioni internazionali, Mario Toscano, nel 1948 scrisse sulla «Rivista Storica Italiana»: «A parte alcuni rilievi bisogna riconoscere nel Diario di Ciano una delle fonti più importanti per la storia della politica estera fascista». I «rilievi» erano limitati all’introduzione scritta dal genero del Duce nel dicembre del 1943, alla vigilia del processo di Verona che avrebbe portato alla sua fucilazione. Toscano notava come Ciano ricordasse la sua opposizione alla guerra del 1939 ma sorvolasse sulla sua adesione all’entrata dell’Italia in guerra nel 1940. E però ancora nel 1963 in Storia dei trattati e politica internazionale (Giappichelli) Toscano continuò a sottolineare il «valore assolutamente eccezionale», la «genuinità» e l’«immediatezza davvero rara» di quel testo.
A dubitare dell’affidabilità di quel manoscritto furono invece voci isolate: Duilio Susmel nel 1962 in Vita sbagliata di Galeazzo Ciano (Palazzi) e Attilio Tamaro in Vent’anni di storia (Tiber), che lo definì come una «fonte gravemente contaminata». Un dubbio condiviso adesso da Eugenio Di Rienzo nel Ciano che la Salerno si accinge a dare alle stampe. Anzi, qualcosa più di un dubbio: Di Rienzo parla del Diario come di «una ben congeniata trappola, a effetto retroattivo, costruita con quelle pagine, fittamente e pignolescamente annotate, in cui sono caduti quasi tutti i suoi biografi». E qui il riferimento, esplicitato in nota, va al Galeazzo Ciano (Bompiani) di Giordano Bruno Guerri e al Ciano. L’ombra di Mussolini (Mondadori) di Ray Moseley. Di Rienzo nota come la «voce» anonima dedicata a Ciano nella Seconda Appendice dell’Enciclopedia Italiana sia stata singolarmente sprezzante verso Ciano, il quale ebbe una parte non irrilevante nella congiura del Gran Consiglio che il 25 luglio del 1943 portò alla destituzione e all’arresto di Benito Mussolini. Ciano — scrive l’estensore della «voce» (che non si firma) — «vanitoso forse più che ambizioso e solleticato dal suo entourage ministeriale, alieno da certo stile volgarmente coreografico che aveva avuto in Achille Starace il massimo regista, nutriva sì qualche velleità di una politica personale». Ma «non più che questo», «soggiacendo egli sempre alla più forte personalità del suocero»; il quale «non è detto che in certe circostanze, ai fini della sua politica, non lasciasse momentaneamente accreditare l’opinione di un latente dualismo». La guerra contro la Grecia (28 ottobre 1940) — proseguiva la «voce» dell’Enciclopedia — «parve e in un certo senso fu la “guerra di Ciano”; in realtà s’inquadrava perfettamente nei piani strategico-politici e soprattutto nella mentalità e psicologia di Mussolini che era rimasto assai contrariato per l’invadenza tedesca nei Balcani». La campagna di Grecia «fu, insomma, l’escogitazione di un’azione che si sapeva grata a un padrone piuttosto che una mossa inserita in una lungimirante linea politica». E, per giunta, «fu preparata dal Ciano con sconcertante leggerezza, come un’impresa in cui, come già nell’aprile 1939 nell’azione contro l’Albania di re Zog, egli vedeva aprirsi all’attivismo sportivo, suo e dei suoi amici, le prospettive di facili allori».
A questo punto l’esegesi di Di Rienzo si fa molto accurata. Ricorda che dopo la cessione del Diario da parte di Edda, Allen Welsh Dulles (direttore a Berna della divisione europea dell’Office of Strategic Services, precursore della Cia) e in seguito Gaetano Salvemini, presa visione del manoscritto originale, riscontrarono in esso «inesattezze, errori di datazioni, contraddizioni cronologiche e fattuali, cancellature e sostituzioni, vistose lacune inerenti ad alcuni momenti cruciali della politica estera italiana». Nel testo a nostra disposizione compaiono «solo scarsi accenni alla riunione del 15 ottobre 1940 in cui Mussolini, Ciano e Badoglio pianificarono l’aggressione alla Grecia mentre sono state distrutte e sostituite le pagine originali sulla “Caporetto ellenica” che fece seguito a quella disastrosa decisione».
