martedì 27 novembre 2018

il manifesto 27.11.18
Il convegno
Tre giorni dedicati al filosofo di Treviri

«Marx e la critica del presente (1818-2018)»
È il tema del convegno che si terrà a Roma (da oggi al 29) al Goethe-Institut e alla Sapienza, organizato dalla Fondazione per la critica sociale.
Relatori: R. Finelli, T. Toffanin, L. Basso, F. Andolfi, S. Petrucciani, R. Genovese, V. Morfino, F. Giardini, R. Bellofiore, M. Ricciardi, J. Mascat, G. Cesarale, M. Pezzella, D. Balicco, M. Prospero, F. Raparelli, M. Gatto.

il manifesto 27.11.18
Borghesia e contadini tra le grinfie dei Bonaparte
Incontri. «Gli errori di Marx»: un estratto dal convegno «Marx e la critica del presente (1818-2018)» in programma a Roma da oggi al 29 presso il Goethe-Institut e la Sapienza
di Rino Genovese


Gli «errori» di Marx – le previsioni sbagliate di cui a lungo si è discusso all’interno del marxismo, come la tesi sull’impoverimento crescente del proletariato, o la legge circa la caduta tendenziale del saggio di profitto che avrebbe dovuto condurre a una crisi risolutiva del capitalismo – possono essere ricondotti a quello che fu il suo unico grande errore: avere preteso di dare alla propria concezione un carattere predittivo sul modello delle scienze naturali. Ma a una teoria sociale critica non si chiede di formulare pronostici: piuttosto di aprire spazi di visibilità sulla realtà storica del proprio tempo. E questo Marx seppe farlo in maniera incomparabile.
SI RESTA AMMIRATI oggi non dal pur grandioso tentativo di dare basi «scientifiche» al socialismo sottraendolo all’utopismo, quanto dall’acuta sensibilità dell’analista che ha scritto saggi come Le lotte di classe in Francia e Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte. Marx qui ha applicato in modo creativo – per nulla meccanico o riduttivo, com’è accaduto successivamente in molti suoi seguaci – il metodo del materialismo storico basato sull’esame puntuale degli interessi economico-sociali e politici delle parti in conflitto, non meno che su quello delle loro posizioni ideologiche.
È la «tradizione storica» – sostiene Marx nelle pagine finali del 18 brumaio, analizzando il ruolo della classe contadina nell’ascesa dello sbruffone che prenderà il nome di Napoleone III – ad avere indotto nei contadini francesi la «credenza miracolistica che un uomo chiamato Napoleone renderà loro tutto il loro splendore. […]L’idea fissa del nipote si è realizzata perché essa coincideva con la classe più numerosa della popolazione francese». E poco più avanti, quasi a rispondere anticipatamente all’accusa di finire in un determinismo storico: «Intendiamoci. La dinastia dei Bonaparte non rappresenta il contadino rivoluzionario, ma il contadino conservatore»: ossia quello che si avvinghia al passato, al «fantasma dell’impero» del primo Napoleone, per restarsene nel piccolo privilegio del suo pezzo di terra.
COME SI VEDE già da queste poche citazioni, il fattore soggettivo, insieme con la distinzione rivoluzionario/conservatore che rinvia a una opzione di tipo politico, appare l’elemento decisivo per definire una condizione di classe. Non diversamente dalla borghesia delle città che, anteponendo il suo interesse immediato, verrà meno all’interesse generale di classe, alla sua missione storica, consegnandosi a sua volta nelle grinfie del Bonaparte. E non diversamente dal sottoproletariato urbano che sarà, insieme con la soldataglia, la massa di manovra del colpo di Stato del 2 dicembre 1851.
IN QUESTO CONTESTO Marx non si occupa delle circostanze «obiettive» della compravendita della forza-lavoro, che darebbero luogo a un contrasto di interessi insito nelle cose, per volgersi invece alla descrizione e all’analisi della disposizione delle forze in campo. Il proletariato di Parigi, sconfitto nell’insurrezione del giugno 1948, non si farà trascinare in un bagno di sangue in risposta al colpo di Stato. Risparmierà le energie per un appuntamento successivo, perché la talpa rivoluzionaria scava la sua strada a poco a poco.
C’è in questa teoria delle classi sociali l’accento su un aspetto soggettivo che la pone agli antipodi del determinismo storico. C’è un momento politico insopprimibile, insieme con la ricerca della radice sociale dei conflitti che spinge a una critica della politica così come si presenta, con le sue alchimie parlamentari (non si dimentichi che il colpo di Stato bonapartista ebbe luogo contro la seconda repubblica francese). È su una ridistribuzione delle carte nel corso del conflitto che la rivoluzione proletaria dovrebbe puntare, sebbene questa chance alla fine non si profili. Anzi, la stessa analisi disincantata dell’eclissi politica della borghesia mostra la sopravvalutazione del ruolo rivoluzionario riservato, nella generale concezione marxiana, alla modernità capitalistica. In realtà questa è sempre pronta al compromesso con le forze del passato, allo stesso modo in cui la borghesia è disposta a sacrificare l’ideale repubblicano pur di ottenere la tranquillità di cui ha bisogno per lo svolgimento dei propri affari.
L’ILLUSIONE SULLA FUNZIONE storica progressiva della borghesia contribuisce a spiegare perché le profezie di Marx non si siano realizzate, perché lo stesso proletariato industriale non abbia mai potuto trovare il momento per una vincente irruzione in forze, perché la lotta mortale tra le classi abbia condotto nel Novecento a una sorta di stallo epocale.
Oggi, al tempo della retorica intorno all’«imprenditore di se stesso», nell’isolamento postfordista della forza-lavoro, il dispiegarsi del conflitto sociale – chiamando così, in un’accezione più ampia, la «lotta di classe» – appare la vera utopia, l’orizzonte cui guardare dopo il tramonto del «socialismo scientifico».

Repubblica 27.11.18
La testimonianza
Il legame tra due grandi autori
"Bernardo e io, amici rivali divisi da politica e psicanalisi"
Il ricordo di Marco Bellocchio: "Io descrivevo l’Italia, lui aveva uno sguardo internazionale. Quando mi sorpassò provai una grande indivia"
intervista di Arianna Finos


Marco Bellocchio per ricordare l’amico e rivale scomparso si appoggia a Pasolini: «Bertolucci è il cinema di poesia, Bellocchio di prosa». Disse quella frase al Centro di cultura sovietica di Roma: «Come ogni definizione di Pier Paolo, è diventata un conio».
Il 79enne regista piacentino è la migliore voce per restituirci un pezzo di storia d’Italia vissuta con il maestro del nostro cinema.
Da giovani eravate rivali.
«Da molto tempo c’era un rapporto di grande affetto e stima reciproca.
Ma senza la confidenza della grande amicizia. L’ultima volta ci siamo visti a una cena per Novecento restaurato. Mi raccontava che avrebbe voluto anche attori russi nel cast, ma l’Unione Sovietica si era opposta. Mi era venuto in mente che mentre lui girava quella grande produzione piena di divi, alloggiando al Maria Luigia di Parma, io ero in un alberghetto sulle tracce dei Matti da slegare, per dire come le due nostre due immagini fossero contrapposte».
Lui di Parma, lei di Piacenza.
«Sì. Io venivo dalla provincia più profonda, anche se aristocratica, penso ai Quaderni piacentini...
Lui in Partner mise la battuta "di Piacenza l’Italia ne fa senza".
C’era rivalità, i piacentini avevano un certo tipo di moralismo, per certi versi pasoliniano, mentre lui viveva al centro della società cinematografica-letteraria romana.
In questo senso gli stili erano diversi. Lo ricordo al mio saggio di diploma al Centro sperimentale, si complimentò. Era di un’eleganza inglese e guidava una Triumph rossa decapottabile. Dopo pochi anni, da primo sono diventato secondo. Bernardo mi ha appaiato ed è diventato irraggiungibile, ha preso un volo internazionale. Solo in quel sorpasso ho provato una forte invidia. Che è negazione ma anche riconoscimento del valore dell’altro».
Che Italia avete raccontato nei vostri film?
«Bernardo aveva con il Pci un rapporto dialettico e da simpatizzante, io ero su posizioni più anarchiche, per un periodo maoiste. Lui il ’68 lo ha visto, ma dagli spalti, lo ricordo a una manifestazione osservare dall’alto al Palazzetto dello sport al Flaminio. Lui ha guardato quella realtà, poi ha seguito — e ha fatto bene — la sua strada, mentre io mi sono impelagato e in parte annullato nella politica finché ne sono uscito nei Settanta. L’Italia che lui rappresentava è sofisticata, elaborata stilisticamente, anche nel senso di un certo godardismo, che era il suo manifesto e che poi però ha tradito. Prima della rivoluzione racconta la crisi del Pci, la bellezza della vita prima della rivoluzione, ma finisce alla Festa dell’Unità in modo tutt’altro che irriguardoso.
Da questo punto di vista c’erano due atteggiamenti diversi verso l’Italia: la sua visione poetica, la mia prosaica. Fofi chiamò il mio La Cina è vicina "le mura di Imola". Io raccontavo il perimetro intorno a me, lui andava oltre. Già nella Strategia del ragno, elaborando in modo emiliano un testo internazionale. Poi con Il conformista è uscito dai confini, il successo internazionale di Ultimo tango subì quel gesto violento e pagliaccesco della censura. E con
Novecento il ritorno in un’Italia, ma da grande romanzo americano, lontana dalla povertà dell’Albero degli zoccoli. Il suo era lo sguardo del grande artista che cerca la verità nel mondo. In viaggio con Il tè nel deserto, la geniale intuizione dell’Ultimo imperatore: Anch’io ai tempi pensai a un film su quel tema, lui riuscì a costruirlo. Io restavo in Italia e raccontava la violenza nella famiglia e nell’educazione cattolica, un altro tipo di ferocia, ecco.
Se devo pensare ai suoi racconti d’Italia più che a Novecento penso a Prima della rivoluzione, per lo stile originale, ispirato, letterario, che parlava di una borghesia in cui lui si riconosceva».
E Bertolucci cosa amava del cinema di Bellocchio?
«Era sempre controcorrente. Mi scrisse un biglietto: gli era piaciuto
Il sogno della farfalla, che per tutti era l’epitaffio del mio cinema.
Lui invece lo aveva apprezzato.
Ci divideva perfino la psicanalisi, lui freudiano e superortodosso, io fagioliano. Eppure mi scrisse quel biglietto che conservo ancora».

Il Fatto 27.11.18
La Resistenza è rinviata a data da destinarsi
Doppio flop di Repubblica. Senza risposte l’appello di Zagrebelsky e posti vuoti al Brancaccio
di Fabrizio D’Esposito


Un tempo giornale-partito che dettava la linea alla sinistra e poi al centrosinistra. Oggi giornale-propaganda come tanti altri. La differenza è visibile a occhio nudo. Come i tanti spazi vuoti l’altra mattina, di domenica, al teatro Brancaccio di Roma, dove ci si batteva per la libertà di stampa nell’anno I di questo cupissimo regime gialloverde, un filino peggio di quello berlusconiano.
Parliamo, ovviamente, della gloriosa Repubblica di Mario Calabresi che in questo fine settimana ha tastato il polso alla politica e alla società civile sul grave rischio fascismo in Italia. E la crisi del fu giornale-partito si è palesata tra silenzi notevoli e scarsa partecipazione democratica. Eppure per mobilitare le masse anti-populiste, sabato scorso il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari ha festeggiato il ritorno tra gli illuminati del costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, motore del No al referendum renziano e sin da allora sospettato di collaborazionismo filogrillino.
Zagrebelsky è tornato con un vigoroso appello alla resistenza e alla disobbedienza civile, senza però specificare contro chi (in realtà volava alto e citava Popper, contro le società chiuse sognate da tanti politici italiani di oggi e di ieri). L’unico nemico citato è il “tribalismo”. L’appello però è stato subito respinto da alcuni potenziali nuovi partigiani del fronte anti-populista: Matteo Renzi e Maria Elena Boschi e finanche un tranchant Giuliano Ferrara ieri sul Foglio (“stupidità sostanziale” ornata con “preziosità accademica”). Non solo. A far cadere nell’abisso delle cose perdute il vigoroso appello è stata l’indifferenza del Pd, partito ombelicale concentrato ormai solo su primarie, correnti, candidati e i consueti tatticismi di palazzo.
E il mancato scuotimento adrenalinico del Pd conduce al flop di domenica mattina al Brancaccio, dove nemmeno la pletora di direttori ed ex direttori del gruppo debenedettiano è riuscita a richiamare la folla delle grandi occasioni, per un nuovo girotondo, stavolta contro il regime gialloverde. La crisi del giornale-partito è infatti la crisi nera che continua ad attraversare il Pd, sempre più avvitato in una logica perversa di ceto politico.
Sin dalla catastrofe elettorale del 4 marzo scorso, Repubblica ha provato a guidare il processo di rinnovamento (non andando oltre, però, la riesumazione di Prodi e di Veltroni) per riguadagnare l’autorevolezza e il prestigio degli anni Novanta ma il vuoto di consensi non si è affatto fermato.
Il doppio flop Zagrebelsky-Brancaccio poggia però anche su due altre gambe evidenti. Innanzitutto la rimozione del renzismo, errore questo in cui è caduto persino Massimo Giannini, volto “repubblicano” tra i pochi, da quelle parti, a criticare il Rottamatore quando era premier e per questo epurato dalla Rai. Del resto la crisi di Repubblica deve molto al fiancheggiamento acritico del renzismo.
Questa rimozione è simmetrica al pregiudizio contro i Cinquestelle, ignorando che buona parte dei girotondi e dell’élite antiberlusconiana dell’ultimo ventennio ha scelto, da sinistra, il radicalismo dell’onestà grillina.
Ecco perché in questo weekend non c’è stata alcuna ribellione di massa. E l’annunciata Apocalisse finanziaria ancora latita, nonostante la massiccia propaganda di Repubblica. L’ultima topica l’ha raccontata ieri Dagospia: in Rete è stato chiesto a Federico Rampini, firma-guru del quotidiano, dove avesse preso una frase attribuita a Merkel. Questa: “Dobbiamo trattare l’Italia come la Polonia”. A smentirlo la collega di Repubblica da Berlino, Tonia Mastrobuoni: “Non l’ha mai detto”.

Il Fatto 27.11.18
Yanis Varoufakis . ”La battaglia con l’Unione va fatta per cambiare le regole, non per violarle”
“L’Italia non faccia come Tsipras, non ceda”
di Wanda Marra


“È stato un giorno triste quello in cui Alexis Tsipras ha lottato per convincere Bruxelles e Berlino di essere il loro uomo. Quindi, no, non sono d’accordo sul suo consiglio all’Italia che è meglio cedere subito”. Yanis Varoufakis, l’ex ministro delle Finanze greco che uscì sbattendo la porta dal primo governo Tsipras, ha appena finito di parlare. Per due ore davanti a tutta la business community italiana allo Studio Curtis, ultimo piano con vista su piazza Venezia a Roma, ha espresso opinioni e valutazioni sulla politica mondiale.
Stimolato da Sir Martin Sorrell, uno dei più grandi comunicatori mondiali (è stato per 33 anni a capo della WPP). Da Macron (“che ha solo 6 mesi davanti a sé per provare a sopravvivere”), alla May (“il tipo di accordo stretto con la Ue è una scelta totalmente sbagliata”) a Putin (“è così importante perché l’Europa e gli Stati Uniti glielo consentono, non facendo una politica energetica e tollerando le sue violazioni dei diritti umani”). Ha appena annunciato la candidatura alle Europee con il suo movimento transnazionale, Diem 25, come capolista in Germania.
Per le liste in Italia, sta per partire la raccolta firma: mettere insieme i partiti a sinistra si è rivelata una mission quasi impossibile.
Cosa dovrebbe fare il governo italiano?
Deve decidere se vuole cambiare le regole o fare una battaglia per violarle, che non serve a niente. Il mio problema con questo governo è che sta continuando la strategia di Renzi. Mandare avanti il ministro e poi dire che le richieste dell’Europa non vanno bene. Dovrebbe invece dire: ‘Ok, non possiamo rispettare queste regole, ecco il nostro piano per cambiarle’.
Quindi, sbaglia ad abbassare la manovra dello 0,2%?
Sì. Dovrebbe presentare la richiesta di un piano straordinario di investimenti europei, ovvero bond della Banca europea, per investimenti veri come riconversioni ecologiche e industriali. Se fosse accettato, l’Italia si impegna a rispettare tutti gli impegni, se fosse negato, dovrebbe partire con un piano unilaterale di investimenti nazionali e arrivare anche al 3%.
Cosa pensa di Salvini?
È stato creato dal fallimento dell’establishment, che ha bisogno di esibirlo come nemico. Ma funziona anche al contrario. È tutta una pantomima: Juncker è funzionale a Salvini e viceversa. Un esempio? Macron non sarebbe mai stato eletto senza Marine Le Pen.
E di Luigi Di Maio? Ci parla?
Ci ho parlato in passato, mi ha fatto domande, è stato molto educato, ma ora non vedo motivo per farlo: i Cinque Stelle non sono quelli di tre anni fa. Non li capisco: hanno perso ogni occasione di essere un’opportunità per cambiare l’Europa democratica. Sono diventati uno strumento nelle mani di uno xenofobo come Salvini.
Cosa pensa del reddito di cittadinanza?
Sono a favore di questa misura. Ma in questo caso, si tratta solo di un reddito minimo garantito, che è subordinato all’accettazione di una proposta di lavoro. Non è una soluzione strutturale.
Lei ha detto che la riduzione dell’età pensionabile dovrebbe riguardare solo lavoratori manuali e quelli a bassa retribuzione, quindi non chi lavora nella finanza, nella Pa, nelle professioni.
Sarebbe un primo passo, ma dovrebbe riguardare anche professionisti come gli insegnanti o i dottori negli ospedali. Bisognerebbe concordare con i sindacati diverse fasce d’età, ma lasciare fuori i dirigenti e usare i soldi risparmiati in investimenti.
Draghi ha annunciato la fine del Quantitative easing a dicembre. È preoccupato?
Non è quello che fa la differenza. È come curare il cancro con il cortisone: il malato sta meglio, ma non guarisce.

