il manifesto 3.11.18
Cina: più che la crescita preoccupano i consumi
Cina.
Per la leadership al potere in gioco c’è molto più della stabilità
economica. A rischio è il patto implicito con cui all’indomani del
massacro di Tian’anmen Pechino ha promesso alla popolazione benessere in
cambio di lealtà politica
di Alessandra Colarizi
“Siamo
preparati al peggio”. Con queste parole il governatore della banca
centrale cinese Yi Gang ha rassicurato i vertici di G20 e FMI riuniti a
Bali sulla resilienza della seconda economia mondiale, trascinata da
Trump in una guerra commerciale tutt’altro che passeggera e alle prese
con nuovi smottamenti del mercato finanziario, la svalutazione del
renminbi e “un iceberg del debito” (copyright S&P Global).
Ma,
affermando che “in Cina molti sono pronti alle prolungate incertezze,”
Yi sembra dare voce a pochi ottimisti, ignorando le preoccupazioni
nutrite da quella fetta di popolazione su cui la leadership cinese punta
tutto per ribilanciare il proprio modello di crescita. “E’ finito il
tempo del binomio investimenti-export, si passa a consumi e servizi,”
aveva annunciato Pechino nel 2013, anticipando l’arrivo di riforme
economiche.
Secondo i dati dell’agenzia di stampa statale Xinhua,
lo scorso anno i consumi hanno contribuito al Pil nazionale per il 58%,
mentre i servizi sono arrivati a contare per il 51,6%. Ma quei numeri,
sbandierati fino a oggi a riprova della soddisfacente performance
economica, rischiano di segnare una traiettoria decrescente ora che le
frizioni commerciali con Washington – abbinate alle misure restrittive
nei settori finanziario e immobiliare – cominciano a esercitare i loro
effetti psicologici sulla pancia del paese prima ancora di intaccare
l’economia reale.
Non è il rallentamento della crescita al 6,5% a preoccupare gli esperti.
Quest’anno
durante la Golden Week, uno dei pochi periodi vacanzieri nella
Repubblica popolare tradizionalmente dedicato allo shopping selvaggio, i
consumi hanno toccato i minimi dal 2000, perdendo 10 miliardi di
dollari rispetto all’anno scorso. La crescita delle vendite al
dettaglio (barometro della spesa dei consumatori) è rallentata al
livello più basso degli ultimi 15 anni, con segni di sofferenza anche
nell’automotive, di cui la Cina è il primo mercato al mondo.
Secondo
Li Shi, professore di economia presso l’Università Normale di Pechino,
l’erosione dei consumi, sul lungo periodo, andrebbe imputata al calo del
reddito delle famiglie – sceso al 50% del reddito nazionale complessivo
dai circa due terzi del 2000 – a causa di un aumento più rapido delle
entrate statali dovuto alla sostenuta imposizione fiscale; un punto che
Pechino vorrebbe correggere con l’introduzione di sgravi fiscali e
l’annuncio del primo taglio in sette anni delle tasse sul reddito. A ciò
si aggiungono mutui e affitti, spese mediche, per l’istruzione dei
figli e l’assistenza agli anziani.
A contribuire
all’assottigliamento dei portafogli concorre la riduzione delle
possibilità di investimento, minacciate dal recente crollo delle borse e
dal rallentamento del real estate, settori che negli ultimi anni si
sono alternati nel fornire un rifugio ai risparmi delle famiglie cinesi.
Dall’inizio dell’anno a oggi, gli investitori hanno perso in media più
di 100.000 yuan ciascuno dopo che il crollo registrato dai listini negli
ultimi mesi ha bruciato 3 trilioni di dollari di capitalizzazione di
mercato. Secondo la Xinhua, nel 2017 il 66% degli investitori ha
chiuso l’anno in perdita. Il tutto proprio mentre il mattone – che conta
per il 15% del Pil – comincia a perdere terreno dopo sei mesi di
crescita continuativa sulla scia delle misure introdotte dal governo
centrale in ottica di deleveraging. Un trend che spaventa tanto gli
sviluppatori immobiliari quanto i proprietari che vedono polverizzarsi
il valore delle loro abitazioni, spesso acquistate con scopi
speculativi.
Per la leadership al potere in gioco c’è molto più
della stabilità economica. A rischio è il patto implicito con cui
all’indomani del massacro di Tian’anmen Pechino ha promesso alla
popolazione benessere in cambio di lealtà politica. Segni di
insofferenza tanto tra i piccoli investitori quanto tra i proprietari
immobiliari evidenziano la posizione scomoda delle autorità, chiamate a
intervenire come deus ex machina per riportare la situazione alla
normalità. Negli scorsi giorni, la riduzione dei prezzi delle case a
Shanghai, Xiamen e Guiyang è stata accolta da proteste violente e
appelli “in lacrime e in ginocchio affinché il governo serva il popolo.”
Che
la fiducia nei confronti di Pechino sia in discesa lo dimostra la
premura con cui, negli ultimi anni, la classe media ha provveduto ad
assicurarsi assets all’estero con l’obiettivo di ottenere permessi di
residenza e un accesso a servizi migliori in paesi come Australia e
Stati Uniti. Acquisti spericolati talvolta sfociati in frodi. In altre
circostanze culminati in pesanti sanzioni a causa dei limiti imposti
sull’esportazione di capitali. Alla fine di agosto la SAFE ha reso noti
23 casi, di cui cinque concernenti l’acquisizione di proprietà
immobiliari, con multe fino a 1,45 milioni di yuan per l’impiego di
“banche sotterranee”.
Chi è che sarebbe “pronto a tutto”?