«Ebbi modo, a New York, di esaminare le fotografie del Diario di Ciano pagina per pagina», scrisse Salvemini. E — proseguiva — «scoprii che il foglio che conteneva l’appunto relativo al 27 ottobre 1940 e al 28 ottobre, era stato stracciato dallo stesso Ciano; questi inoltre nella pagina del 26 ottobre corresse la data in 27, inserì alcune linee insignificanti alla data 27 ottobre, da lui scritta, e altre linee insignificanti alla data del 28 ottobre, egualmente da lui scritta». Presumibilmente, concludeva Salvemini, «le pagine originali del 27 e 28 ottobre contenevano notizie che Ciano reputava non conveniente lasciare dove erano».
Inoltre, scrive ancora Di Rienzo, nelle famose «agende di Ciano» sono scarsi «gli accenni ai prodromi e al primo sviluppo della guerra civile spagnola, né esistono riferimenti davvero circostanziati al ruolo giocato dal governo fascista per la preparazione, l’attuazione e il sostegno al golpe di Franco». Nel Diario è, infatti, «assente ogni menzione dell’attività del cosiddetto Gabinetto Ufficio Spagna (Gabus), attivo dall’8 dicembre 1936 al 31 dicembre 1939 la cui direzione fu affidata all’uomo di fiducia di Ciano: l’energico e spregiudicato conte Luca Pietromarchi» (al quale è dedicato un eccellente libro di Gianluca Falanga, Storia di un diplomatico, testé pubblicato da Viella). Una struttura «coperta», la cui esistenza non figurava nell’organigramma ufficiale del ministero degli Esteri, ma dotata di un personale numeroso e qualificato, di un proprio archivio segreto e di un autonomo servizio cifra. Con la quale, secondo quel che avrebbe scritto nel 1977 sul «Corriere della Sera» Roberto Ducci, il «genero di regime» intendeva cogliere il suo primo personale trionfo di «Duce in pectore» sul palcoscenico internazionale, «traendo dalla vittoria di Franco, ottenuta grazie all’aiuto italiano, la possibilità di espandere in Europa il fascismo di confessione romana (in sottintesa antitesi a Hitler), di sconfiggere il Fronte popolare francese e ricattare Parigi con una pressione politica e militare sui Pirenei».
L’«adulterina strategia narrativa» utilizzata da Ciano nell’elaborazione di un «falso d’autore» — scrive Di Rienzo — fu «molto più raffinata e pervasiva di quella che poteva essere escogitata da un volgare contraffattore». È infatti il Diario nella sua interezza «a costituire una testimonianza infedele». Cosa che fu del tutto evidente ad alcuni protagonisti e testimoni della tempestosa stagione in cui il genero del Duce s’illuse, a tratti, «di tenere stretta tra le sue mani la barra della politica estera italiana». Chi sono questi protagonisti e testimoni? Il ministro degli Esteri tedesco, Joachim von Ribbentrop, quello spagnolo Ramón Serrano Súñer, l’ambasciatore francese a Roma (dal 1938 al 1940) André François-Poncet, il direttore del «giornale di famiglia» dei Ciano, Giovanni Ansaldo.
Dopodiché degli ultimi 85 giorni di vita di Galeazzo Ciano tra la fine del 1943 e i primissimi giorni del 1944 si sa pressoché tutto. Così come del tentativo di Edda di servirsi del diario del marito per ricattare il proprio padre, facendo in modo che gli fosse concesso di non essere ucciso. Ma Hitler «convinse» Mussolini a non cedere e morte fu. All’alba dell’11 gennaio 1944 Ciano fu giustiziato a Verona. La salva di fucileria non lo uccise all’istante e dovette essere finito da due o tre colpi di pistola sparati a bruciapelo. Un importante giornalista dell’epoca, Bruno Spampanato, annotò sul proprio diario che la condanna del genero era servita forse a rafforzare la posizione di Mussolini a Berlino, ma aveva alienato al Duce il consenso di una parte forse consistente della vastissima «zona grigia» fino ad allora «disposta a tollerare e persino ad accettare l’esistenza della Repubblica fascista, vedendo in essa il necessario baluardo contro la barbarie nazista e la risorgenza del bolscevismo».