il manifesto 27.11.18
Bertolucci, gli intellettuali e la debolezza della sinistra
Addio novecento. La scomparsa di Bernardo Bertolucci e il suo ruolo nella vita politica e artistica del Paese
Una scena da «The Dreamers»
di Luciana Castellina


Toronto, 11 settembre 2001. Erano all’incirca le 8 del mattino e stavo consumando una frettolosa colazione in albergo prima di correre a una riunione ( erano i tempi in cui ero presidente dell’Agenzia per il cinema italiano ed ero in Canada per uno dei più importanti festival/ mercato di film del mondo ), quando, guardando distrattamente lo schermo sempre acceso della TV in un angolo della sala, vidi le immagini di un incidente aereo. Nelle vicinanze delle altissime torri costruite da poco a New York. Mi alzai senza dar troppo peso a quella notizia, di incidenti aerei ce ne sono tanti. Fu Bernardo Bertolucci – anche lui a Toronto per il Festival – che, poco dopo, mentre nessuno aveva ancora capito cosa era accaduto e io stavo tranquillamente raggiungendo la mia riunione, ad avvertirmi che, forse, non si trattava di un comune incidente. Era infatti accaduto l’«11/9», una svolta epocale.
Passai insieme a Bernardo e a sua moglie Claire l’intera giornata appiccicati allo schermo TV della loro stanza ascoltando e guardando per ore le notizie e le immagini in diretta che arrivavano da New York, stesso fuso orario di dove noi ci trovavamo.
SE NON FOSSE stato per lo sbigottimento e l’orrore della vicenda che ci si snocciolava dinanzi agli occhi, e soprattutto per le terribili conseguenze che quell’evento ha poi prodotto, potrei dire che quella giornata è stata per me una straordinaria esperienza. Ore e ore a discutere del mondo insieme a Bernardo, vale a dire a qualcuno che del mondo era stato un interprete lucidissimo e assai precoce. Per questo, assistere con lui allo stravolgimento che si annunciava aveva un valore particolarissimo.
DELLA INSORGENZA che quest’anno che celebriamo per via del suo cinquantenario, il ’68, e che – quali che siano le interpretazioni riduttive che ne hanno dato i media del potere e qualche protagonista pentito – non ha vinto ma ha fatto sì che il mondo, dopo, non fosse più lo stesso, Bernardo aveva capito con anticipo la portata storica. Aveva intuito cosa stava covando nella società e ne aveva dato atto con i suoi primi film, mai direttamente politici, ma capaci di illuminare la politica solo che fosse disposta a capire.
QUEL PRESASSANTOTTO fu un tempo prezioso, un’epoca che aprì gli occhi ad una generazione che poco tempo dopo volle diventare soggetto di una lucida rivolta ma che potè esserlo perché in quegli anni la cultura un po’ bigotta, provinciale, della sinistra tradizionale, si era finalmente aperta alla contaminazione con altre culture non ortodosse, la sociologia americana, la scuola di Francoforte, la New Left inglese. E alla variegata assai creativa intellighenzia francese. Il cinema ebbe in questo contesto un ruolo decisivo, e infatti in quei primi anni ’60 si moltiplicarono ovunque i cineforum. In Italia sorsero come funghi e i film dei nuovi registi vennero visti persino negli scantinati o, come a Bologna, per via dell’iniziativa di quelli che poi fecero radio Alice, addirittura in una sala parrocchiale affittata. Bernardo Bertolucci di quella stagione è stato in Italia un protagonista, la sua scomparsa, per questo, colpisce oggi tutta intera una generazione.
RICORDARE quel tempo induce a riflettere sul ruolo che possono avere gli intellettuali o quello che invece non riescono ad assumere. Dipende da tante cose, non è colpa degli intellettuali italiani, e non solo, se si registra oggi un drammatico declino della loro funzione. Ma quel vuoto è pesante, è uno degli aspetti più gravi della debolezza della sinistra.
Dovrebbe far riflettere di più. Sarebbe stato bello farlo insieme a Bernardo ancora una volta. Purtroppo se ne è andato, dopo gli anni tristi di quella maledetta operazione alla schiena andata male che lo aveva costretto su una sedia a rotelle. Ciao Bernardo, grazie da un giornale, il manifesto, che ha cominciato a pensarsi proprio in quegli anni di cui ho parlato.

il manifesto 27.11.18
Il desiderio è rivoluzione
Addio Novecento. Scompare a 77 anni Bernardo Bertolucci, i suoi film hanno raccontato il sentimento della modernità. Il ’68 di «The Dreamers», l’Italia del «Conformista» fino alla cantina di «Io e te», una reinvenzione del mondo nell’immaginario
di Cristina Piccino


È sempre difficile affrontare una notizia che ti coglie impreparato. È vero, era malato da tempo Bernardo Bertolucci però nonostante questo continuava a fare progetti, a lasciare porte aperte, «vita al lavoro», con un nuovo film in scrittura che contava di girare, forse «piccolo» come il precedente e magnifico Io e te (2012) e altrettanto spiazzante, con una energia imprevista e imprevedibile che mentre lo guardavo pensavo: sembra il film di un ragazzo. Ma lui lo era, un ragazzo…Invece all’improvviso non c’è più, ed ecco che il tempo corre, scrivere, dire qualcosa, ripensare tutti i film, nel rewind che è anche quello della vita in cui quei film sono entrati con prepotenza delicata diventando una «guida» irriverente per lo sguardo.
COSA ci ha insegnato il cinema di Bertolucci? Cosa ci insegna e ci insegnerà? Il desiderio e la rivoluzione,la sensualità della macchina da presa e quel «Non si può vivere senza Rossellini» (in Prima della rivoluzione) quasi un «Non si può vivere senza Bertolucci» anche se nel nostro cinema lui è rimasto una singolarità. E non si tratta soltanto di inquadrature o mise en scene o storie. È qualcos’ altro, molto di più, molto diverso, lo spazio dell’immaginario, il piacere di filmare, la scoperta del mondo insieme alla sua invenzione. E poco importa se avviene in una cantina (Io e te) o nella Città proibita della Cina imperiale all’inizio del secolo scorso (L’ultimo imperatore), le sue «scene madri» – citando il libro di Enzo Ungari, che è stato tra gli autori proprio di L’Ultimo imperatore – restituiscono la trama complessa della realtà e del suo tempo in un sentimento universale, libero e critico, che scuote le certezze, interroga la propria materia senza mai mettersi al riparo di una «ideologia». E quella capacità di trasportare nel mondo le radici, di aprire il cinema a una dimensione mondiale che, al di là della circostanza produttiva, continua però a portare in sé la propria impronta.
TUTTI i film di Bertolucci vivono su un confine, un gioco di specchi tra interno/esterno, la messa in campo di un punto di vista consapevole di sé che dichiara la presenza dell’autore con la sua esperienza trasformata in narrazione, la sua cinefilia più atto d’amore che citazione, gli amici, i miti, l’infanzia a Parma. Le scene di ballo anche queste passaggio «obbligato» nel deserto o in un oriente dei film amati o ancora nella villa in Toscana dove vive il suo romanzo di formazione una giovane americana (Io ballo da sola, 1996) – ma in fondo lo sono un po’ tutti i suoi film romanzi di formazione. Lui è lì, con le sue storie che amava raccontare, narratore raffinato che non ci si stancava mai di ascoltare, aggiungendo ogni volta qualche variante.
AVEVANO messo al rogo – letteralmente – Ultimo tango a Parigi nell’Italia clericale e ipocrita del 1972, privando Bertolucci dei diritti civili per cinque anni; era indigesto quel film per come capovolgeva la rappresentazione della sessualità, i rapporti uomo e donna dentro alla visione Nouvelle Vague di unire il cinema europeo e americano… E a distanza di decenni la polemica continuava con le accuse di avere devastato – psicologicamente – Maria Schneider nella scena del «burro». Eppure lei, il suo personaggio di ragazza che vive due vite, una dentro e l’altra fuori quell’appartamento gli è molto vicina, forse persino più di quello di Brando, l’icona di un cinema americano contrapposta ai fantasmi della Nouvelle vague, il tremore per quel desiderio (ancora e sempre) di trasgressione che stride col mondo oltre le pareti di Passy ove avvengono i loro incontri.
Novecento (1976) venne attaccato dal Pci – almeno dalla generazione più vecchia – che lo accusava di essere non realista, mai un figlio di contadini poteva essere amico col figlio dei padroni come accade tra Olmo (Depardieu) e Alfredo (De Niro) nati entrambi il 27 gennaio del 1901, il giorno della morte di Verdi. Ma la fonte era la sua infanzia nella campagna emiliana – Bertolucci era nato a Parma nel 1941 – quando da ragazzino giocava coi figli dei contadini e, come amava ricordare, aveva scoperto la parola «comunista». Lui, Bertolucci, non ne occupa il posto, al contrario mantiene la coscienza del suo essere borghese e questo gli permette di passare dalla realtà come è all’utopia della rivoluzione. E del cinema. Questa è la sostanza politica delle sue immagini incomprensibile alla critica italiana del tempo che metteva avanti il «contenuto». Ma Bertolucci guardava altrove, viaggiava nel tempo e nello spazio, si immergeva nell’inconscio per cogliere i conflitti, l’io e il noi.
IL ’68 era Pierre Clementi (protagonista di Partner, scritto insieme a Gianni Amico) che portava il pavet parigino tra i sanpietrini romani – «Aspettavano le sue storie» diceva Bertolucci. E saranno poi i ragazzi di The Dreamers, chiusi anche loro in un appartamento per uscire infine in strada e scegliere nel confronto con la realtà diverse posizioni separati per sempre – nella sinergia tra Bertolucci e il biondo Michael Pitt – sognatori che uniscono ancora una volta l’immaginario e il vissuto in un unico respiro.
CINEMA, desiderio, rivoluzione. La memoria di una notte sussurrata sulla spiaggia di Sabaudia (dove era la sua casa) con la Madre – nello struggente melò che è La luna – e il seno che succhia bimbo L’ultimo imperatore. Ma l’inconscio è sempre quello dell’umano, di un Paese, della storia. Del Novecento e del contemporaneo. Non a caso Bertolucci nella famiglia alle prese col rapimento del figlio forse mai avvenuto – La tragedia dell’uomo ridicolo – è l’unico regista italiano che nell’81 illumina con precisione lo spaesamento della politica, della sinistra di fronte alla lotta armata, il grande tabù del nostro immaginario.
ALL’INIZIO c’era stato Pasolini (con cui scrive il suo esordio, La commare secca, 1962), una foto li ritrare insieme entrambi con la giacca e la cravatta (la moda per i giovani non c’era ancora) Bertolucci ricciuto e bello. Tra le sue storie c’era quella del loro primo incontro, quando Pasolini era venuto a cercare il padre, il poeta Attilio, a casa, mentre riposava. E Bernardo lo aveva tenuto sulla porta un po’ brusco. Il padre lo aveva molto rimproverato, e da lì era iniziato un legame profondo, una trasmissione anche se con visioni del mondo diverse. «Pier Paolo raccontava la trasformazione sociologica e culturale dell’Italia, da paese contadino a consumistico. Volevo mostrargli che quell’innocenza contadina che lui riteneva sparita c’era ancora» diceva Bertolucci ancora a proposito di Novecento.
E POI? Ci sono nove premi Oscar (L’ultimo imperatore), una dimensione sempre più internazionale data non solo dal lavoro con attori di tutto il mondo, la passione e la curiosità, l’eleganza e le storie, ma sopratttutto l’amore per il cinema. Che non è mai fine a sé stesso, mai presunzione del filmare, pure se l’occhio di Bertolucci riesce a comporre la spettacolarità in ogni dettaglio, ma sentimento della modernità. E la scommessa nelle sue variazioni di essere ancora capace di sorprendersi.

Il Fatto 27.11.18
Chi ha paura della Giustizia?
Una questione aperta - Perché nelle carceri italiane ci sono tantissimi “poveracci” e pochi colletti bianchi?. Perché le norme, anche in questi anni, hanno voluto salvare i “potenti” (finendo per fare un favore anche agli altri delinquenti)
di Roberto Scarpinato


Per capire come funziona in concreto il sistema di giustizia in un Paese, non ci si può limitare a esaminare le leggi penali che prevedono i reati, i codici che disciplinano i processi, l’organizzazione della magistratura e delle forze di polizia. Esiste infatti uno scarto molto grande, a volte un abisso, tra legalità formale (law in book) prevista dalle leggi e legalità reale (law in action).
Nel 2013 è stato pubblicato un documentato studio del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia sulla composizione della popolazione detenuta in carcere in espiazione definitiva di pena. Da quello studio risultava che 14.970 detenuti, pari al 50 per cento del totale, erano stati condannati per violazione della legge sugli stupefacenti, 6.069 per omicidio, 5.892 per rapina, 2.250 per furto, 2.221 per estorsione, 2.052 per violenza sessuale, 1.954 per ricettazione e così via per altri reati di strada. Le voci “reati contro la Pubblica amministrazione” (che comprende i reati di corruzione in senso lato) e “reati economici” (cioè bancarotte, reati fiscali) non risultavano quotate per l’irrilevanza statistica delle persone detenute per tali tipologie di reato.
Per completare il quadro è interessante comparare la composizione della popolazione carceraria dell’Italia attuale con quella dell’Italia degli inizi del XX secolo. Ebbene, nonostante dagli inizi del Novecento ai nostri giorni siano cambiate più volte le forme dello Stato – con la transizione dalla monarchia costituzionale al fascismo e poi alla Repubblica – nonostante il succedersi di eterogenee maggioranze politiche nel corso della storia repubblicana, permane una costante: in carcere, a espiare effettivamente la pena, oggi come ieri e l’altro ieri finiscono coloro che occupano i piani più bassi della piramide sociale. Tenuto conto che il carcere rappresenta una tra le più rilevanti cartine di tornasole degli esiti concreti della giurisdizione penale, i dati statistici sembrerebbero avvalorare l’ipotesi di una straordinaria continuità storica di un duplice volto della giustizia: debole e inefficiente con i potenti, forte ed efficiente con gli impotenti.
Nell’Italia repubblicana, ove la Costituzione ha garantito l’indipendenza della magistratura dal potere politico e ha consentito la crescita democratica del Paese, l’impunità dei colletti bianchi si è di fatto realizzata attraverso meccanismi molto complessi e sofisticati per comprendere i quali dobbiamo procedere a un censimento dei grandi assenti nella popolazione carceraria.
Chi non ha paura della giustizia?
I complici occulti degli stragisti. Mi riferisco ai mandanti politici e ai complici occulti delle stragi che hanno insanguinato la storia del nostro Paese.
Ebbene, nonostante gli sforzi profusi, gli esiti di quasi tutti i processi per stragi sono stati talora fallimentari, talora molto parziali. (…).
Un’altra categoria di “ingiusti” assente dalla popolazione carceraria è quella dei corrotti e dei corruttori, i quali sino a oggi pure non hanno avuto motivo di avere paura della giustizia. (…) La tangentopoli italiana non si è mai fermata e ha attraversato il fascismo, la Prima e la Seconda Repubblica giungendo sino ai nostri giorni. (…)
Nell’Italia pre-repubblicana e pre-costituzionale, l’impunità veniva assicurata mediante la subordinazione gerarchica del pubblico ministero al ministro della Giustizia e il controllo politico sui vertici della magistratura. Nella cosiddetta Prima Repubblica, l’impunità è stata garantita mediante la negazione sistematica delle autorizzazioni a procedere, il trasferimento della competenza sui processi verso uffici giudiziari diretti da vertici ritenuti affidabili dal sistema politico (restati nella memoria collettiva con la significativa denominazione di “porti delle nebbie”), il varo di ben 33 amnistie e indulti, e altri metodi che, per ragioni di tempo, tralascio. Dopo la breve parentesi storica dei processi di Tangentopoli dei primi anni Novanta, quando a seguito del collasso del sistema di potere della cosiddetta Prima Repubblica (conseguente alla caduta del Muro di Berlino e al mutamento degli equilibri macropolitici internazionali e nazionali) il principio di uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge sembrò potersi trasformare da law in book (principio astratto) in law in action (diritto vivente), il ripristino dello statuto impunitario dei colletti bianchi è stato attuato, a fronte di un ordine giudiziario che non appariva condizionabile politicamente o per le vie gerarchiche, a seguito dell’emanazione di una sequenza di leggi che hanno pienamente raggiunto l’obiettivo.
Non potendo dilungarmi in una dettagliata esposizione, mi limito a ricordare solo alcuni passaggi strategici.
Nel luglio del 1997 una maggioranza di centrosinistra, con la convinta adesione della minoranza di centrodestra, varava una riforma dei reati contro la Pubblica amministrazione che, per un verso, aboliva il reato di abuso di ufficio non patrimoniale e, per altro verso, modificava la disciplina del reato di abuso di ufficio patrimoniale, rendendo estremamente difficile la prova della sua consumazione. (…)
Negli anni seguenti venivano approvate poi una serie di leggi che legalizzavano il conflitto di interessi in settori strategici, creando un habitat ideale per l’abuso d’ufficio, per la proliferazione della corruzione, riducendo ulteriormente, anche per tale via, il rischio penale.
Altra riforma legislativa che ha minimizzato il rischio e il costo penale per i reati di colletti bianchi, è stata la legge 5 dicembre 2005, n. 251, cosiddetta ex-Cirielli, con la quale è stato modificato il regime dei tempi di prescrizione dei reati.
Grazie alla combinazione prescrizione breve/processo lungo, si creava una micidiale falla di sistema che, come una sorta di triangolo delle Bermude, inghiotte nei gorghi della prescrizione centinaia di migliaia di processi ogni anno.
Un’altra categoria di grandi assenti nella popolazione carceraria italiana è quella dei condannati definitivi per reati economici e finanziari, bancarottieri e grandi evasori fiscali. (…)
Per comprendere appieno come si sia determinata l’anomala composizione della popolazione carceraria rilevata nello studio del Dap al quale ho accennato all’inizio, nella massima misura composta solo da soggetti appartenenti alle classi meno abbienti, occorre considerare che, nello stesso periodo nel quale venivano emanate una serie di leggi che in modi diversi sortivano l’effetto di evitare il carcere per i reati dei colletti bianchi, venivano emanate altre leggi che andavano nella direzione esattamente opposta, elevando le pene previste per i reati di strada e quelli commessi da immigrati irregolari, introducendo nuove fattispecie di reato, allungando i tempi di prescrizione per i reati commessi dalla criminalità comune. (…)
L’illegalità impunita dei piani alti contribuisce ad alimentare, come in un rapporto di causa effetto, quella dei piani bassi, dando vita a una spirale perversa nelle cui volute si perdono giorno dopo giorno la credibilità della classe politica, la fiducia nelle istituzioni, il sentimento della coesione sociale, consegnando ciascuno a una perdente solitudine e a una rabbia impotente che rischia di scaricarsi su capri espiatori offerti come valvola di sfogo da abili manipolatori.