Il 20 gennaio, dall’ambasciata britannica a Madrid, Samuel Hoare notificava a Eden che la fucilazione di Ciano aveva provocato disapprovazione e indignazione nella classe dirigente franchista e nello stesso segretario della Falange spagnola, José Luis de Arrese. A maggio il già citato Serrano Súñer, per certi versi simile a Ciano in quanto legato da rapporti di parentela al Caudillo (aveva sposato la sorella della moglie di Franco), esplicitò questo disagio dei propri «ambienti» così scrivendo a Mussolini in calce a una missiva: «Questa lettera non sarebbe amichevole e leale se non vi dicessi che la morte di Galeazzo mi ha riempito il cuore di tristezza e sono sicuro che — a parte il grave errore politico che avete commesso — lo stesso accada al vostro animo così generoso».
Anche Churchill fu scosso da quell’evento luttuoso e sentenziò che «la morte di Ciano dovuta all’acquiescenza di Mussolini alla bramosia di vendetta di Hitler non recò al Duce che infamia e non portò giovamento alla miserabile Repubblica neofascista, la quale, fino alla fine, vivacchiò stancamente sulle rive del lago di Garda come un relitto spezzato dell’Asse».
E il Diario del fucilato? La figlia di Mussolini, secondo Di Rienzo, considerava i documenti consegnatigli dal marito né più né meno che «una miniera d’oro su cui contare negli anni a venire, per mantenere nell’agiatezza e nel lusso lei e i suoi figli» e «solo accessoriamente come lo strumento idoneo a tutelare la memoria del congiunto». Invece quelle pagine non furono affatto una «miniera d’oro». Ma sulla base di quel Diario, ai primi bagliori della guerra fredda, scrive Di Rienzo, nacque la «leggenda Ciano» e con essa il mito del «fascismo buono» e della «non colpevolezza della classe dirigente italiana (generali, diplomazia, industria e grande finanza) che si autoassolse disinvoltamente delle proprie responsabilità e complicità nello scatenamento di una guerra d’annientamento che provocò più di sessanta milioni di vittime». Il Diario di Ciano e la tragica morte del suo autore «servirono da lavacro purificatore per restituire verginità a quanti nella diplomazia, nella burocrazia, nella magistratura, nelle Forze Armate, nelle aule universitarie, nel mondo dell’informazione, sul colle Vaticano e sulle alture del Quirinale, pretesero, ma solo poco prima del 25 luglio 1943, di aver voluto “fermare Mussolini” senza, invece, aver fatto nulla nel passato per evitare la catastrofe del nostro Paese». Il racconto contenuto in quel Diario «dove si favoleggiava di un presunto dissidio tra suocero e genero sulle grandi scelte di politica interna e internazionale», prosegue Di Rienzo, «fornì, inoltre, ad alcuni influenti pubblicisti dell’Italia della ricostruzione il pretesto per sostenere che, senza l’ingombrante presenza dell’inquilino di Palazzo Venezia, il fascismo avrebbe potuto trasformarsi in una “dittatura morbida”, in un regime autoritario ma benevolo, portatore di quegli aspetti positivi che erano assenti invece nell’Italia repubblicana». Quelle pagine diedero un contributo fondamentale alla nascita della leggenda di cui si è detto. Leggenda che è in buona parte viva ancora oggi.

Corriere 19.11.18
Roma, 22-23 novembre
Convegno e mostra sulla carestia provocata da Stalin in Ucraina


Accadde 85 anni fa e provocò milioni di morti, ma ancora manca una coscienza piena del crimine compiuto da Stalin con la collettivizzazione forzata delle terre, cui seguì una carestia spaventosa in Ucraina (dove viene ricordata come Holodomor) e in altre regioni dell’Urss fra il 1932 e il 1933.
Per far conoscere meglio la vicenda l’Ambasciata ucraina in Italia e la Società filosofica italiana hanno organizzato a Roma una serie di iniziative nei giorni 22-23 novembre. Nella serata di giovedì 22 verrà proiettato in anteprima al cinema Farnese di Roma il film sull’Holodomor Raccolto amaro di George Mendeluk. L’indomani, venerdì 23, si terrà alle ore 10, al Salone Vanvitelliano della Biblioteca Angelica, un convegno con l’ambasciatore d’Ucraina Yevhen Perelygin, la direttrice della Biblioteca Fiammetta Terlizzi, Ettore Cinnella, Federigo Argentieri, Giovanni Sasso, Giuseppina Palazzo, Maurizio Caprara. Coordina Simonetta Guidotti. Sempre alla Biblioteca Angelica verrà presentata in anteprima la mostra O.O.M. Out Of Memory, a cura di Cristina Meregaglia, con opere di Alessio Ancillai, Evita Andújar, Simone Haug e Andrea Pinchi, che poi sarà esposta dal 24 novembre al 2 dicembre nello spazio espositivo T24 a Santa Maria in Campitelli.

Repubblica 19.11.18
Il traffico di opere d’arte
A rischio i tesori sommersi dell’Albania
di Andrea Tarquini


Berlino, Germania. Decine e decine di navi antiche, alcune risalenti all’epoca avanti Cristo, hanno riposato per secoli e secoli al largo dei 450 chilometri delle coste dell’Albania: navi soprattutto romane, ma anche fenicie, greche o illiriche, spesso cariche di tesori. E anche navi da guerra moderne. Dopo la fine del regime comunista di Enver Hoxha, arrivata la democrazia — e soprattutto negli ultimi tempi — molti tra questi preziosi relitti, reperti archeologici unici non di rado carichi di oro, altri metalli preziosi e monete d’epoca — sono scomparsi. O sono stati saccheggiati.
Tutto a opera dei cacciatori illegali di reperti archeologici di valore, arricchitisi magari in tutto il mondo con la loro "pesca" illegale di reperti: in Albania, le anfore romane pescate in mare sono vendute a 100 euro l’una, ma su altri mercati europei il prezzo può aumentare notevolmente.
Inoltre nel caso dei bastimenti militari moderni, ad essere messi in vendita sul mercato nero sono i metalli.
Autorità, archeologi e storici della capitale albanese hanno lanciato l’allarme. Il Paese, nonostante la forte crescita economica sotto il presidente europeista Edi Rama e la speranza di entrare a lungo termine nell’Unione europea, è ancora troppo povero. Forze armate, polizia, guardia costiera, non dispongono di mezzi sufficienti per difendere quelle rarissime navi antiche, e il loro carico, tutti quei reperti e il loro valore artistico numismatico e archeologico probabilmente inestimabile.
«Negli anni Ottanta - spiega lo storico dell’arte Neritan Ceka alla agenzia France Presse - io fui tra i primi a denunciare il problema, immergendomi più volte in mare a largo delle nostre coste. Allora c’erano navi intere, anfore, vasi, scrigni, ora moltissimi sono scomparsi. Il furto subacqueo in massa è stato perpetrato da organizzazioni illegali sia albanesi sia internazionali».
Il traffico illegale di tesori archeologici ha un fatturato annuale stimato in almeno 3,5 miliardi di euro, un patrimonio sottratto all’Albania e all’intera umanità dai saccheggiatori subacquei.

Repubblica 19.11.18
Pence e Xi, ecco il vertice dei falsi sorrisi
L’incontro delle nazioni di Asia-Pacifico si chiude senza accordi per la prima volta: segno della rivalità crescente fra Usa e Cina
di Alberto Flores d’Arcais


New York Niente comunicato finale congiunto, ed è la prima volta che accade. Il vertice della cooperazione economica Asia- Pacifico (Apec) si è chiuso in Papua Nuova Guinea senza trovare un accordo, troppo forte la rivalità tra Stati Uniti e Cina, i «due giganti nella sala » ( come li ha definiti il premier del Paese ospitante Peter O’Neill).