Repubblica 27.11.18
L’intervento
La Ue e l’uguaglianza sostenibile
di Fabrizio Barca


Caro direttore, le imminenti elezioni europee sono un’occasione. Per fare intravedere ai cittadini l’esistenza di un’alternativa sia al neoliberismo, sia alla dinamica autoritaria. E per portare nel Parlamento europeo un drappello di persone convincenti, radicali e battagliere. Ma come?
Il quadro di riferimento è cupo. Dal Nord al Sud dell’Europa, come in larga parte di tutto l’Occidente, è in atto una dinamica autoritaria. La rabbia e il risentimento maturati in trenta anni di politiche dominate dal neoliberismo vengono accarezzate da formazioni politiche che al meglio non hanno una chiara direzione di marcia, al peggio offrono a vulnerabili, penultimi e ultimi l’odio per "gli altri", la ricerca continua di nemici, l’erezione di barriere. Le imminenti elezioni europee possono avviare il contrasto organizzato di questa prospettiva. Un contrasto che dia voce e spazio a decine di migliaia di pratiche di avanzamento sociale che nei mondi della cittadinanza, del lavoro, dell’impresa e della cultura, hanno retto al trentennio neoliberista. Non si tratta della vittoria di quella o di quell’altra formazione. È invece possibile che a Bruxelles arrivino da tutta Europa 100- 150 europarlamentari, soprattutto giovani non compromessi con gli errori del trentennio, con una forte presenza femminile, che, pur appartenendo a diversi partiti, condividano il disegno di un’Europa giusta e diversa da quella di oggi, conoscano quelle pratiche territoriali, si impegnino anima e corpo a battersi e ricercare alleanze, contrastino i tentativi autoritari e liberticidi.
Non è in questa direzione che vediamo orientarsi la preparazione dell’Italia all’appuntamento elettorale. Nei partiti di opposizione, sia nei maggiori sia nei più piccoli, vediamo dominare l’arroccamento e l’auto- referenzialità. Il confronto delle idee non riesce ad animare né la dialettica interna, né il confronto fra formazioni diverse, e tutto precipita in scontri di personalità e di apparati burocratici. Dal canto suo, nel Movimento 5 Stelle appaiono senza ossigeno le istanze di " nuova democrazia", che pure avevano percorso il paese. È dunque necessario un salto.
Non è credibile che tale salto possa consistere nella convergenza attorno a una strategia condivisa. Troppo profondo è il vuoto di cultura politica, perché ciò possa avvenire in pochi mesi.
Accantonando dunque l’ambizione di una convergenza strategica, le forze che si oppongono ad una dinamica autoritaria hanno un’altra strada. Trovare un minimo comune denominatore, alcune chiavi di lettura del presente, alcuni principi, alcune politiche per la giustizia sociale e lo sviluppo sostenibile da mettere al centro della battaglia elettorale. E poi, soprattutto, affidarne il messaggio ai più coraggiosi, ai più innovatori, ai più generosi, ai meno compromessi ( politicamente) fra i loro, candidandoli alle europee. Non si tratta assolutamente, per il Pd o altri, di costruire un "listone anti-autoritario", o, a sinistra del Pd, di dare vita a un nuovo partito che metta insieme i diversi tentativi in atto. Ogni forza non rinunzierà al suo percorso, alle proprie legittime aspirazioni, alle proprie candidature di apparato (siamo realisti!). Si tratta piuttosto di trovare un’intersezione fra i propri diversi percorsi che consenta di fare intravedere agli elettori l’esistenza di un’alternativa condivisa sia al neoliberismo, sia alla dinamica autoritaria, a cavallo di formazioni diverse. «Sono divisi, la pensano diversamente, ma, guarda un po’, su cinque punti che contano per la nostra vita dicono le stesse cose … quasi quasi provo a votare i portatori di quelle bandiere … chissà che a Bruxelles non possano fare davvero un buon lavoro » : a questa reazione si può ambire. I sentimenti che vengono dalle pieghe del paese dicono che è una strada possibile.
Per raggiungere questo obiettivo le donne e gli uomini di buona volontà di forze diverse possono usare i documenti a disposizione. Ne indico uno. Appena uscito. È frutto del lavoro di una Commissione indipendente composta da trenta esponenti dei mondi del lavoro, della cittadinanza e della cultura di tutta Europa e di cui con Enrico Giovannini ho fatto parte. Il suo titolo è Uguaglianza Sostenibile.
Propone una "svolta radicale delle politiche europee e nazionali" e avanza 110 proposte operative attorno a cinque temi: Giustizia sociale per tutti, Ridisegnare il capitalismo, Progresso socio-ecologico, Potere alle persone, Promuovere il cambiamento.
Il documento è stato promosso da parlamentari del Gruppo dell’alleanza progressista dei socialisti e democratici del Parlamento europeo, e si rivolge a tutti. Sarebbe un peccato se fosse percepito e usato solo come uno strumento dei partiti che in quel gruppo si riconoscono. (Magari lo fosse!) Può essere assai di più. Assieme ad altri documenti animati dallo stesso spirito – penso ad esempio al rapporto dell’International panel on social progress e al suo Manifesto frutto di 3 anni di lavoro di uno straordinario gruppo di oltre 200 ricercatori di tutto il mondo – Uguaglianza Sostenibile può diventare uno degli strumenti per la costruzione di quell’intersezione.
Lo si usi dunque come un "documento terzo", un contributo da fuori. Perché questo è. Lo si usi, assieme ad altri documenti, per confrontarsi e per individuare, da parte di figure coraggiose e innovatrici di forze diverse, punti comuni. Lo si usi dentro le loro formazioni per stanare al confronto chi dedica le proprie giornate a costruire cordate anziché a prepararsi a cinque anni di difficili battaglie. Lo si usi per costruire candidature convincenti e radicali alle prossime elezioni europee. Perché ciò avvenga, perché nessuno si senta escluso, e nessuno si senta proprietario, sarebbe importante se fossero alti luoghi di cultura di questa Italia a promuovere il confronto. È possibile. Sarebbe un segnale.

Il Fatto 27.1.18
La studentessa a Mattarella: “Noi siamo No Tav”
Teresa Piergiovanni, 23enne, parla al presidente durante l’inaugurazione dell’anno accademico sotto la Mole
di Andrea Giambartolomei


L’opposizione al Tav fa irruzione anche al Teatro Carignano di Torino dove, ieri mattina, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella assisteva all’inaugurazione dell’anno accademico dell’università cittadina. Un’irruzione gentile, ma militante, in una cornice istituzionale.
Dal palco, nel corso del suo intervento, la presidente del Consiglio degli studenti, Teresa Piergiovanni, 23enne eletta ad aprile con la lista di sinistra (maggioritaria) Studenti Indipendenti, ha voluto parlare di confini e ribadire le differenze tra i giovani europei, una generazione “cresciuta senza mai trovarsi davanti a un confine chiuso”, e i giovani “che vorrebbero venire in Europa”, per i quali “invece, non esiste un progetto Erasmus”: “I migranti e le migranti vengono separati in cattivi e buoni, economici e rifugiati, sulla base di criteri arbitrari si decide chi abbia o meno il diritto di stare nel nostro paese – ha detto –. Si sceglie di colpire chi migra e non chi sfrutta come forza lavoro a basso costo queste persone costrette alla clandestinità”.
Ha anche infilato una stoccata all’esecutivo gialloverde: “Il nostro governo sceglie di colpire le organizzazioni non governative che nel Mediterraneo salvano vite umane e non le organizzazioni criminali che su quelle vite costruiscono il loro profitto”.
In questo contesto è arrivata a trattare il tema più sensibile che si possa trattare a Torino di questi tempi: il Tav Torino-Lione. “Noi stiamo con le comunità che ogni giorno lottano per i propri territori, come il movimento No Tav in Val di Susa, che ha una frontiera chiusa e invalicabile per chi migra, ma aperta a una grande opera inutile e dannosa come il Tav”.
Le parole di Teresa Piergiovanni sono state applaudite da una parte del pubblico: “Solo una persona mi ha detto che non era d’accordo”, spiega lei al Fatto. Tuttavia il pensiero “No Tav” in università, dove negli ultimi giorni si sono moltiplicati i dibattiti e gli incontri in vista della manifestazione dell’8 dicembre, non viene accettato da tutti. Ieri, ad esempio, due consiglieri regionali del Pd, Luca Cassiani e Nadia Conticelli, hanno scritto una lettera a Gianmaria Ajani, rettore dell’ateneo torinese, “per chiedere che all’interno del Campus Einaudi sia garantita la libera circolazione di idee e opinioni, come è dovuto in una istituzione formativa pubblica, e quindi siano rimosse le bandiere No Tav dagli spazi comuni non adibiti all’affissione ideologica”.
Insomma, a meno di due settimane dell’8 dicembre il clima si scalda. Così le “madamine” organizzatrici della manifestazione Sì Tav annunciano che non si faranno vedere: “Ce ne resteremo buoni buoni a svolgere la nostra vita normale, possibilmente in luoghi lontani dalla piazza No Tav, nel rispetto di coloro che la pensano diversamente da noi”, scrive Giovanna Giordano Peretti. In piazza sfileranno alcuni rappresentanti della Città, come il vicesindaco Guido Montanari che potrà indossare la fascia tricolore che “rappresenta Torino, come il gonfalone”, ha ammonito l’ex sindaco Piero Fassino alla maggioranza pentastellata del Consiglio comunale ieri pomeriggio. “Vi state mettendo contro tutta la città – ha aggiunto l’onorevole –: siete isolati e dovreste ascoltare i cittadini e capire cosa pensano. Vi state trasformando in un movimento di antagonismo sociale”.

Repubblica 27.11.18
Genova
Sfida tra archistar per il ponte a sorpresa spunta Calatrava
di Massimo Minella Stefano Origone


Genova Tempo scaduto per presentare il progetto di demolizione e ricostruzione del Ponte Morandi. E se la supercordata pubblico- privata formata da Fincantieri, Salini Impregilo e Italferr correrà con un progetto che ha le sue fondamenta nel disegno di Renzo Piano, la concorrente Cimolai, leader italiana nella carpenteria pesante, schiera l’architetto spagnolo (naturalizzato svizzero) Santiago Calatrava. Si profila quindi uno scontro fra archistar, anche se entrambi detestano la definizione, con Piano che ha manifestato apertamente la propria adesione all’iniziativa e Calatrava sulla cui partecipazione, invece, il riserbo è massimo e la discesa in campo ancora da ufficializzare. Il suo nome comincia però a circolare con insistenza già nei minuti successivi alla scadenza dei termini per la presentazione dei progetti, alle 12 in punto negli uffici comunali del " Matitone" di Sampierdarena, quando prende forma l’ipotesi di un ponte con un arco di 550metri, " riassunto" dentro a un plastico che arriva via camion dentro a una grande cassa di legno.
Fino a lunedì prossimo, però, tutto verrà blindato all’interno della commissione di esperti chiamata a esaminare i progetti e a scegliere il vincitore. L’ultima parola spetterà al commissario, il sindaco Marco Bucci. Si individuerà il "demolitore" e poi il "costruttore", chiudendo poi con il direttore tecnico che seguirà tutti i lavori. In campo c’è anche Pavimental, società del gruppo Autostrade che può demolire ( ma non ricostruire). Fincantieri, Salini Impregilo e Italferr vogliono ricostruire, ma sono pronti anche alla demolizione. Il loro progetto si rifà al plastico di Renzo Piano, una struttura allungata, immersa nel verde, che rimanda al profilo di una nave e che è illuminata da 43 lanterne, a ricordo delle vittime del crollo, con piloni in cemento e corpo centrale in acciaio, progettata da Italferr ( gruppo Fs) e costruita da Salini Impregilo e da Fincantieri per tutti i componenti in ferro affidati al cantiere navale di Genova. Valore del progetto indicato dalla maxicordata, poco più di 200 milioni. Dodici mesi per ricostruirlo da cima a fondo, lavorando 24 ore al giorno 7 giorni su 7, ma " ad aree libere", cioè solo quando sarà completata la demolizione. Fra le altre offerte, confermate quella della Pizzarotti di Parma, per demolizione e costruzione, della Ricciardello e della cordata Fagioli- Omini. Per demolire, in corsa in pool anche tre aziende genovesi, Carena, Vernazza e EcoEridania.

Repubblica 27.11.18
Intervista
Il docente di Tor Vergata
"Io parlo, l’app traduce lo smartphone in aula non è più un tabù"
Testo trascritto in tempo reale, addio agli appunti. Gli studenti: "È una svolta"
di Ilaria Venturi


Entra in aula, mostra le slide, scrive formule alla lavagna, spiega, sollecita. E la sua lezione è trascritta e tradotta in tempo reale sugli smartphone dei suoi studenti. Massimiliano Schiraldi, docente associato di Operations Management a Roma Tor Vergata, insegna così e per i suoi ragazzi cresciuti a pane e telefonino è «una svolta».
L’ultima frontiera dell’innovazione didattica in università, dove siedono ventenni nativi digitali, è sperimentata nei suoi corsi e presto sarà estesa alle altre facoltà dell’Ateneo. Il vulcanico professore, romano, 44 anni, l’ingegnere che fa ricerca sulla gestione della filiera logistica e manifatturiera, vanta un’esperienza di insegnamento in Cina e Inghilterra. E molta passione nello stare in cattedra.
«Non serve per fare carriera, i docenti in Italia sono valutati solo per la ricerca. Ma ciò nonostante chi ha scelto di dedicare la propria vita alla docenza ci tiene a fare buona didattica».
Professore, come avviene una sua lezione?
«Entro in aula, indosso un auricolare e comincio a insegnare. Mentre io parlo la mia voce è registrata e sbobinata in tempo reale, anche tradotta in qualsiasi lingua, dall’inglese all’arabo. Il testo, con grafici e slide, passa nei telefonini degli studenti. Loro sono collegati alla app e possono segnarsi un passaggio importante, che servirà per il ripasso, o premere il tasto col punto interrogativo per segnalare in forma anonima che non hanno capito qualcosa. Così io mi fermo e rispiego».
Non si distraggono a seguire la lezione sugli smartphone piuttosto che prendere appunti con carta e penna?
«Al contrario, sono più attenti.
Chiunque fa lezione oggi sa bene cosa avviene: una schiera di registratori sulla cattedra, l’alibi per distrarsi. Poi a casa sbobinano perdendo un sacco di tempo.
Quasi nessuno inoltre alza più la mano. Con questa applicazione tutti sono incentivati a intervenire e si ritrovano appunti digitali che permettono di trovare l’esatto punto che interessa, di collegarsi ai contenuti di tutto il corso o di lezioni tenute da altri docenti. Lo studio diventa approfondimento».
Che tipo di programma usate?
«Si chiama Eiduco, è una piattaforma olandese nata per trascrivere le sedute psicoanalitiche. Lo abbiamo sperimentato per due anni a Ingegneria, adattandolo anche grazie al contributo degli studenti, ed ora sarà esteso alle altre facoltà. Un sistema facile da gestire. Poi io uso anche una App ideata da me e gratuita, si chiama Xox».
A cosa serve?
«È un progetto che consente di aprire una sessione di domande per l’aula. Gli studenti rispondono, i risultati sono riepilogati e possono così essere discussi. Tutti i più recenti studi sulla teaching excellence mettono in evidenza l’importanza di coinvolgere gli studenti durante la lezione.
Harvard dispone di un dispositivo hardware con funzioni analoghe.
Lo scopo è sviluppare nella lezione concetti già in parte appresi».
Le università si stanno muovendo sul fronte dell’innovazione didattica: ma non basta la tecnologia per farlo, concorda?
«La tecnologia non è che il "grilletto" che fa scattare l’innovazione. Il mio è un invito a sperimentare nuovi e diversi modi di insegnare avvalendosi anche di tecnologie ora disponibili e che si avvicinano al modo di comunicare dei giovani che abbiamo di fronte.
Nonostante la didattica non paghi, nel nostro Paese ci sono atenei e docenti che continuano a farsi in quattro per innovare, spesso superando il livello delle più prestigiose università internazionali. Anche nonostante la depressione che vive il sistema universitario italiano».