Al summit di Port Moresby erano presenti i rappresentanti di 21 nazioni della regione Asia- Pacifico — dove vive circa la metà della popolazione mondiale - ma Washington e Pechino sul futuro della regione hanno una visione troppo conflittuale per trovare compromessi. Alla frattura decisiva avrebbe contribuito soprattutto la disputa sulla riforma dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto) e un passaggio nella bozza di documento finale relativo a « pratiche commerciali ingiuste » , voluto dalla Casa Bianca e che avrebbe fatto inalberare i diplomatici cinesi.
Questi ultimi, stando alle testimonianze raccolte dalle agenzie internazionali, avrebbero tentato di convincere il ministro degli Esteri della Papua Nuova Guinea a fare passare nel comunicato la versione di Pechino. Prima ancora della dichiarazione ufficiale di O’Neill, il premier canadese, Justin Trudeau, aveva annunciato che il summit si sarebbe chiuso senza accordo, dando la responsabilità a Cina e Stati Uniti.
O’Neill, che in un primo momento aveva parlato di « franchi scambi di opinioni» ha poi dovuto ammettere come fossero emerse « crescenti tensioni commerciali tra i Paesi». Il segno chiaro che, nonostante le dichiarazioni finali di collaborazione, il vertice è fallito.

Repubblica 19.11.18
Oppenheimer poliziotto ebreo nel Terzo Reich
Negli ultimi anni del nazismo, in Germania opera un commissario che riesce a sfuggire all’Olocausto e conduce indagini su spie e criminali. Arriva in Italia il terzo volume della trilogia di cui è protagonista. Parla l’autore, Harald Gilbers
Intervista di Giancarlo De Cataldo


«Raramente incontro qualcuno che si possa definire a prima vista nazista. Ma è difficile leggere nella mente delle persone. I social sono veri pozzi neri per le idee fasciste.
Molti fra quelli che li frequentano si muovono nell’ambito delle loro filter bubble, cioè leggono solo ciò che interessa loro leggere, e così pensano che le loro idee grottesche siano in maggioranza. È noto che il nazismo contemporaneo ha le sue basi nella vecchia Germania Est, in particolare in Sassonia.
Una questione legata all’immigrazione che fece seguito alla caduta del Muro: molti cercavano un lavoro più qualificato e continuano a sentirsi, ancora oggi, ignorati dalla politica. Ma a parte certe grandi città come Lipsia, il fenomeno non mi sembra molto diffuso. E c’è una grande vigilanza fra i liberali e nella sinistra, come dimostrano le reazioni immediate ai recenti disordini di Chemnitz contro i migranti». Preoccupato, come è giusto che sia, ma non allarmato dai nazisti di oggi, lo scrittore Harald Gilbers, bavarese di Monaco, 49 anni, è un vero esperto dei nazisti di una volta.
Gilbers è autore di una trilogia ambientata negli ultimi mesi della caduta del Terzo Reich. In una Germania devastata da carestia e bombardamenti si agita Richard Oppenheimer, un ex commissario della polizia di Berlino, licenziato perché ebreo ma scampato alla deportazione grazie al matrimonio con l’arianissima Lisa. Colto, sensibile ma anche alquanto nevrotico, amante della musica classica, affetto da una colpevole inclinazione per le amfetamine, in Berlino 1944 Oppenheimer è sulle tracce di un feroce serial killer e al servizio di un SS dall’aspetto più o meno umano. Ne I figli di Odino è chiamato a sventare un complotto di nazisti esoterici e, nello stesso tempo, impegnato a salvare dalla forca la sua grande amica Hilde, una delle (poche) oppositrici del regime. In Atto finale (ora uscito in italiano da Emons) l’ex commissario dovrà pensare a come salvare la pelle nei giorni tremendi dell’agonia del Reich, e finirà al centro di una complessa vicenda di criminali e spie, una specie di Terzo Uomo alla berlinese, sullo sfondo della lotta fra russi e americani che si contendono gli avanzi della distrutta Germania. La minuziosa ricostruzione d’ambiente, l’attenzione ai dettagli, la profonda conoscenza dello "spirito" della sua gente e le trame avvincenti rendono decisamente riusciti i thriller storici di Gilbers. E Oppenheimer è un personaggio al quale è istintivo affezionarsi: pur con tutte le sue debolezze umane. O forse proprio grazie ad esse.