La Stampa 27.11.18
La ministra Trenta:
“Sull’uranio impoverito basta silenzio”
di Francesco Grignetti


Il problema dell’uranio impoverito che causa danni alla salute dei soldati «c’è, esiste, ed io - scrive il ministro della Difesa, Elisabetta Trenta - voglio approfondire ogni singolo caso, voglio ascoltare ogni singola voce. Dobbiamo rompere il silenzio spaventoso che c’è stato fino ad oggi».
Al ministero della Difesa con la gestione grillina s’annuncia più attenzione che mai ai problemi del personale. Non escluso il dramma delle malattie dovute alle esalazioni di uranio impoverito. Perché questo tipo di armi non sono nei nostri arsenali, ma vengono utilizzate regolarmente da forze alleate e poi, a operare in poligoni o in missioni all’estero, le esalazioni le respirano tutti.
Il tavolo tecnico
Perciò ieri la Trenta ha annunciato un «tavolo tecnico» dopo avere ricevuto Domenico Leggiero, responsabile dell’Osservatorio militare, ex sottufficiale dell’aviazione leggera dell’esercito, che dal 1999 si batte per i diritti dei militari e si occupa di uranio impoverito. «Gli ho comunicato di aver chiesto all’Avvocatura Generale dello Stato un resoconto complessivo su tutte le pendenze giudiziarie in corso. Voglio approfondire ogni singolo caso separatamente, perché ogni caso ha le sue specificità. E voglio ascoltare ogni voce: ad oggi, infatti, sul tema c’è stato un silenzio spaventoso e questo non è più accettabile. Occorre rompere questo silenzio». Sotto i suoi occhi c’è un documento emerso nei lavori parlamentari della scorsa legislatura, quando una commissione guidata da Gian Piero Scanu, Pd, parlamentare ben poco amato dal suo partito, trovò documenti terrificanti. C’è un memorandum della Sanità dell’esercito statunitense, ad esempio, del 16 agosto 1993, che avvertiva del pericolo: «Quando soldati inalano o ingeriscono scorie di uranio impoverito - scrivevano - essi incorrono in un potenziale aumento del rischio di cancro».
I lavori di quella commissione, che fu uno dei pochissimi casi di lavoro in armonia tra grillini ed esponenti di sinistra, tornano ora a galla. «A inizio 2018, praticamente quasi un anno fa - conclude la Trenta - la commissione di inchiesta parlamentare si è pronunciata con conclusioni chiare e inequivocabili, che come governo abbiamo il dovere di considerare. Ripeto: il tema dell’uranio impoverito è reale, concreto e non possiamo voltarci dall’altra parte». Ovviamente Leggiero è più che soddisfatto: «Un passaggio storico: per vent’anni, tutti i ministri sono intervenuti sulla vicenda dell’uranio impoverito solo per smentire o per accusare i ragazzi di strumentalizzare il caso. Ora, la ministra Trenta appare intenzionata a rompere il muro dell’omertà».

La Stampa 27.11.18
Se l’avversione per i migranti porta a bandire la lingua araba dagli ospedali
di Vladimiro Zagrebelsky


La pacchia è finita. Quando l’ha annunciato il ministro dell’Interno m’era parsa una sua stentorea battuta un po’ disumana e piena di disprezzo, ma tutto sommato spiegabile con la continua voglia di far parlare di sé. E invece era l’annuncio di un programma di azione. Voleva dire: renderemo la vita dura ai migranti, più dura. La linea era così tracciata. Ci è voluta qualche settimana perché il messaggio arrivasse in periferia e qualcuno passasse all’azione. È così avvenuto che un consigliere della Lega abbia presentato in Regione Emilia Romagna la proposta di eliminare le indicazioni in lingua araba che talora affiancano quelle in italiano e inglese negli ospedali regionali. Naturalmente la motivazione avanzata non menziona un’intenzione discriminatoria, ma ha il coraggio di sottolineare invece il valore della lingua inglese come fattore di integrazione dei migranti nella società italiana. Insomma, i poveretti che vagano nei corridoi degli ospedali alla ricerca dell’ambulatorio ove hanno appuntamento o del letto del parente ricoverato, invece di essere facilitati da indicazioni nella loro lingua, sarebbe bene studiassero l’inglese. Che il parlare inglese sia fattore di integrazione nella società italiana è naturalmente una invenzione, data la notoria debolezza del nostro Paese sul piano dell’uso delle lingue straniere. In ogni caso è da segnalare a quel consigliere regionale che sui treni Frecciarossa le informazioni vengono date anche in cinese: un gesto di accoglienza, che però non stimola all’integrazione! Ma ciò che qui interessa dell’iniziativa leghista è l’indicazione politica discriminatoria che esprime. Si tratta della discriminazione indiretta: l’assenza delle indicazioni in arabo riguarda tutti, ma colpisce solo alcuni, quei tanti che ricorrono agli ospedali pubblici e che parlano e leggono l’arabo, non conoscendo o non conoscendo abbastanza l’italiano o l’inglese. L’arabo è la lingua parlata da gran parte dei migranti in Italia. E soprattutto le donne spesso parlano solo quella.
Come è noto il diritto fondamentale alla salute spetta a tutti, anche se per l’accesso al Servizio Sanitario Nazionale esiste qualche limitazione per lo straniero. E uno dei caratteri che deve avere il servizio pubblico sanitario è la sua accessibilità. L’esempio più facile è quello dell’obbligo di eliminare anche negli ospedali le barriere architettoniche che impediscono la mobilità dei disabili. Ma altrettanto grave può essere l’effetto escludente della non conoscenza della lingua in cui le informazioni vengono date. Il negare la facilitazione all’accesso con l’eliminazione dei cartelli indicatori nella lingua di una parte rilevante delle persone che si recano in ospedale porta a negare quello che, anche sul piano della definizione internazionale del diritto alla salute, è un obbligo dello Stato. Tanto più grave in questo caso perché non si tratta di discutere se mettere cartelli anche in arabo (costi, fattibilità, ecc.), ma addirittura di prendere l’iniziativa di togliere quelli che ci sono già.
Purtroppo la proposta del consigliere leghista è effetto delle indicazioni che vengono dall’alto e dell’aria che tira, insofferente, più o meno scopertamente persecutoria, critica e irridente verso preti e laici che si fanno carico delle necessità dei migranti. Ma tra i tanti segni questa volta ciò che colpisce è la speciale cattiveria. L’obiettivo è povera gente che si reca in ospedale.

il manifesto 27.11.18
Colonizzati dal Black Friday in un pianeta usa e getta
di Serena Tarabini


Il consumismo è un fenomeno che comincia a farsi strada dopo la seconda guerra mondiale, quando l’economia dei paesi industrializzati attraversò un periodo di sviluppo senza precedenti per intensità, durata e ampiezza. Un diffuso benessere economico, la cosiddetta «Età dell’oro» che permise a una grande fascia di popolazione di accedere finalmente anche ai beni secondari fornendo un’illusoria idea di democrazia del benessere.
Il fenomeno si amplificò velocemente, diventò del tutto normale possedere più del necessario, ineluttabile sviluppare ulteriori bisogni: ed è così che siamo arrivati al punto, come faceva notare Bauman che se si poneva la questione «se si lavorasse per vivere o si vivesse per lavorare», il dilemma che più spesso si sente rimuginare oggi è «se si abbia bisogno di consumare per vivere o se si viva per consumare».
La viralità con cui il fenomeno americano del Black Friday sta colonizzando anche i paesi europei può forse indicare una risposta. Beni superflui sono diventati irrinunciabili, il loro accapparramento da saltuario è diventato continuativo e poi compulsivo. Inoltre il problema dei limiti dello sviluppo, la questione delle conseguenze ambientali del consumo sfrenato, il fatto che una buona fetta della popolazione non potrà mai raggiungere i livelli di consumi portati avanti dal resto, per quanto sono temi che attraversano il dibattito pubblico da decenni, non entrano ancora nelle agende politiche.
Ed è soprattutto agli altrettanto devastanti aspetti ambientali del consumismo senza limiti che ha voluto fare riferimento l’azione di Greenpeace di venerdì, forse una delle poche iniziative pubbliche contro il Black Friday, almeno in Italia: i suoi attivisti hanno portato in una delle principali vie dello shopping milanese, Corso Vittorio Emanuele, un enorme pacco regalo composto da rifiuti recuperati in plastica usa e getta. Sul pacco un’etichetta con la scritta «Il regalo che il Pianeta non vuole» accompagnato da uno striscione con il messaggio «Il Pianeta non è usa e getta».
Secondo un recente report delle Nazioni Unite, scrive Greenpeace, il consumo di plastica continuerà a crescere negli anni a venire, quadruplicando i volumi attuali entro il 2050. Molti degli oggetti venduti durante il Black Friday, ad esempio, finiscono per diventare rifiuti dopo pochissimo tempo e sono imballati in enormi quantità di plastica monouso. Tocca alle aziende modificare le loro modalità di produzione, ma l’associazione ambientalista fa appello soprattutto alle persone , alla loro capacità di contrastare una mentalità usa e getta e di esercitare il loro potere di consumatori.
In risposta al consumismo sfrenato e inutile perpetuato dal Black Friday, Greenpeace infatti ha anche lanciato la Make Something Week, una settimana di eventi-laboratorio gratuiti che si terranno in tutto il mondo dal 23 novembre al 2 dicembre. Nel corso degli appuntamenti creativi e professionisti del settore insegneranno a chi parteciperà a riparare, riutilizzare, dare nuova vita a oggetti inutilizzati e creare con le proprie mani alternative a prodotti di plastica usa e getta: dalle decorazioni natalizie alle borse per la spesa in tessuto. Quest’anno, la Make Something Week conta quasi 300 eventi in 40 Paesi in tutto il mondo: in Italia, sono stati organizzati oltre 35 eventi in diverse città, da Milano a Roma, da Torino a Napoli, attraverso il supporto di Greenpeace e in collaborazione con tante altre realtà indipendenti. Fuori da logiche commerciali, i laboratori saranno gratuiti e nessun prodotto sarà venduto. Creare anziché comprare. Riciclare anziché consumare. Anche per recuperare quell’autonomia, immaginazione, diversità che la società dei consumi sta erodendo.

il manifesto 27.11.18
Stretto di Kerch, tra russi e ucraini è battaglia navale
Russia/Ucraina. Tre navi di Kiev sconfinano. Cannoneggiate e catturate. Lavrov: «Fermate la provocazione»
di Yurii Colombo


MOSCA L’accelerazione della crisi tra Ucraina e Russia covava già da 48 ore. Sabato l’agenzia Tass aveva informato che dal primo mattino erano in corso esercitazioni militari dell’esercito ucraino sul Mar d’Azov. E a Kiev il parlamento approva 30 giorni di legge marziale. Nel pomeriggio poi il ministero della difesa ucraino dichiarava di aver conquistato un villaggio del Donbass proprio nella «zona grigia» che separa i confini tra le «repubbliche ribelli» e quelle del Tridente, mettendo fine q una traballante tregua (segnata da continui screzi) che resisteva da mesi. L’inasprirsi dello scontro nel Donbass veniva confermato domenica sera dall’agenzia 112.ua che informava di un duro scontro con scambio di colpi di artiglieria pesante tra i due eserciti non lontano da Maryupol con l’uso, da parte ucraina, perfino dell’aviazione.
DOMENICA mattina, l’Fsb (l’ex Kgb) aveva segnalato che 3 navi ucraine (le due cannoniere Berdiansk e Nikopol e un rimorchiatore) erano entrate nel Mar Nero, al largo della Crimea, in acque che la Russia considera territoriali dopo l’integrazione della penisola nel 2015. Seguiva un fitto scambio di veline tra i due stati maggiori. L’Ucraina affermava di aver chiesto che le 3 navi potessero rientrare dallo sconfinamento per poter proseguire verso lo stretto di Kerch e approdare sul mar d’Azov, mentre i russi parlavano di «aperta provocazione» e affermavano di aver avvistato in zona altre due navi ucraine. In serata poi la marina russa poneva sotto controllo le tre navi russe che venivano scortate al porto di Kerch. Per gli ucraini, non smentiti dai russi, una delle navi era stata cannoneggiata e una seconda speronata provocando 6 feriti tra i 24 soldati dell’equipaggio.
IMMEDIATE le conseguenze politiche. Il presidente ucraino Poroshenko accusava la Russia di «criminale aggressione» e annunciava lo stato di guerra in tutto il territorio nazionale, richiamando i riservisti e ponendo sotto il controllo del governo tutto il sistema bancario. Il tycoon ucraino si metteva poi in contratto con i quartier generali della Ue e della Nato a Bruxelles proponendo «rapide e decise azioni comuni». Mosca da parte sua affidava a Marya Zacharova una prima violentissima replica in cui si parlava di «un’azione provocatoria premeditata da parte ucraina». Per la diplomatica russa il cui regime installato a Kiev è solo «un’accolita di banditi sul genere di Michail Saakashvili», l’ex leader della Georgia che nel 2008 provocò la guerra in Ossezia. Ancora più duro il comunicato di Sergey Lavrov nel pomeriggio di ieri: «Vorremmo mettere in guardia l’Ucraina che il tentativo di provocare un conflitto con la Russia nelle acque nei mar d’Azov e mar Nero in coordinamento con gli Stati Uniti e la Ue è gravido di conseguenze. La Federazione russa bloccherà con durezza qualsiasi sconfinamento che mette a repentaglio la sua sovranità e sicurezza». Tesi poi ripetute nella riunione d’urgenza del Consiglio di sicurezza dell’Onu riunitosi in tarda sera su richiesta della Federazione Russa.
«LA PROVOCAZIONE – per il ministro degli esteri russo Lavrov – è stato accuratamente progettata e pianificata per creare ulteriore tensione nella regione, per avviare una nuova escalation di sanzioni e per distogliere l’attenzione dalla situazione in cui versa l’Ucraina».
Una guerra tra i due paesi nell’immediato, non sembra essere all’orizzonte, anche se le violente manifestazioni inscenate ieri dalle formazioni dell’estrema destra davanti ai consolati russi in Ucraina potrebbero innescare pericolose e imprevedibili conseguenze.
CON TRUMP impegnato a disbrigare la vicenda messicana, quasi in sua vece ha preso la parola Jens Stoltenberg, segretario della Nato, che incontrando Poroshenko ha minacciato la Russia di «pesanti reazioni» e ha annunciato a breve un incontro con i vertici militari ucraini per definire le decisioni di assumere. Sulla stessa lunghezza d’onda il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk che ha condannato la Russia «per l’uso della forza nel mare di Azov» e ha chiesto alle autorità russe «di liberare i marinai ucraini e astenersi da ulteriori provocazioni». Ma sia Angela Merkel che il comunicato ufficiale Nato parlavano della «necessità di disinnescare la crisi».
Tuttavia le nuove probabili sanzioni anti-Putin e il riaccendersi dei fuochi nel Donbass rischiano di spingere in un vicolo cieco una crisi che si trascina ormai da 5 anni.

il manifesto 27.11.18
Russia-Ucraina, la guerra torna extra-large
di Tommaso Di Francesco


Russia/Ucraina . La Nato extra-large si caratterizza per la costruzione di decine e decine di basi militari ormai disseminate in tutto l’Est-Europa e nel Mar Nero, luogo dell’incidente, sulle coste romene e bulgare; con il dispiegamento del sistema dello Scudo antimissile in Polonia e Romania; con il controllo dei bilanci della difesa di tutti questi Paesi, che sono poi gli stessi recalcitranti verso una Unione europea democratica, sovranazionale e accogliente; e con una miriade di manovre militari. Il tutto a ridosso dei confini russi