Un ebreo libero a Berlino in piena guerra. Non suona inverosimile?
«È un fatto poco conosciuto, ma ancora nel 1943 a Berlino vivevano 27 mila ebrei. Una minoranza, se pensiamo alle vittime dei campi di sterminio, eppure Goebbels si lamentava per non essere riuscito a ripulire la capitale dalla loro presenza.
Molti vennero risparmiati perché lavoravano nell’industria bellica, e altri, come Oppenheimer, perché avevano sposato le cosiddette Mogli Ariane. La verità è che i nazisti non sapevano come comportarsi con loro, e temevano la cattiva propaganda se avessero mandato a morte i membri di una famiglia tedesca. Naturalmente, gli ebrei superstiti dovevano vivere nelle speciali Case degli Ebrei ed erano comunque soggetti a ogni vessazione. In ogni caso, nel 1945 i nazisti decisero di avviare anche loro ai campi. Da qui la necessità per Oppenheimer di passare in clandestinità».
Gilbers, come nasce Oppenheimer?
«Nasce dal mio amore per il cinema. Precisamente da M - il mostro di Düsseldorf, il famoso film di Fritz Lang. Lì compare il personaggio del poliziotto Lohmann, che poi tornerà ne Il testamento del dottor Mabuse, un film che Goebbels censurò perché gli sembrava sovversivo.
Ecco, in Oppenheimer c’è la proiezione di un futuro Lohmann. Il suo fatale scontro coi nazisti. Non c’è trama senza conflitti. E quale conflitto più forte di quello di un poliziotto ebreo costretto a lavorare per i nazisti?».
E così come in "M" la malavita dà una mano a Lohmann nella cattura del pedofilo assassino, Oppenheimer ha un curioso rapporto con il criminale Ede...
«Ede è una delle poche costanti nella vita di Oppenhmeier. Anche qui c’è una base realistica. Ede è un capo della Ringvereine, la "società dell’anello", la malavita organizzata tedesca che imperversava prima del nazismo e che il nazismo non riuscì a debellare. Si chiamavano così perché portavano un anello per riconoscersi, ed erano un po’ come la vostra mafia. Ede e Oppenheimer sono amici? Sì, ma direi di un’amicizia controversa.
D’altronde Oppenhmeier, che parte con la morale di un ufficiale prussiano, col tempo si ammorbidisce, non è più solo legge e ordine, si convince che il suo compito è di evitare il peggio, e cercare, per quanto possibile, non dico di migliorare il mondo, ma almeno di non renderlo un posto peggiore. È questa la vera sfida, e lui decide di accettarla».
Un altro personaggio notevole è Hilde. Scienziata, aristocratica, fervente antinazista. Dunque, i tedeschi non furono tutti nazisti?
«Inizialmente Hitler affascinò molti ma incontrò anche molta resistenza. Ci furono sempre oppositori. Purtroppo erano deboli, sconfitti, e soprattutto divisi fra loro, e non riuscirono mai a unire le forze in una lotta efficace. I tedeschi amano la stabilità e Hitler la garantiva, dal loro punto di vista. Ancora negli anni Cinquanta c’era chi lo rimpiangeva, e considerava l’antisemitismo un peccato veniale. Però mi lasci dire una cosa: per noi il nazismo è una vergogna nazionale, il peccato originale della nostra storia. Ma, nello stesso tempo, siamo orgogliosi di come abbiamo regolato i conti con il nostro passato. Per questo non mi sembra intelligente dare del "nazista" a chi ha idee diverse. Si rischia di banalizzare quella tragedia che fu il nazismo. Un vero problema è il populismo montante, questa pretesa dei leader conservatori di dare risposte elementari a questioni complicate eccitando nello stesso tempo il nazionalismo. Ma questa marea non è nata in Germania. Potremmo anzi dire, ironicamente, che la Germania è diventata una nazione molto più "normale" di un tempo».