Stavolta l’espressione «venti di guerra» non è un modo di dire ma una realtà. L’incidente di Kerch a questo potrebbe preludere: ad una condizione in Europa ben più grave della Guerra fredda. Navi da guerra ucraine in acque russe – perfino l’Ue ieri ha ammonito Kiev a «rispettare il diritto internazionale» -, cannonate e sequestro delle stesse da parte della Marina militare di Mosca, l’Ucraina che dichiara la legge marziale e attacca nel Donbass, i neonazisti del battaglione Azov che presidiano piazza Majdan. Lo spettro del precipizio è sotto i nostri occhi. Al di là della cronaca di rimpalli di responsabilità, c’è uno strumento al quale partecipano tutti i governi europei, che ha preparato questo scenario degenerato in scontro armato.
Naturalmente non è la Casa comune europea agognata da Gorbaciov dopo il crollo del Muro di Berlino nell’89; si tratta invece della strategia dell’allargamento a Est della Nato. Per la quale dal 2004 tutti i paesi dell’ex Cortina di ferro (tranne la Russia), nonostante il Patto di Varsavia si fosse sciolto nel 1995, sono entrati nel Patto atlantico a rinforzare un assedio all’ex Unione sovietica che però non esisteva più. È già accaduto che l’allargamento a est della Nato – contro il quale si sono espressi perfino ministri della difesa Usa e tanti, inascoltati, consiglieri dei presidenti americani – sia diventata guerra aperta: è stato nell’estate del 2008 quando il premier georgiano Saakashvili, incoraggiato proprio dalla Nato, attacco militarmente i territori abkhazi che in terra georgiana, insieme all’Ossetia, si erano proclamati indipendenti.
La Russia reagì subito duramente e fu un disastro per la Georgia e il suo leader che, da quel momento in poi venne praticamente cacciato dal suo stesso paese per poi riciclarsi addirittura come ministro in Ucraina, e per finire arrestato proprio dal presidente Poroshenko.
La Nato extra-large si caratterizza per la costruzione di decine e decine di basi militari ormai disseminate in tutto l’Est-Europa e nel Mar Nero, luogo dell’incidente, sulle coste romene e bulgare; con il dispiegamento del sistema dello Scudo antimissile in Polonia e Romania; con il controllo dei bilanci della difesa di tutti questi Paesi, che sono poi gli stessi recalcitranti verso una Unione europea democratica, sovranazionale e accogliente; e con una miriade di manovre militari. Il tutto a ridosso dei confini russi.
La menzogna che motiva questo allargamento è la difesa della democrazia, con riferimento esplicito alla crisi in Ucraina: ma nel Paesi Baltici, in particolare l’Estonia, vigono regimi formalmente democratici ma dove, denunciano l’Onu e il Consiglio d’Europa, sono violati i diritti umani delle minoranze, a partire da quella russa; e, mentre per le regioni ribelli del Donbass la Russia resta aperta alla trattativa sull’autonomia all’interno dell’Ucraina, sulla vicenda Crimea si addensano le narrazioni occidentali che hanno da tempo attivato sanzioni economiche contro Mosca.
Dimenticando fra l’altro come questo evidente stato d’assedio continuo da parte del Patto atlantico verso la Russia è a dir poco controproducente e aiuta sostanzialmente Putin a conservare ben saldo il potere. Inoltre quel che ha fatto la Russia con la Crimea, storicamente russa e regalata nel 1954 dal Cremlino a Kiev all’interno della compagine che era ancora l’Unione sovietica, è un misfatto molto meno grave di quello che la Nato ha realizzato in Kosovo, tradendo la pace di Kumanovo, che pose fine alla guerra «umanitaria» di 78 giorni di raid aerei, autorizzando una indipendenza unilaterale nel 2008 che ancora divide i Paesi Ue e l’Onu.
E che resta una ferita aperta intorno alla base militare americana di Camp Bondsteel. In Crimea un referendum con più del 90% di partecipanti c’è stato, a Pristina votò solo il 43% degli aventi diritto; tuttavia quella indipendenza, per uno Stato che tutti definiscono sostanzialmente «criminale» venne sponsorizzata e riconosciuta subito dagli Usa e da decisivi paesi Nato, come Germania e Francia. Quanto dovremo ancora aspettare perché si renda evidente il dramma al quale come Italia stiamo partecipando. Che aiuta il disastro in corso dell’Europa. Giacché il necessario e prezioso sovranazionalismo dell’Unione non è messo a repentaglio solo dai nefasti sovranismi nazionali alimentati dall’insorgente populismo xenofobo, che stupidamente aspetta l’avvento di un’altra Commissione dopo le elezioni europee del 2019: quando è chiaro infatti che sarà una Europa senza futuro e senza Unione e invece zeppa di sovranismi nazionali l’un contro le altre armati.
Quel che è chiaro in queste ore è che nemico del sovranazionalismo europeo è anche il sovranazionalismo militare della Nato, tutt’altro che democratico e per Statuto eterodiretto altrove, dai Comandi Usa; che insidia i processi democratici (dal territorio ridotto a servitù militari, alla ri-dislocazione di centinaia di atomiche in Europa e in Italia; ai bilanci della difesa che per Trump vanno aumentati. La crisi armata nel Mar Nero questo dice. Altro che chiacchiere sull’Ue che avrebbe mantenuto in questi anni la pace, scaricando invece guerre nel sud-est europeo, nel Caucaso e rivolte armate come in Ucraina. Proviamo ad ascoltarlo il rumore sordo del precipizio.

Repubblica 27.11.18
Il conflitto nell’Azov
Il nuovo fronte in mare tra Russia e Ucraina A Kiev è legge marziale
L’incidente nello Stretto di Kerch fa salire la tensione a livelli mai toccati. Mosca tiene tre navi sotto sequestro
di Rosalba Castelletti


Nel conflitto tra Russia e Ucraina si è aperto un nuovo fronte: il mar d’Azov, collegato al Mar Nero dallo Stretto di Kerch. Un piccolo fazzoletto di mare circondato da terre incandescenti da quando, nel 2014, la Russia ha annesso la penisola ucraina di Crimea ed è esplosa la crisi nel Donbass.
L’incidente
Per la prima volta dall’inizio del conflitto, Mosca ha ammesso apertamente di aver aperto il fuoco sulle forze ucraine. Almeno sei militari sono rimasti feriti, secondo Kiev. Domenica tre navi ucraine — due piccole cannoniere e un rimorchiatore — erano dirette da Odessa nel Mar Nero verso il porto di Mariupol’, quando la Guardia costiera russa le ha intercettate nello Stretto di Kerch. Nel consueto rimpallo di accuse, l’Ucraina sostiene che la Russia abbia violato la legge internazionale, mentre Mosca dichiara di aver reagito a quella che ha definito una «provocazione » di Kiev. Quel che è certo è che la nave della guardia costiera russa " Don" ha speronato il rimorchiatore ucraino, come dimostra un video, e che ha sequestrato tutte e tre le navi ( un quarto dell’intera flotta ucraina) e posto in stato di fermo 24 marinai. Kiev li ha definiti « prigionieri di guerra » , mentre il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg ha intimato di «liberarli subito».
La legge marziale a Kiev
Disordini e manifestazioni sono esplosi in tutta l’Ucraina. Dopo aver dichiarato lo stato d’allerta dell’esercito, il presidente ucraino Petro Poroshenko ha firmato un decreto per imporre la legge marziale. Non l’aveva mai fatto prima: né dopo l’annessione della Crimea, né dopo l’esplosione del conflitto nel Donbass, nell’Est del Paese, che ha provocato oltre 10mila morti in quattro anni. Molti osservatori, e persino deputati ucraini come Serghej Leshshenko, hanno temuto che Poroshenko potesse posticipare le prossime presidenziali — che lo vedono in basso nei sondaggi — e vietare ogni manifestazione. Per scongiurare le preoccupazioni, Poroshenko ha infine emendato il decreto proponendo la legge marziale per un periodo di 30 giorni, e non più 60, e assicurato che le presidenziali si svolgeranno regolarmente il 31 marzo. Con 276 voti a favore e 30 contro, la Rada in serata ha approvato la legge marziale limitatamente alle regioni al confine con la Russia.
Il mar d’Azov e il ponte di Kerch
Le acque d’Azov bagnano sia l’Ucraina, compreso il litorale della Repubblica autoproclamata di Donetsk dai separatisti filorussi e della penisola di Crimea annessa da Mosca, sia la Russia. Nel 2003 l’allora presidente ucraino Leonid Kuchma e il leader del Cremlino Vladimir Putin avevano stretto un accordo che prevedeva la «gestione congiunta » del mar d’Azov e dello stretto di Kerch, considerati entrambi acque territoriali condivise. La delimitazione delle frontiere marittime, però, non è mai stata concordata.
L’accesso al mar d’Azov è importante per l’Ucraina perché sulle coste a Nordest della Crimea si trovano i due porti vitali di Mariupol e Berdjansk, ma è stato limitato dal ponte di 19 chilometri inaugurato lo scorso maggio che attraversa lo stretto di Kerch per collegare la penisola di Crimea alla Russia. Un progetto da 3,7 miliardi di dollari fortemente voluto da Putin per sancire simbolicamente l’irreversibilità del controllo russo sulla penisola annessa. La campata centrale del ponte, tra l’altro, è alta solo 33 metri, il che ha vietato l’accesso al mar d’Azov a oltre un centinaio di navi mercantili costando già decine di milioni di dollari all’economia di Kiev.
Preoccupata dalle conseguenti minacce di sabotaggio, Mosca ha cominciato a fermare le navi di passaggio, oltre 150 sinora, e a trattenerle anche per diversi giorni, mentre Kiev e l’Unione Europea hanno accusato la Russia d’intralciare deliberatamente la navigazione nello Stretto.
Le reazioni
Per protestare contro quella che ha definito una « mossa pianificata e orchestrata » da Kiev in vista delle presidenziali, Mosca ha convocato al ministero degli Esteri l’incaricato d’affari ad interim ucraino e chiesto una riunione d’emergenza del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. L’Ucraina, invece, ha chiesto ulteriori sanzioni anti-russe. Può contare sulla solidarietà della comunità internazionale. A partire da quella dell’Unione europea e dell’Alleanza atlantica che ha tenuto una riunione straordinaria della commissione Nato- Ucraina. Da garanti degli accordi di Minsk, Parigi e Berlino si sono offerte di mediare. Il tutto avviene alla vigilia del nuovo incontro tra Vladimir Putin e Donald Trump a margine del G20 argentino.

Il Fatto 27.11.18
Kiev chiama alla guerra. Mosca grida: “Provokazia”
A cannonate - Dopo lo scontro con le unità russe sullo Stretto di Kerch, fra Mar Nero e Mar d’Azov, Stoltenberg (Nato) chiede al Cremlino il rilascio dei 23 marinai e delle navi alleate
di Michela A.G. Iaccarino


Nel gelido mare d’Azov è stata guerra fra Ucraina e Russia e la Nato ha avuto una riunione straordinaria al quartier generale, a Bruxelles. Il segretario Jens Stoltenberg chiede due cose alla Russia: libertà di navigazione per l’Ucraina nello stretto di Kerch e la liberazione dei suoi marinai. “La Russia deve comprendere che le sue azioni avranno delle conseguenze”, ha proseguito Stoltenberg, senza precisare quale risposta possa essere messa in atto.
Lo scontro navale era cominciato all’alba di domenica. La prima comunicazione del Fsb, i servizi russi: “Due cannoniere e un rimorchiatore della Marina ucraina stanno violando il confine marittimo”, ignorando le segnalazioni delle autorità che devono effettuare controlli.
La seconda comunicazione è l’ordine dei servizi russi che spedisce i suoi tra le acque a fermare “le manovre pericolose” dei tre vascelli militari. “Blyad, Nasad!”. (Merda, tornate indietro!). Viene strillato più volte nel ricevitore dai furenti militari russi, ma le tre navi ucraine proseguono a velocità massima. È allora che la prima imbarcazione ucraina viene speronata da quella russa, sulle altre due viene aperto il fuoco: per gli ucraini i feriti sono sei, per i russi tre: 20 gli arrestati.
Mosca e Kiev cominciano subito il loro tango preferito con accuse reciproche, si additano la responsabilità della “provocazione navale”.
Procedimenti penali incrociati: aprono fascicoli per “aggressione bellica”, l’una contro l’altra. La Marina ucraina comunica di aver notificato in precedenza l’attraversamento della Berdyansk, della Nikopol e del loro rimorchiatore Jan Kap, dirette da Odessa a Mariupol, snodo marittimo e ferroviario a ridosso della linea di fuoco in Donbass, ma Mosca nega. Lo Stato maggiore ucraino diffonde allora presunte intercettazioni tra militari russi che parlano di un coinvolgimento diretto di Putin in tutta questa storia.
Secondo la dicitura ufficiale del Mid, ministero degli Esteri sotto comando di Lavrov, la Russia è stata attaccata: “È un’invasione di navi da guerra straniere nelle acque territoriali russe, abbiamo operato in stretta conformità del diritto internazionale ”, dice Dimitry Peskov.
Per il Cremlino furioso si tratta di una “provokazia pianificata da Kiev con Europa e Stati Uniti, che serve a far emettere nuove sanzioni anti-russe”.
La teoria di Mosca è che quelle sono tre caravelle kamikaze del presidente ucraino Poroshenko, che gira in mimetica da due giorni e cercava lo scontro.
I jet Su-25 dell’aviazione russa cominciano a volare a pelo d’acqua sul ponte di Crimea, il gioiello di ferro del presidente Putin, la lingua di cemento e acciaio che collega la penisola alla terraferma di casa madre Russia. La striscia d’acqua di Kerch che gli scorre sotto è l’unica apertura che non rende il mare d’Azov un enorme lago, l’unico punto d’accesso alle città ucraine sulla costa, nella regione delle repubbliche filorusse del Donbass. Quel ponte è l’opera magna del presidente Putin, il simbolo orizzontale della sua vittoria, e in questi giorni nei cinema di Mosca viene celebrato con un kolossal. Titolo: “Il ponte costruito con amore”, quello dove adesso c’è allarme terrorismo dopo l’appello dei politici più radicali di Kiev, che invitano a farlo saltare in aria. Non più a terra: il sangue scorrerà in mare per riaccendere il conflitto, da quando “la questione Crimea” è stata dimenticata.
Che teatro degli scontri sarebbe stato l’Azov i quotidiani slavi, di Kiev e Mosca, lo stavano ripetendo dal settembre scorso. Perché se in Donbass vige il silenzio dei fucili – ma di tanto in tanto arrivano bombe di mortaio o saltano in aria esponenti di primo piano dei filorussi – in Ucraina si continua a morire di fame, freddo e di una finta tregua per molti è solo un altro tipo di guerra.
Ecco, ora è successo, dice la stampa: tre caravelle e tre feriti. All’ospedale di Kerch ci sono i marinai della nave Berdyansk: Andrey Eider, 18 anni; Vasily Soroka, 27 anni, figlio di un deputato del partito di destra Svoboda. Il padre Viktor che aveva parlato a telefono con suo figlio non sapeva niente della traversata a Kerch, lo sapeva però la moglie di Andrey Artemenko, 24 anni, il terzo ferito. A suo padre che lavora in Italia, Andrey prima di partire non ha detto niente, se non: “Papà, guarda la televisione”.

il manifesto 27.11.18
Lacrimogeni su donne e bambini, i democratici: toccato il fondo
Le reazioni negli Usa. Kirstjen Nielsen, segretario per la Sicurezza nazionale, difende la polizia frontaliera Usa sostenendo che è stata attaccata dai migranti
Tentativo di sfondamento della barriera metallica nei dintorni di Tijuana
di Marina Catucci


Gli Stati Uniti la scorsa domenica hanno temporaneamente chiuso il passaggio di San Ysidro al confine tra San Diego e Tijuana, in Messico, dopo che qualche centinaio di migranti centroamericani ha cominciato ad incamminarsi verso quella zona.
La polizia statunitense addetta alla protezione delle dogane e delle frontiere, oltre che chiudendo il confine in entrambe le direzioni, ha risposto ai migranti lanciando gas lacrimogeni. In breve la situazione è degenerata e la marcia pacifica si è trovata ad affrontare la polizia in tenuta antisommossa che ergeva barriere metalliche sulle strade e sui marciapiedi che conducono al principale passaggio di San Ysidro.
Trump aveva fatto del divieto di ingresso negli Usa il suo cavallo di battaglia nella campagna elettorale delle elezioni di Midterm del 6 novembre, è per questo che aveva inviato diverse migliaia di soldati alla frontiera, anche se questi non sono stati coinvolti nello scontro di domenica.
Le immagini di giovani mamme con i bambini in braccio che scappavano dal lancio di lacrimogeni si sono diffuse rapidamente tramite i social media, suscitando le reazioni di opinione pubblica e politici; il senatore Brian Schatz, democratico delle Hawaii, è stato tra i primi a reagire scrivendo su Twitter: «Con il gas lacrimogeno sparato oltre confine contro famiglie disarmate abbiamo toccato il fondo».
Dal canto suo Trump non ha fatto un passo indietro e, dopo aver dipinto per settimane la carovana dei migranti come composta da un manipolo di malfattori, si prepara a utilizzare il caos di domenica per la sua narrativa anti migranti. Già la mattina presto di lunedì ha usato Twitter per scrivere che «il Messico dovrebbe smettere di sventolare la bandiera dei migranti, molti dei quali, nei loro Paesi, sono freddi criminali». Ed ha aggiunto: «Fallo in aereo, fallo in autobus, fallo come vuoi, ma NON entrerai negli Stati Uniti. Chiuderemo il confine in modo permanente, se necessario».
Non è questa la prima volta che Trump minaccia di chiudere i passaggi di frontiera per impedire che la carovana migrante entri negli Stati Uniti, sorvolando su tutti i problemi che una decisione simile causerebbe, ad esempio ai lavoratori frontalieri, ma questo non sembra preoccuparlo. Al presidente ha fatto eco Kirstjen Nielsen, segretario per la Sicurezza nazionale, la quale ha dichiarato che alcuni migranti hanno lanciato proiettili agli agenti della protezione doganale e delle frontiere. «Come ho sempre sostenuto – ha detto Nielsen- non tolleriamo questo tipo di illegalità e non esiteremo a chiudere i varchi di ingresso per ragioni di sicurezza nazionale».
Il passaggio di San Ysidro è un valico complesso con più corsie e punti di accesso per veicoli e pedoni, da quando Trump minaccia di chiuderlo, le autorità messicane e diversi soggetti politici ed economici statunitensi si sono preoccupati dell’effetto economico che avrebbe la chiusura di un passaggio così importante sia per il commercio che per i viaggiatori.
Ora il Congresso dovrà riunirsi dopo la pausa per le vacanze del giorno del Ringraziamento, e in testa all’ordine del giorno, ci sarà la crisi del confine messicano. E se questa è stata di difficile gestione con Trump che controllava Casa bianca e i due rami del Parlamento, ora che la Camera è in mano democratica e il Senato ha sì una maggioranza repubblicana ma non schiacciante, anche se il nuovo Congresso non è ancora insediato, il problema dei migranti, con i nuovi equilibri, sarà gestito con ancor più difficoltà.

Corriere 27.11.18
L’amore per l’Italia dei giovani messicani
di Dacia Maraini

Città del Messico. Una delle poche università latino americane che abbia la cattedra di italiano . E ci sono centinaia di studenti che mostrano attenzione e amore per la nostra lingua e la nostra letteratura. Viaggiando lontano dal mio Paese ho spesso l’impressione che a non amare e non rispettare la nostra lingua siamo proprio noi italiani. Andiamo in escandescenza se la nostra squadra di calcio perde, ma non mostriamo nessuna indignazione se molti dei nostri Istituti di cultura chiudono. Eppure l’attenzione che i giovani stranieri mostrano per la nostra lingua scritta è commovente. «Ci sono molte cose in comune fra il Messico e l’Italia» mi dice Marco Marica che dirige l’unico l’istituto di cultura del vasto Messico, «l’anarchismo, per esempio, la grande capacità creativa, il sospetto nei riguardi dello Stato, a cui si chiede molto ma non si è disposti a dare quasi niente». Il giorno dopo visito la casa museo di Frida Kahlo: una villetta dalle stanze infilate l’una nell’altra, circondata da un giardino rigoglioso. Commovente il cavalletto con la tavoletta ancora incrostata da grumi di colore, ritta di fronte alla sedia a rotelle . Si intuisce quanto fosse doloroso per lei dipingere. Eppure i suoi quadri sono pieni di gioia di vivere. Nel pomeriggio, con Giustina Laurenzi che porta qui i suoi documentari sulla scuola medica salernitana, incontro gli studenti dell’Università Unam, guidati dal professor Fernando Ibarra. I ragazzi sono curiosi di sapere se avesse ragione Pasolini che parlava della morte delle classi sociali o Calvino che faceva dell’incomunicabilità un mistero da indagare. Alcune studentesse mi chiedono perché le grandi scrittrici del 900 vengano trascurate negli studi letterari. E perché in un Paese che loro prendono come punto di riferimento, ci sono tante donne uccise dai mariti. Non sarà che, come succede in Messico, la sicurezza del possesso, messa in discussione dalle nuove libertà femminili, suscita paure ancestrali e voglia di vendetta? Commovente il museo Trotsky. «Era una casa aperta con un bel giardino», racconta Riccardo Canelli, storico che vive qui da anni. «Ma dopo l’arrivo di un gruppo di fanatici che hanno preso a sparare raffiche di mitra, Trotsky ha dovuto chiudersi trasformandola in una prigione». Barbara Bertoni mi mostra le foto di lui con la testa sanguinante trasportato in ospedale, dove poi morirà . «Testimonianze della storia terribile di uno stalinismo fanatico e vendicativo che non si fermava di fronte a nessun ostacolo».

Corriere 27.11.18
Le lezioni da imparare sull’emergenza migrazioni
Nelle crisi globali come quella in corso ai confini tra StasiUniti e Messico, può accadere il peggio in assenza di visione e di gestione politica
di Goffredo Buccini


I nodi cominciano a venire al pettine. E dunque va trasformandosi in lacerante emergenza umanitaria la crisi migratoria di Tijuana, esito finale della marcia verso il sogno a stelle e strisce di dieci o ventimila cittadini centroamericani: in buona parte «criminali» e forse «terroristi», secondo Donald Trump; «donne e bambini per due terzi», secondo i padri scalabriniani che gestiscono la casa d’accoglienza per profughi nella cittadina messicana al confine con gli Stati Uniti. Visioni inconciliabili in una questione che interpella anche noi. Perché questo esodo iniziato più d’un mese fa attraverso le pericolose strade di Honduras, El Salvador e Guatemala, cresciuto di peso numerico e simbolico al grido di «non si può vivere se si è poveri in America centrale», è una storia lontana che parla però a noi tutti, chiamando in causa due parole assai abusate anche dalle nostre parti: razzismo e paura. E ci impartisce subito una lezione preliminare: negli insondati territori delle crisi globali, può accadere il peggio in assenza di visione e di gestione politica.
Così, nella Tijuana che da giorni si è vista invadere da migliaia di disperati, per ora ammassati nel già saturo stadio Juarez, la tensione sale comprensibilmente, il sindaco ha chiesto aiuto all’Onu e, dopo i primi abbracci fraterni, i nuovi gruppi di profughi vengono accolti spesso a sassate e col canto (non ecumenico) dell’inno nazionale messicano. Ora: appare ragionevole escludere la molla del razzismo in tale reazione. Lo spiegava assai bene Luis Raul Gonzalez Perez, presidente della commissione nazionale per i diritti umani: «Dopo avere chiesto agli Usa di migliorare la loro condotta verso i nostri emigrati, non possiamo permetterci di trattare male queste persone». Uniti da lingua, cultura e persino fisionomia, invasi e invasori non possono essere che fratelli. E tuttavia il problema sta proprio nella comunanza di destino e in un sogno dove tutti non riescono a entrare (è messicano il 52% dei migranti irregolari in Usa). Lo scorso 11 ottobre andrà ricordato: quel giorno il segretario di Stato americano Pompeo ha invitato a Washington i leader dei Paesi coinvolti in questa storia per rilanciare il piano di sviluppo centroamericano e forse anche per seminare la pianta germogliata in queste ore: l’accordo «Remain in Mexico». Trump vuole che i richiedenti asilo aspettino dal lato messicano del confine la risposta dei giudici statunitensi. I profughi resteranno a Tijuana per mesi: vista da questa prospettiva, è più che comprensibile la paura che monta tra i residenti della cittadina. Ma l’11 ottobre è stata anche la prima giornata senza omicidi nel Salvador dopo 716 giorni (e in Honduras il tasso di omicidi è 63 volte più alto che da noi). I centroamericani non scappano solo dalla miseria, ma anche dai cartelli della droga, da regimi infami, da morte probabile: pure la loro paura è più che comprensibile. Senza una saggia mediazione politica, vedremo due gruppi di vittime che si scontrano nell’anticamera del benessere occidentale (e chissà se la scena fa suonare qualche campanello anche in noi...). Nei prossimi 40 anni è plausibile prevedere un miliardo di sfollati. Lo sostiene uno studioso di migrazioni come Michel Agier, secondo cui gli effetti della globalizzazione sono ora proprio nelle vie dove abitiamo e sempre più lo saranno (anche qui: nessun campanello?) a meno che non cerchiamo rimedi globali. Ci si può barricare dentro. Trump lo sta facendo.

Missione
I soldati inviati da Trump potrebbero fare da cuscinetto e dare aiuto sanitario ai profughi
Ha mandato al confine 7 mila soldati e ne promette il doppio, quanti ne ha in Afghanistan: un monito, un tappo. Ma se davvero a Tijuana scoppiasse una guerriglia fratricida, per quanto gli Usa sarebbero protetti da quel tappo? Zygmunt Bauman scriveva che «tenere fuori le sciagure globali barricandosi in casa propria (...) non è meno improbabile che pensare di scampare alle conseguenze di una guerra nucleare accampandosi in un rifugio per senzatetto». La cura definitiva, diceva, non è alla portata di un singolo Paese: è prendersi infine per mano quali esseri umani. Nell’attesa (con tempi lunghi) noi potremmo immaginare di ricorrere a palliativi: impicciarsi dell’altrui destino, coinvolgersi. Trump potrebbe fare molto per rendere il Centroamerica più vivibile. E i suoi soldati, anziché da tappo, potrebbero fare da cuscinetto, sostegno ai messicani, supporto anche sanitario ai profughi. Perciò pure noi europei, e italiani, dobbiamo guardare a Tijuana: per imparare. Perché tra i vari modi per sciogliere i nodi di una crisi globale, spezzare il pettine è, probabilmente, il peggiore.

Il Fatto 27.11.18
L’idea del neo-presidente López Obrador: un piano Marshall per il Centroamerica
Crisi migranti. Il Paese farà da argine agli illegali in cambio di piante da frutta e treni
di Alessia Grossi


“Il Messico dovrebbe rispedire nei propri Paesi i migranti che sventolano le bandiere, molti dei quali sono degli spietati criminali. Fatelo con gli aerei, fatelo con i bus, fatelo come volete, ma non verranno negli Usa”.
Davanti a un Donald Trump ogni giorno più belligerante anche su Twitter contro l’immigrazione centroamericana che spinge al confine messicano e che minaccia di rendere addirittura permanente la chiusura della frontiera, se necessario, il presidente del Messico, Andrés Manuel López Obrador, che sabato assumerà l’incarico pare stia pensando di proporre al suo omologo statunitense un piano: una specie di Piano Marshall per il Centroamerica. A darne notizia è l’edizione americana del quotidiano spagnolo El Pais. In sostanza, gli Usa aumenterebbero investimenti nel sud del paese e aiuti ai paesi del triangolo Nord del Centroamerica. In cambio il Messico si farà carico dei migranti per tutto il lasso di tempo prima che la loro richiesta d’asilo per passare negli Usa venga analizzata. L’obiettivo è che si arrivi a un accordo formale entro maggio 2019, perché possa dare i primi risultati nel 2020. Trump non sarebbe contrario al patto, nonostante sia cosciente che lo zoccolo duro della propria amministrazione – convinta che l’immigrazione non sia neanche un problema degli Usa – vedrebbe con più favore la costruzione di un altro muro.
Potrebbe sembrare che nel nuovo negoziato non ci sia nulla di diverso rispetto a oggi: gli Usa già stanziano in effetti 600 milioni di dollari per il “Piano Alleanza per la Prosperità”, messo in atto nel 2014 in seguito all’emergenza dei bambini migranti, ma in pratica di questi, ne arrivano solo 200 milioni. Il resto non è mai stato a disposizione dei messicani, soprattutto per le lungaggini dell’Agenzia statunitense per lo Sviluppo Internazionale. Il nuovo piano, invece, prevedrebbe invece una sovvenzione Usa di 1.500 milioni di dollari. In cambio, Obrador è sicuro di riuscire ad assorbire i 200 mila migranti che ogni anno attraversano il Messico verso gli Sati Uniti. La nuova linea di credito avrebbe due obiettivi: quell interno che riguarderebbe tre zone di sviluppo. Il Chapas, dove il governo ha intenzione di piantare un milione di ettari di alberi da frutta per creare 400 mila posti di lavoro. La seconda nel sud-est del Messico, dove si prevede di costruire il cosiddetto treno Maya: una ferrovia di 1500 chilometri che passerà attraverso gli Stati di Tabasco, Chapas, Campeche, Yactan e Quintana Roo. Il terzo macroprogetto, sempre un treno, il transistmico, è una linea ferrata di che dovrebbe unire il Pacifico con l’Atlantico. Per quanto riguarda la missione “estera”, invece, si tratterebbe di rendere flessibili le richieste migratorie per facilitare ai centroamericani l’ottenimento dei permessi. Il piano dei visti per i lavoratori stranieri saranno ispirati al modello per che ha adottato il Brasile per gli haitiani. Visti umanitari da un anno, ma rinnovabili. I malpensanti già vedono in questo una copia del “Piano Puebla Panamá ”, la zona di libero commercio da Panama agli Usa che cercò di aprire l’ex vicepresidente Vicente Fox (2000-2006), ma che venne abbandonato per diversi punti di difficile risoluzione. L’unica arma che il Messico possiede in questo momento per ottenere la firma di Trump al “nuovo piano Marshall” è la sua missione di filtro all’immigrazione illegale, ovviamente. Posto che questo si presenta ogni giorno di più come un ruolo difficile da svolgere per il Paese centramericano.
Nelle ultime settimane la crisi migratoria ha spinto 500 persone delle 7000 arrivate con la carovana dall’Honduras, a cercare di oltrepassare il confine con la California.
La situazione più grave si è verificata domenica alla frontiera di Tijuana appena riaperta, dove la guerriglia con la polizia che ha lanciato lacrimogeni e palle di gomma contro i migranti ha portato all’arresto di 98 persone che ora verranno rimpatriate.

La Stampa 27.11.18
Ora e sempre, Medioevo
I demagoghi dell’era social rivelati dalle lezioni degli antichi
di Christian Rocca


La nostra idea di Medioevo si è formata alcuni secoli dopo la sua fine, ed è sbagliata. Il Medioevo non è sinonimo di superstizione, oscurantismo e violenza ma non è nemmeno anticipatore illuminato di teorie o dottrine contemporanee. Esiste però un pensiero politico medievale, istruito e dotto, originale e indissolubilmente legato alla sua epoca, che va oltre la strumentalizzazione dei moderni, impegnati ora ad attribuirgli la radice dei mali, delle manchevolezze e dei fallimenti di ogni epoca, quasi fosse una specie di bad company della storia europea, ora invece a scorgervi il momento della nascita dell’Europa e degli Stati nazione.
Idee che credevamo di capire
Il Medioevo non è niente di tutto questo, spiega un nuovo e delizioso saggio di Gianluca Briguglia che fa da mappatura, e storia intellettuale, de Il pensiero politico medievale (Einaudi, pp. 235, € 21). Briguglia, 48 anni, è direttore del Dipartimento di Filosofia dell’Università di Strasburgo, dove insegna Storia medievale. E proprio da Strasburgo, dalla sua splendida cattedrale gotica di 142 metri, Briguglia parte per raccontare la storia del pensiero politico dell’Europa occidentale tra il XII e il XV secolo: la cattedrale di Strasburgo è contemporanea, scrive Briguglia, perché è parte vitale della città odierna, oltre che per tutta la storia che vi si è sedimentata arrivando fino a noi, ma allo stesso tempo non sappiamo nulla dell’epoca in cui è stata costruita, delle ragioni per cui è così alta e di molto altro, perché in fondo il mondo storico che ha prodotto la Cattedrale non esiste più e per questo, continua Briguglia, si può dire che la cattedrale di Strasburgo semplicemente non esiste, così come non esistono le idee e le teorie medievali che crediamo di capire e di apprezzare, ma che in realtà non conosciamo, anche se a volte abbiamo l’impressione che siano contemporanee.
La rassegna che fa Briguglia dei pensatori medievali grandi e piccoli, con quei nomi memorabili che vanno da Giovanni di Salisbury a Brunetto Latini, da Tolomeo da Lucca a Giacomo da Viterbo, e poi i più noti Marsilio da Padova, Tommaso d’Aquino, Dante Alighieri, Guglielmo di Ockham, è una formidabile sceneggiatura di idee e di pensiero sulle città, sul ruolo di Dio, sul discorso pubblico, sulla nascita di una cultura politica. Lo scopo del saggio non è quello di mostrare la grandezza di questi autori sulla base della loro capacità di precorrere i tempi e le idee, al contrario è quello di invitare i lettori a limitarsi a cogliere la specificità e l’originalità del loro pensiero e nel rispetto del contesto storico.
Il potere della parola pubblica
Eppure, ci scuserà Briguglia, è difficile non pensare ai demagoghi dei giorni nostri leggendo di Boncompagno da Signa che reputa «sregolata e plebea», da «illetterati senza istruzione e ragionevolezza», l’ostentazione oratoria dei concionatores che arringano le folle in sella a un cavallo «che è quasi fatto fremere ad arte come segno di energia, che impugnano la spada con volto feroce e la fanno roteare, che ricordano le vittorie degli antichi e le offese ricevute dai nemici, fino a quando il popolo non urlerà, alla domanda se si vuole scatenare la guerra, «Fiat, fiat», ovvero: «Sia fatto, sia fatto». Altrettanto improbabile non fantasticare sull’urgenza di un manuale d’uso per i social ispirato al Liber de doctrina dicendi e tacendi di Albertano da Brescia il quale, nel 1245, agli albori dello spazio politico creato dalla parola dei cittadini, invitava a stare molto attenti a quella nuova forma di comunicazione: «Ricerca chi sei tu che parli, che cosa dici, a chi lo dici, perché, come e quando parli», ovvero un magistrale manifesto, per usare le parole di Briguglia, «sul potere della parola pubblica, sui suoi pericoli, sulle sue opportunità, sulle sue regole e sul valore del tacere».

La Stampa 27.11.18
Tutti i modi del Talmud per chiedere la pioggia
di Elena Loewenthal


Potrà sembrare strano per una lingua che nasce nell’aridità del deserto, ma l’ebraico ha un lessico variegato per dire «pioggia»: la più amata è certamente la prima della stagione, che si attende quasi quanto il Messia.
Il trattato Ta’anit del Talmud, oggi in traduzione italiana a cura di Michael Ascoli nel contesto del «Progetto Talmud» finanziato dal ministero dell’Istruzione e della Ricerca, è dedicato ai tempi e ai modi del digiuno ebraico. Che non è mai una mortificazione fisica fine a sé stessa, ma racchiude sempre vari livelli di significato. Il primo capitolo del trattato è interamente dedicato alla pioggia - e alla benedizione che essa porta con sé - , a ciò che si ha da fare quando non arriva: «Non si richiede la pioggia se non nel periodo vicino alla stagione delle piogge».
Il digiuno che si pratica per la pioggia diventa un modo come un altro per dialogare con il Signore. Il trattato Ta’anit prosegue con una ricca disamina dei modi, dei momenti, delle preghiere prescritte per i digiuni. Spiega quelli «canonici» - dal 9 del mese di Av che commemora la caduta del Tempio di Gerusalemme a quello del Kippur, il giorno dell’Espiazione. Questo momento solenne del calendario ebraico è, insieme al 15 del mese di Av, il «più festivo per Israele». Se di quest’ultimo è detto che «fu il giorno in cui fu permesso alle tribù di sposarsi fra loro», il digiuno di Espiazione è un «giorno di perdono e assoluzione», ma anche «il giorno in cui furono date le seconde tavole della Legge». Vita e memoria, fede e dialettica, si intrecciano sempre nelle parole del Talmud.