C’è un futuro per Oppenheimer?
«Una nuova trilogia, della quale è già uscito il primo volume.
Oppenheimer e la guerra fredda, un argomento davvero stimolante, ai miei occhi. Berlino e la Germania erano una nazione divisa, al centro dello scontro fra i blocchi. E poi sto collaborando a una serie tratta da Berlino 1944. Se per caso qualche rete italiana fosse interessata...».

Repubblica 19.11.18
L’intervista
Il genoma secondo George Church
"Così voglio ringiovanire le cellule. Amo stupire, non gioco a fare Dio"
di Rosita Rijtano


BOSTON C’è chi lo accusa di giocare a fare Dio. Lui ribatte: «Sciocchezze».
Ma l’associazione è inevitabile, quando George Church apre la porta dell’ufficio e sovrasta tutti dall’alto dei suoi due metri.
Pioniere della biologia di sintesi, "la scienza che altera selettivamente il Dna degli organismi", Church ha avuto un ruolo chiave nello sviluppo di Crispr/Cas9: la tecnica al momento più semplice per correggere uno o più geni in qualsiasi cellula. Coautore di oltre 400 pubblicazioni accademiche, ha fondato decine di startup e a 64 anni non intende rallentare.
Ora sfida l’invecchiamento, provando a spostare indietro l’orologio delle cellule.
La sua "chiesa" è una piccola stanza al secondo piano del New Research Building di Harvard, a Boston. Sul tavolo statuine di elefanti, molecole stampate in 3D e i libri di Walter Isaacson, il biografo che ha scritto della vita di Einstein e Jobs, tra gli altri: «Li ha lasciati lui, ne sta valutando uno su di me». Perché Church incarna anche l’idea del genio e sa attirare l’attenzione con esperimenti fantascientifici, tanto che Time l’ha inserito tra le 100 persone più influenti del 2017. Il genetista alza le spalle e, lisciando la biblica barba che contribuisce al mito, confessa: «Amo stupire».
A che punto è il tentativo di creare un embrione ibrido di elefante/mammut?
«Quest’anno pubblicheremo i primi risultati. L’obiettivo è consentire all’elefante asiatico di vivere senza problemi nell’Artico, salvandolo dall’estinzione. Abbiamo stilato una lista di 44 geni utili, sia di elefanti antichi che moderni».
Cos’altro sogna di fare?
«Creare organismi resistenti a tutti i tipi di virus. Ci siamo già riusciti con l’Escherichia coli, un batterio intestinale, e ci stiamo provando con i maiali e con l’uomo. Poi, lavoriamo a tecniche per invertire l’invecchiamento».
Che intende?
«La maggior parte delle malattie che uccide gli umani nei paesi industrializzati non colpisce i 20enni, ma gli anziani. Perciò bisogna spostare indietro l’orologio delle cellule, farle tornare giovani.
Perché si proteggano da quei danni che le cellule di un 80enne, invece, non riescono a fronteggiare».
E questo è possibile?
«Certo, l’abbiamo dimostrato sui topi, modificando due geni che agiscono su quattro malattie legate all’invecchiamento: l’obesità, il diabete, nonché patologie cardiache e renali. Ora lavoriamo sui cani. Li abbiamo scelti perché fanno una vita simile alla nostra ed è facile capire se la terapia funziona o no. Anche in questo caso, il prossimo obiettivo siamo noi».
Lei non crede a una linea di demarcazione netta tra la possibilità di adottare l’editing genetico per evitare le malattie e per il potenziamento degli esseri umani. Dove ci si deve fermare?
«Va regolato il risultato, non il meccanismo. Bisogna chiedersi se mette a rischio la sicurezza di tutti, se risolve o meno un problema sociale e se è equamente distribuito tra la popolazione o avvantaggia solo i più ricchi. Rispondendo a queste domande, traccio la linea».