Corriere 27.11.18
Alle origini della mafia
Un saggio di Salvatore Lupo (Donzelli) ripercorre le vicende di Cosa nostraa partire dal XIX secolo. L’autore smentisce che le cosche siano state favorite dagli americani e avanza forti riserve sulle teorie di carattere complottista
Un «frutto tossico» dei moti siciliani che rovesciarono il dominio borbonico
di Paolo Mieli


La mafia nacque a metà Ottocento da una costola in un certo senso della «rivoluzione» siciliana. Questa in sintesi la tesi del libro — La mafia. Centosessant’anni di storia tra Sicilia e America — di un grande studioso di questa materia, Salvatore Lupo.
Il libro tira le somme di una serie di precedenti lavori e sta per essere pubblicato da Donzelli. Qualche lontana origine del fenomeno — sostiene Lupo — può essere rinvenuta nel partito democratico del proprietario terriero Francesco Bentivegna il quale nel 1848 a Palermo guidò un manipolo di uomini per sostenere l’insurrezione antiborbonica e successivamente si collegò con i circoli radicali che — dopo la sua morte — avrebbero ispirato la sfortunata impresa di Carlo Pisacane a Sapri; lui nel frattempo aveva mobilitato una «squadra popolare» per «sollevare» nuovamente Palermo, ma era stato catturato e fucilato dai soldati borbonici. I suoi seguaci nel 1860 si schierarono con la corrente radicale garibaldina. Suo fratello, Giuseppe Bentivegna, nel 1862 sarebbe stato a fianco di Garibaldi sull’Aspromonte. Identiche considerazioni valgono per Giovanni Corrao, anche lui rivoluzionario del 1848, finito poi in prigione e in esilio. Mazziniano «spinto», Corrao fu con Garibaldi al tempo dei «Mille» e lo seguì fino alla battaglia finale sul fiume Volturno. Cospiratori antiborbonici erano stati anche due amici di Corrao, Giuseppe Badia e Francesco Bonafede.
«È possibile che i Corrao e i Bentivegna», scrive Lupo con le dovute cautele, «si siano rapportati, lungo il loro percorso, anche ad elementi definibili come proto mafiosi». Quanto a coloro, prosegue Lupo, che furono qualificati come capimafia in tempi successivi, vale a dire in età postunitaria, «troviamo nella loro biografia non pochi punti di contatto con l’esperienza rivoluzionaria». In questo senso Lupo crede «si possa dire che la mafia rappresentò il frutto tossico di una stabilizzazione post rivoluzionaria».
Come ciò avvenne lo si può capire da un opuscolo pubblicato nel 1864 dal senatore della sinistra «moderata» Nicolò Turrisi: Cenni sullo stato della sicurezza pubblica in Sicilia. Turrisi racconta come sia nel 1848, sia nel 1860 nell’isola «era in armi tutta la vecchia setta dei ladri, tutta la gioventù che viveva col mestiere di guardiani rurali, e la numerosa classe dei contrabbandieri dell’agro palermitano». Poi, dopo l’impresa garibaldina, era mancato un governo in grado di restaurare l’ordine, sicché a quella setta di «tristi» si affiliarono altri personaggi della stessa risma. Turrisi, nota Lupo, non usa il termine «mafia», ma ricorre ad altre parole chiave: «setta» appunto, e poi «camorra», «infamia», «umiltà». In che senso «umiltà»? Spiega Turrisi: «umiltà comporta rispetto e devozione alla setta ed obbligo di guardarsi da qualunque atto che può nuocere direttamente o indirettamente agli affiliati». Due anni dopo lo stesso Turrisi chiamerà la setta con il suo nuovo nome, mafia, testimoniando davanti alla Commissione parlamentare sulla rivolta del 1866. Dirà: questi uomini armati «si fanno o si impongono guardiani della proprietà; proteggono le proprietà e ne sono protetti; ma restano malandrini; la Mafia fu protetta da’ signori che se ne valsero nel ’48». E il cerchio si chiude.
La prima volta che il termine «maffia» (con due effe) compare in un documento governativo è in una relazione del prefetto di Palermo Filippo Gualterio (nel 1865). Il funzionario spiegava che la mafia era una specie di «camorra», un’«associazione malandrinesca» in rapporto con i «potenti», a suo tempo guidata dal già citato Corrao e ora capeggiata dal suo sodale Badia. In altre parole «la faceva coincidere col partito repubblicano, col chiaro intento di delegittimarlo», osserva Lupo. L’operazione politica di Gualterio consisteva nel «mettere insieme promiscuamente l’aspetto politico e quello criminale».
Il primo giuramento di mafia registrato in un rapporto di polizia è del 29 febbraio 1876. Il rito, scrive Lupo, ci rinvia non solo al futuro della mafia, ma anche al passato della rivoluzione, in particolare alle «vendite» carbonare e a quei patti «giurati» (di cui dicono le fonti sul 1848), in forza dei quali il popolo prometteva di seguire le classi superiori nella lotta contro il dispotismo borbonico, ma impegnandosi a non mettere in discussione l’ordine sociale». Dopodiché la mafia non solo trasse originariamente suggestioni o modelli dalla massoneria, ma condivise con la stessa massoneria «alcuni caratteri di fondo». Qui Lupo afferma — pur senza «voler criminalizzare la tradizione massonica», mette in chiaro — che «le cosche mafiose e le logge massoniche sono società di confratelli che si basano sull’idea del mutuo sostegno, usano rituali barocchi per l’ammissione dei neofiti, puntano sul mantenimento del segreto». E in questo sono assai simili tra loro.
Nel 1874 l’ultimo governo della Destra storica, guidato da Marco Minghetti, propose una legge per l’ordine pubblico, una legge «straordinaria» e specifica per la Sicilia. Minghetti citò la statistica sugli omicidi del 1873 che vedeva l’isola in testa tra le regioni d’Italia, con un omicidio ogni 3.194 persone, laddove la Lombardia era in coda, con un ucciso ogni 44.674 abitanti. Il prefetto di Palermo, Giovacchino Rasponi, protestò per il varo della «legge straordinaria» e si dimise. Quello di Caltanissetta, Guido Fortuzzi, si disse, invece, entusiasta e volle specificare che l’idea di governare i siciliani «con leggi e ordinamenti all’inglese o alla belga, che suppongono un popolo colto e morale come colà o come almeno nella parte superiore della penisola», implica «un azzardoso e terribile esperimento». Destinato a fallire.
Successivamente i sospetti di collusione si spostarono sulla destra per iniziativa del procuratore generale del re Diego Tajani, che ebbe uno scontro con il questore di Palermo Giuseppe Albanese, da lui accusato di essere il mandante di una catena di omicidi. Nel giugno del 1875 il caso arriva in Parlamento, dove il deputato della Sinistra Francesco Cordova puntò l’indice contro i banchi governativi: «Signori del governo», urlò, «il centro della maffia è nelle fila della vostra forza pubblica, i manutengoli siete voi». E quando Leopoldo Franchetti con Sidney Sonnino andò a trovare Tajani prima di «scendere» — tra il marzo e il maggio del 1876 — a studiare il «caso siciliano», l’uomo del re rivelò loro che la degenerazione del governo della Destra in Sicilia era cominciata, a suo avviso, nel 1866-67 essendo prefetto Antonio Starabba, marchese Rudinì. Il quale Rudinì, disse Tajani, «principiò a impiegare assassini contro assassini, per modo che per un assassino che distruggeva ne creava quattro».
E l’uso della forza per combattere la mafia? Negli anni iniziali della storia d’Italia, quando il Paese fu governato dalla Destra storica (1861-76), «ancora non era ben consolidato il sistema delle garanzie liberali e si era appena avviato il tormentato percorso verso la democrazia politica». La prima battaglia di quell’epoca contro la mafia fu combattuta sotto il segno di un sistema di governo centralistico, autoritario, che non disdegnava di far ricorso allo stato d’assedio e di affidarsi ai militari. Accadeva che «per difendere la propria rozza idea di legalità, indulgesse ad ogni genere di sostanziale illegalismo». In alcuni periodi storici, almeno due, «la lotta alla mafia — sostiene Lupo — confinò con la negazione di valori, che per noi sono irrinunciabili, di rispetto dei diritti individuali e collettivi, insomma di libertà». La mafia, è vero, rappresenta una patologia delle relazioni sociali e dei sistemi rappresentativi. Ma, afferma Lupo, alcune delle soluzioni che storicamente sono state proposte possono ai nostri occhi essere considerate peggiori del male. Dopodiché vanno annotate anche le due stagioni, quella tardo ottocentesca della Sinistra storica e quella della prima età repubblicana, che Lupo definisce del «lungo armistizio».
Ne parlò per primo, subito dopo la Grande guerra, il giurista Santi Romano, il quale notò come ai suoi tempi l’«ordinamento giuridico maggiore» (lo Stato) si mostrasse tollerante verso quelli «minori» (le associazioni) reagendo solo contro quelle che ne minacciavano il potere (le organizzazioni rivoluzionarie). La mafia poteva agevolmente essere collocata in questo schema. Sotto la minaccia delle leggi statuali, scriveva Santi Romano, «vivono spesso, nell’ombra, associazioni, la cui organizzazione si direbbe quasi analoga, in piccolo, a quella dello Stato: hanno autorità legislative ed esecutive, tribunali che dirimono controversie e puniscono, agenti che eseguono inesorabilmente le punizioni, statuti elaborati e precisi come le leggi statuali». Esse dunque, proseguiva Santi Romano, «realizzano un proprio ordine, come lo Stato e le istituzioni statualmente lecite».
Lo Stato italiano (liberale-monarchico, fascista e repubblicano) ha oscillato tra fasi di tolleranza e fasi di repressione. Ma le prime sono state assai più lunghe delle seconde. Lo storico propone un paragone tra la lotta alla mafia di Cesare Mori (1926-1929) e quella degli anni Ottanta, rilevandone le differenze a partire da quelle concettuali. Il fascismo «aborriva l’idea di una spinta dal basso nonché di un’autonoma partecipazione della società civile» e «sosteneva l’incompatibilità tra logiche liberal-democratiche da un lato e legalità dall’altro». Sul piano pratico la repressione fascista fu pesante, «spesso indiscriminata» e «si accompagnò ad ogni genere di abuso». Però dai processi di quell’epoca la grande maggioranza degli imputati «uscì bene»: molte delle condanne furono di «modesta entità» e seguì un’amnistia. Niente a che vedere, sottolinea l’autore, con le pesantissime pene inflitte ai mafiosi dai tribunali della Repubblica a partire dal 1985-86.
Lupo non crede alla «leggenda» («priva di qualsiasi base documentaria») stando alla quale lo sbarco in Sicilia del luglio 1943 sarebbe stato «il frutto di un complotto tra mafiosi e servizi segreti statunitensi». E anche a proposito della strage di Portella della Ginestra (1° maggio 1947) non gli sembra «sia venuto qualcosa di serio dai vari tentativi di dimostrare che gli americani abbiano avuto in essa qualche responsabilità», mentre «è vero», concede, «che, in generale, intorno alla vicenda del bandito Salvatore Giuliano si intrecciarono complotti a ogni livello». Molti sono stati quelli che (in Italia e altrove) hanno ricondotto i successi della mafia nel secondo Novecento alle «trame del governo statunitense o delle sue agenzie di sicurezza, nell’ambito di strategie della tensione destinate ad inquinare in permanenza la vita democratica della nostra Repubblica». Si tratta, per Lupo, di una tesi «che ha avuto fortuna nella cultura di sinistra, sinistra che è stata a lungo antiamericana per definizione». Ma questa tesi ha spopolato anche «su altri versanti che antiamericani non lo sono stati mai».
Ora, secondo l’autore, «può darsi che, nei giochi complicati dei servizi segreti, qualche spezzone di qualche agenzia statunitense abbia tramato con qualche banda mafiosa americana o siciliana». Però in sostanza l’unica cosa «provata» è questa: «Più volte il governo statunitense intervenne, anche su sollecitazione dell’agenzia federale antidroga (il Narcotic Bureau) perché le autorità italiane facessero qualcosa contro la mafia, ottenendo scarso successo». Nient’altro.
Lupo si dice consapevole che solo parzialmente la ricerca può illuminare gli spazi torbidi oscuri in cui si sviluppa questo fenomeno, la rete di intrighi che «costituisce la storia della mafia». Ritiene però che «la storiografia possa fare la sua parte, dal punto di vista conoscitivo e anche da quello civile, evitando di accreditare le mitologie del Supercomplotto». Sottraendosi cioè alla tentazione di «seguire la china della discussione pubblica, che troppo spesso si ubriaca dell’immagine della mafia come invincibile superpotere: finendo per risolversi, quali che siano le sue intenzioni, in una sottile apologia». Un’apologia che rischia di provocare un danno non lieve, che va ad aggiungersi a quelli provocati dalla mafia in sé.

La Stampa TuttoSalute 27.11.18
“I primi umani con il Dna modificato”
Annuncio in Cina: due gemelle libere dall’Aids
di Nicla Panciera


La domanda non era se, ma quando. L’annuncio della creazione dei primi esseri umani geneticamente modificati è arrivato dalla Cina, a poco meno di un anno dalla prima clonazione di primati non umani e, con strategico tempismo, alla vigilia del vertice sull’editing genetico, al via oggi a Hong Kong. E dove dovrebbe intervenire proprio l’autore dell’impresa, il biologo He Jiankui, oggi alla South University of Science and Technology of China di Shenzhen e formatosi a Stanford negli Usa.
Su YouTube He ha spiegato che le due gemelle, che chiamerà Lulu e Nana per proteggerne la privacy, sono nate alcune settimane fa da embrioni con Dna modificato mediante la celebre tecnica Crispr-Cas9 di «taglia e incolla» genetico. Con questo bisturi molecolare è stato eliminato un singolo gene, il Ccr5, dal codice genetico degli embrioni, con l’intento di renderli resistenti all’infezione da Hiv. Una modifica ereditabile e quindi trasmissibile ai discendenti.
Polemiche e dubbi. «Esperimento indifendibile e prematuro», è stata la reazione più diffusa nella comunità degli studiosi. Ma mancano conferme definitive: pubblicazioni su riviste scientifiche non ce ne sono. Per il genetista George Church dell’università di Harvard, che ha visionato alcuni documenti, la modifica del Dna non era riuscita in uno degli embrioni e la decisione di impiantarlo ugualmente è la prova che «l’obiettivo principale dei ricercatori era sperimentare l’editing del Dna piuttosto che evitare la malattia». Intanto l’università di Shenzhen ha fatto sapere che He è in congedo da febbraio e di non essere stato informato della sperimentazione, «condotta al di fuori dell’ateneo» (He non ha finora rivelato dove sia avvenuta).
Cosa è stato fatto. Il lavoro, ultimo di una serie di record cinesi nell’editing genetico, riguarda alcune giovani coppie, in cui la donna è sana e l’uomo sieropositivo, con problemi di fertilità. In cambio di un intervento di fecondazione in vitro è stato chiesto di modificare gli embrioni prima di impiantarli così da eliminare il gene incriminato e renderli resistenti all’Hiv. La procedura è stata approvata e condotta - si legge nei documenti online sul «trial» clinico - su «linee cellulari in vitro, su modelli animali e su embrioni umani sovrannumerari».
Stoppare il virus. La proteina Ccr5 è il recettore usato dall’Hiv per entrare nelle cellule. Chi ne è privo è al riparto dall’infezione. Lo si sa da quando il cosiddetto «paziente di Berlino», dopo essere andato incontro per una leucemia mieloide acuta a un trapianto di midollo con cellule staminali con delezione del Ccr5, è guarito dall’infezione. Esiste, inoltre, una popolazione caucasica naturalmente priva di questo gene che è immune al virus. «Studi per eliminare Ccr5 con l’editing genetico sono già in corso su pazienti adulti, come quelli condotti alla University of Southern California da Paula Cannon con las “Zinc finger nucleasi”, tecnologia di editing sviluppata prima della Crispr», ci spiega Anna Cereseto, responsabile del laboratorio di virologia molecolare del Centro di Biologia «Cibio» dell’Università di Trento e creatrice di evoCas9, tecnica ancora più precisa di Crispr. Questi tentativi di eradicare l’infezione agendo sul sistema immunitario prevedono, però, interventi su cellule somatiche e su individui già infetti.
Le reali intenzioni. Ma, allora, perché farlo sugli embrioni? Per cancellare la piaga dell’Hiv? O liberare la prole di un sieropositivo dal destino dei padri? «Solo pretesti», secondo Luigi Naldini, direttore dell’Istituto San Raffaele Telethon per la terapia genica di Milano. Realizzare uno strumento di prevenzione della trasmissione dell’infezione da genitori sieropositivi ai figli - aggiunge - «è un razionale debole e criticabile». Naldini è l’unico italiano ad essere stato chiamato dall’Accademia Usa delle scienze per la stesura del rapporto dedicato all’editing del genoma umano (firmato, tra l’altro, dall’Accademia cinese delle scienze), in cui si concorda di ricorrervi «solo in condizioni strettamente controllate e per il trattamento di malattie gravi». Il team di He, invece, ha operato su embrioni umani appositamente creati. «Nel lavoro, da quanto è emerso, non c’è nulla di innovativo né tecnicamente né scientificamente - dice Naldini -. L’intervento è stato eseguito troppo presto e in un contesto non adeguato». Ci vuole prudenza, confermano gli specialisti: per l’embrione il rischio non è affatto nullo.
Scienza e società. La posta in gioco nell’editing sull’uomo - è chiaro - va oltre la sicurezza. La comunità scientifica è concorde sulla necessità di uno sforzo per il coordinamento degli studi e a questo servono i summit, come l’incontro di Hong Kong. Il dialogo con i cittadini, poi, dovrebbe portare al più ampio consenso sociale. Il test di He - è l’obiezione - rischia di generare discredito in un settore cruciale e suscitare una pericolosa ostilità nell’opinione pubblica.

Corriere 27.11.18
L’annuncio, la polemica
«Nate gemelline con Dna mutato» Il mistero in Cina
di Guido Santevecchi


Gemelle nate con il Dna modificato. La notizia arriva dalla Cina: «Intervento necessario per proteggerle dall’Hiv» spiega il dottor He che ha effettuato l’operazione. Ma scatta un’inchiesta interna. L’università di Shenzhen sostiene di non essere al corrente del progetto di He, che è un suo professore, in aspettativa fino al 2021. «Questo lavoro è una grave violazione dell’etica e delle pratiche accademiche» accusa l’ateneo.