Negli ultimi 10 anni la nostra capacità di leggere, scrivere e modificare il Dna ha fatto un balzo in avanti. Come Crispr ha cambiato questo scenario?
«In realtà, penso sia solo una componente minore. Piace perché fa notizia. Ma, al momento, stiamo usando otto modi diversi per scrivere e modificare il Dna. Crispr lo paragono a un’accetta: è ottimo per distruggere i geni, però non per fare del lavoro di precisione.
Funziona meglio in alcuni casi, meno in altri. Non credo che vincerà nel lungo periodo. Anzi, per certi versi è già superato. Per esempio, in molti dei lavori più radicali, per cambiare molteplici posizioni nel genoma, abbiamo sfruttato altre tecniche».
Con i suoi progetti spera di convincere le persone a sequenziare il loro genoma.
Perché è così importante?
«Lo paragono alle cinture di sicurezza: le metti perché sai che ti salveranno la vita in caso di incidente. Lo stesso vale per il sequenziamento, cioè la lettura del Dna: è d’aiuto per prevenire la trasmissione di malattie genetiche, patologie cardiovascolari o oncologiche».
Questi dati, però, possono anche essere usati contro di noi.
«Il mio genoma è pubblico. E finora nessuno l’ha mai usato contro di me».
Lei ha sofferto di dislessia e soffre di narcolessia. Ha detto che «la neurodiversità andrebbe abbracciata». Che intende?
«È sbagliato stigmatizzare i disturbi mentali. Poi, per esempio, abbiamo valide ragioni per credere che chi soffre di lieve mania è molto bravo nel suo lavoro, perché gli dedica più attenzione. E che narcolettici e dislessici possono essere bravi in tantissimi ambiti».
Come la scienza.


La Stampa 18.11.18
“Crescere Neofascisti”, così nazionalisti e xenofobi approfittano della crisi

Negli ultimi anni i movimenti di estrema destra stanno vivendo una stagione di grande crescita: nel momento storico complesso in cui stiamo vivendo, dove la crisi economica non sembra terminare e le diseguaglianze sociali si fanno sempre più evidenti, i movimenti xenofobi e nazionalisti raccolgono sempre più consensi. “Crescere Neofascisti - Viaggio all’interno dell’universo Lealtà Azione” è un racconto “da dentro” del mondo variegato e in cambiamento dell’estrema destra, in onda domenica 18 novembre alle 21.15 su Sky Atlantic e Sky TG24 e disponibile su Sky On Demand, all’interno del ciclo “Il racconto del reale”.
Il docufilm, prodotto da Sky e realizzato dalla Good Day Films di Michele Bongiorno e scritto e diretto da Andrea Bettinetti, mostra quello che sembra qualcosa di più di un movimento politico, un gruppo a metà strada tra la famiglia e la setta, seguendo nell’attività quotidiana alcuni degli iscritti a “Lealtà e Azione”, tra operazioni di assistenza ai poveri italiani, volantinaggi e concerti.
I movimenti neofascisti si presentano come attivisti e comunitari, alternativi all’individualismo e all’elite economica, e con ricette politiche spesso irrealizzabili tentano di accreditarsi come difensori delle classi popolari, dando voce alla protesta e al malcontento e intercettando un bisogno di inclusione e riconoscimento presente soprattutto tra i ceti più deboli. Osteggiati dai media ma spesso corteggiati dalla politica, rifiutano la società multirazziale in nome di una tutela delle radici identitarie e utilizzano una comunicazione aggressiva, fatta di flash mob, occupazioni e intimidazioni mediatiche definibili di stampo squadrista.
“Lealtà Azione” è la realtà in maggiore espansione nel nord Italia e raccoglie sempre più adesioni tra i giovani. Il documentario interroga Luna, Ivan, Federico, Alessandro, Gaia, Amerigo e Giancarlo, un piccolo gruppo di giovani del movimento che appartengono alla provincia e alla periferia milanese e che hanno deciso di abbracciare il credo neofascista, cercando di capire perché lo hanno fatto ma anche e soprattutto quale futuro vedono di fronte a loro.

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