PECHINO Si è presentato su YouTube e ha annunciato che «due belle gemelline cinesi sono venute alla luce, sane e piangenti come tutte le bimbe del mondo». Sono molti i neogenitori che usano i social network per raccontare la loro gioia. Ma l’orgoglio questa volta è quello di uno scienziato, il quale sostiene di aver fatto nascere i due primi esseri umani al mondo geneticamente modificati.
Il dottor He Jiankui dell’Università di Scienza e Tecnologia del Sud, a Shenzhen, in Cina, formato anche nelle americane Rice e Stanford, dice di aver alterato il Dna delle due nasciture «quando erano ancora un’unica cellula, con un potente nuovo strumento capace di riscrivere il codice genetico della vita». Lo scopo di questo esperimento? Il ricercatore ha spiegato che non è di curare o prevenire malattie ereditarie, ma di cercare di impiantare una caratteristica genetica che pochi individui hanno naturalmente, la capacità di resistere a possibili infezioni da Hiv, il virus dell’Aids.
He Jiankui, via YouTube e con un’anticipazione all’agenzia Associated Press, aggiunge particolari «umani» e scientifici: chiama le due gemelline Lulu e Nana, nomi di fantasia «per proteggere la loro privacy», e spiega di aver utilizzato la tecnica di ingegneria chirurgica «Crispr-cas9», che grosso modo rende possibile operare sul Dna per inserire un gene o disattivarne uno che sta causando problemi.
Per il suo esperimento He ha selezionato sette coppie di cinesi adulti e volontari: i maschi avevano l’Hiv, le femmine no. Tutti volevano diventare genitori e il ricercatore li ha aiutati «editando» gli embrioni nati dalle sette coppie durante trattamenti per la fertilità. Sarebbero venute al mondo così le due gemelle geneticamente modificate. Se è vero, si tratta di uno sviluppo che sposta la frontiera della scienza e dell’etica.
Ma è vero? Ci sono molti dubbi. He Jiankui non ha al momento fornito altra prova se non la sua parola e documenti mostrati alla Ap. Non ha pubblicato il suo studio su alcuna rivista scientifica per sottoporlo al giudizio dei colleghi. Un giudizio che comunque, sulla base delle sue dichiarazioni, è stato ieri sostanzialmente negativo, dal punto di vista clinico ed etico. E anche in Cina, dove di solito le preoccupazioni morali sono meno strette rispetto all’Occidente, He si è trovato isolato e inseguito dai sospetti. L’università di Shenzhen dice di non essere al corrente del progetto di He Jiankui, che è un suo professore. In un comunicato dichiara che il dottor He è in aspettativa senza stipendio da febbraio e fino al 2021. «Questo lavoro è una grave violazione dell’etica e delle pratiche accademiche», conclude il documento annunciando un’inchiesta interna. Ha avviato un’indagine anche il Comitato di etica medica statale della città. C’è un mistero sul luogo della nascita di Lulu e Nana, perché l’ospedale ginecologico di Shenzhen indicato dal ricercatore ha negato di essere coinvolto nel caso. Più di cento scienziati cinesi hanno condannato l’esperimento come «folle», riferisce il Global Times di Pechino, di proprietà del Partito.
Le valutazioni di diversi genetisti occidentali sono dure: «Se è vero è mostruoso»; le affermazioni di He «sono premature, pericolose e irresponsabili», dice Joyce Harper, professore di embriologia all’University College di Londra. «Inconcepibile, un esperimento su esseri umani non è eticamente difendibile», per il dottor Kiran Musunuru, genetista alla University of Pennsylvania.
He Jiankui su YouTube invita a scrivere una email di auguri a DearLuluAndNana@gmail.com.

Corriere 27.11.18
Domande & Risposte
La scienza e lo spettro dell’eugenetica
È un obiettivo raggiungibile
Supera i limiti etici?
di Anna Meldolesi


1 Si può rendere l’organismo invulnerabile all’Aids?
Disattivando il gene Ccr5, viene meno la proteina che serve al virus dell’Aids come porta di ingresso per infettare le cellule. Questo meccanismo è presente naturalmente in una minoranza di persone ed era già al centro di diversi studi promettenti. Ma un conto è trapiantare in un soggetto malato delle cellule modificate per tentare di curarlo, come si è fatto finora, altra cosa è introdurre modifiche permanenti in embrioni sani. Che senso ha effettuare un intervento genetico per prevenire un rischio che può essere minimizzato con un semplice preservativo? Inoltre sulla base dei dati diffusi non si può dire che le bimbe nate in Cina siano resistenti all’Hiv. Poiché ogni gene è presente in duplice copia, è necessario modificarle entrambe per ottenere l’effetto sperato. Ma in una delle due gemelle risulta corretta soltanto una copia, e nemmeno in tutte le cellule.
2 Perché è stato scelto questo gene bersaglio?
Perché era l’esperimento più facile. Per curare la maggior parte delle malattie causate da mutazioni genetiche è necessario correggere le lettere del Dna in modo puntuale. Invece per ottenere la resistenza all’Hiv, almeno sulla carta, basta recidere il gene e lasciare che la lesione si saldi da sola. Invece di curare un gene difettoso, dunque, si distrugge un gene sano che potrebbe avere funzioni utili. Il desiderio di tagliare il traguardo per primi, dunque, sembra l’unica spiegazione ragionevole per questa impostazione sperimentale.
3 La tecnica usata è affidabile?
È la versione standard della tecnica Crispr. Si tratta di una proteina programmabile, capace di prendere la mira e tagliare il Dna con delle forbici molecolari. Versatile ed economica, è amatissima nei laboratori in tutto il mondo, ma nemmeno la sua inventrice Jennifer Doudna la considera abbastanza matura per l’impiego su embrioni destinati a diventare bambini. Prima di procedere sarebbe stato necessario un consenso sociale e molta ricerca di base.
4 La Cina è la nuova super-potenza biotech?
Pechino ha il record di studi nel campo. I cinesi sono stati i primi a modificare embrioni umani usando diverse varianti della tecnica Crispr. Gli unici Paesi occidentali attivi nel campo sono Usa e Gran Bretagna, ma hanno svolto solo un esperimento ciascuno senza avviare gravidanze. La Cina ha partecipato al primo Summit sull’editing del genoma umano a Washington nel 2015 e alla stesura delle linee guida internazionali. Ma ha rinunciato a ospitare il secondo summit e le motivazioni della retromarcia sono un giallo nel giallo.
5 È un esperimento di eugenetica?
Il fantasma eugenetico svanisce se in questa categoria si fanno rientrare sole pratiche coercitive come quelle naziste. Ricompare quando si teme che le pressioni sociali limitino la libertà di scelta dei genitori. La medicina oscilla da sempre tra il sollievo della sofferenza e il miglioramento biologico della specie umana, ma lo spartiacque tra applicazioni terapeutiche e di potenziamento si assottiglia. Va ricordato, comunque, che in rari casi l’editing degli embrioni potrebbe essere l’unico modo di garantire figli biologici sani alle coppie più sfortunate, quando il gene difettoso è presente in doppia copia.
(hanno contribuito i genetisti Luigi Naldini, San Raffaele-Telethon; Anna Cereseto, Università di Trento; Alessandro Bertero, Università di Washington)

Repubblica 27.11.18
I gemelli cinesi
Quei figli della follia genetica
di Alberto Mantovani

Alberto Mantovani, medico e immunologo, è direttore scientifico Irccs, Istituto clinico Humanitas e docente alla Humanitas University. Il suo ultimo libro è "Bersaglio mobile" (Mondadori, 2018)

Sono profondamente preoccupato, per non dire scandalizzato, sia dal metodo sia dal contenuto di quanto annunciato: la nascita, in Cina, di due gemelli il cui Dna è stato modificato per renderli resistenti al virus dell’Aids.
Sono indignato dal metodo, perché non si comunica su YouTube un simile evento che richiede una valutazione critica da parte della comunità scientifica. Stiamo parlando di tecniche di frontiera dal punto di vista scientifico: è dunque più necessario che mai agire con cautela, trasparenza, responsabilità e rigore. La cosiddetta peer review, ossia il giudizio dei pari, non è un "qualcosa in più" cui si può decidere di rinunciare: al contrario, permette di avere tutti gli elementi per valutare la reale portata di una scoperta, anche prima della pubblicazione della stessa.
La strada dell’intervento sul Dna è importantissima ed è una promessa di salute. Le manipolazioni genetiche che consentono di rieducare le cellule di difesa dell’organismo (i linfociiti T in particolare) sono ad esempio oggetto di ricerca e di speranza per la cura delle leucemie. Anche noi nei laboratori di Humanitas utilizziamo tecniche di questo tipo in laboratorio. Ma è ancora una terra piena di incognite. I risultati devono essere oggetto di verifiche attente da parte della comunità scientifica.
Di recente, ad esempio, è stato pubblicato su una rivista scientifica uno studio sulla modificazione di cellule fetali umane per correggere un difetto del cuore: su di esso, la comunità scientifica ha espresso forti dubbi. Il metodo — non dimentichiamolo — non è a salvaguardia della comunità scientifica, bensì del pubblico in generale e, in particolare, dei pazienti.
Sono altrettanto indignato dal contenuto di quanto comunicato. Non temo di essere smentito se dico che conosco bene la classe di molecole coinvolte nella tecnica CRISPR-Cas9, che sta profondamente cambiando il modo di fare ricerca e non solo. Si tratta delle chemochine e dei loro recettori: insieme al mio laboratorio ho contribuito a scoprirne alcune e a chiarirne la loro funzione.
Ci sono varianti genetiche di CCR5 associate a protezione da HIV presenti in circa il 10% della popolazione nord-europea. Tuttavia, non possiamo non chiederci che senso abbia inattivare in un embrione questo gene — che è sempre un gene di difesa — per prevenire una malattia contro cui ci si può proteggere efficacemente sia attraverso lo stile di vita, sia attraverso l’utilizzo di protezioni meccaniche durante i rapporti sessuali.
Se davvero quanto scritto è stato fatto, lo considero contrario all’etica della Medicina e al giuramento di Ippocrate.
Mi auguro dunque che le autorità sanitarie ed accademiche cinesi prendano adeguati provvedimenti.
Mi preoccupa molto che quanto accaduto dia l’errato segnale che è possibile varcare quella linea rossa che la comunità scientifica si è data rispetto alle modificazioni genetiche di cellule umane embrionali. Tanto più nella misura in cui ciò che è stato fatto non ha un reale obiettivo di salute, di correggere difetti genetici esistenti.
In questo modo si danneggia quella che può essere — e sempre più diventare — una frontiera a servizio della salute.

Repubblica 27.11.18
Le reazioni
Bocciatura da Nobel
"Superata la linea rossa: mai si era osato intervenire sulla specie umana"
di Elena Dusi


ROMA Mai prima d’ora eravamo intervenuti per cambiare i geni della specie umana».
David Baltimore è già a Hong Kong, dove oggi inizia il congresso mondiale sull’editing genetico e su Crispr di cui lui è coordinatore. Il Nobel per la Medicina nel 1975 (con Renato Dulbecco) è rimasto come tutti sorpreso dalla notizia cinese. Ha registrato un video in fretta e furia e l’ha pubblicato sul sito della conferenza. «L’editing genetico è uno strumento molto potente.
Fino a ieri la medicina aveva curato singoli pazienti o gruppi di pazienti con farmaci o vaccini. Mai prima di oggi i nostri trattamenti avevano avuto effetto sulle generazioni future».
L’intervento diretto sul Dna di un embrione – e quindi anche sulla sua discendenza futura – è il superamento di una linea rossa che molti paventavano. Era il 2015 quando sempre Baltimore promosse fra i colleghi una moratoria sull’uso di Crispr negli embrioni umani. Quel documento rievocava la conferenza di Asilomar, nel 1975, in cui gli scienziati (fra loro sempre Baltimore, ma più giovane) si interrogavano sulle prime tecniche di ingegneria genetica che si affacciavano all’orizzonte.
Sembra preistoria. Oggi c’è Crispr e tutto è diventato più semplice.
Quello che i metodi tradizionali consentivano con settimane di lavoro, può essere ottenuto in ore.
Sono passati 3-4 anni da quando il "taglia e incolla del Dna" si è diffuso a tappeto nei laboratori e non c’è gene che non sia stato sottoposto alla chirurgia precisa e sapiente di Crispr, né animale di laboratorio che non sia stato manipolato in uno o più punti del genoma contemporaneamente.
Non sull’uomo, però. Lì si è sempre andati con i piedi di piombo. Le sperimentazioni sulle malattie degli adulti procedono con il contagocce. Crispr infatti è in grado di cancellare il gene che prendiamo come bersaglio. «Ma produce anche molti cambiamenti incontrollati» spiega Gerry Melino, che dirige il laboratorio di medicina sperimentale all’Università di Roma Tor Vergata e usa il metodo quotidianamente. «Anche con i topi di laboratorio, in alcuni casi, si preferisce usare le tecniche tradizionali, considerate più sicure dal punto di vista degli effetti indesiderati». Quando nel 2015, sempre in Cina, i primi embrioni umani vennero trattati con Crispr (ma non impiantati nell’utero per dar vita a una gravidanza), i risultati furono tutt’altro che positivi, con un tasso notevole di errori sul genoma.
Non è solo l’etica, dunque, a sconsigliare l’uso del metodo sull’uomo. «Non è un caso sottolinea Giuseppe Novelli, genetista e rettore di Tor Vergata che l’American Society of Human Genetics ammetta l’uso della tecnica solo se finalizzato alla cura di un embrione gravemente malato. Pensiamo alla mutazione responsabile della morte improvvisa cardiaca, per esempio, non certo al caso di cronaca oggi».
Il gene CCR5 su cui si è intervenuti in Cina viene già controllato dai farmaci. Le possibilità di contagio da un padre sotto trattamento medico ai figli sono remote. «Qui stiamo parlando di eugenetica» taglia corto Novelli. Né annunci del genere si fanno su YouTube, versione moderna delle conferenze stampa con cui la setta ufologica dei Raeliani annunciava la nascita di bambini clonati, nel 2002. Come allora, anche oggi le presunte bambine ogm sono rimaste invisibili. «Curare un bambino già nella fase embrionale con Crispr sarebbe un’impresa da Nobel» aggiunge Novelli. «Se davvero questo scienziato ci fosse riuscito seguendo tutti i criteri, le riviste scientifiche più importanti del mondo avrebbero fatto a gara a pubblicare il suo lavoro. Perché invece ha usato YouTube e non ha fornito prove?»

La Stampa TuttoSalute 27.11.18
“Rachel e l’autismo”
Il saggio-confessione di un padre-scienziato “Non accusate i vaccini”
di Fabio Di Todaro


Di libri sui vaccini, nel mondo, ne sono stati scritti a decine. Ma nessuno è in grado di entrare sottopelle come quello appena uscito negli Usa e non ancora tradotto. Il titolo è «Vaccines didn’t cause Rachel’s autism» («I vaccini non hanno provocato l’autismo di Rachel», pubblicato dalla Johns Hopkins University) e l’autore è Peter Hotez, direttore del centro per lo sviluppo dei vaccini del Texas Children’s Hospital di Houston.
Quelle 220 pagine sono intrise del razionale scientifico e del vissuto di quest’uomo, uno dei massimi esperti di malattie infettive tropicali. Rachel è la sua terzogenita: oggi ha 26 anni e dal ’94 sa di convivere con un disturbo dello spettro autistico. È chiaro quello che Hotez vuole dire a chi legge: «La malattia di mia figlia non è stata provocata da alcuna vaccinazione».
L’involuzione sociale degli ultimi anni è stato il lievito che ha dato forma al libro. Oggi, in alcune aree del Texas, un bambino su tre non riceve il vaccino trivalente, che protegge da morbillo, parotite e rosolia. «Qualcosa di terribile», racconta Hotez a «Tuttosalute». Lui conosce bene l’andamento della malattia anche in Europa: oltre 50 mila i casi di morbillo registrati nel Vecchio Continente solo nel 2018. La sua battaglia a difesa dei vaccini l’ ha reso uno dei bersagli più ricercati sui social media dai movimenti contrari alla profilassi. Ma, oltre al bagaglio professionale, lo scienziato ha un vissuto familiare che l’ha obbligato a giocare questa partita.
«Nessuno, negli Usa, parlava di questa emergenza e così ho capito che chi altro avrebbe dovuto farlo se non io, che studio i vaccini da sempre e ho una figlia autistica?». Il problema, secondo Hotez, è che i vaccini sono vittima del loro successo. «Hanno funzionato talmente bene da far dimenticare cosa fosse il vaiolo, quale sia stato l’impatto della poliomielite e della meningite provocata dall’Haemophilus Influenzae tipo B: infezioni per cui oggi esiste una profilassi vaccinale». Questo è lo scenario nei Paesi occidentali. Perché, poi, c’è un’altra parte di Pianeta, prevalente, in cui ogni anno 1,5 milioni di bambini muoiono, perché i vaccini non arrivano.
Da qui la scelta di mescolare la prospettiva del ricercatore con quella del genitore, così da rispondere a una delle sfide più urgenti in termini di salute pubblica. Il tono è pacato, ma per Hotez l’impatto del disturbo di Rachel è stato devastante. «Da piccola non voleva essere abbracciata. Allineava gli oggetti su un tavolo per poi buttarli a terra e ha sempre avuto un quoziente intellettivo più basso rispetto ai coetanei - è il racconto commovente che lo scienziato fa nel primo capitolo -. A un anno e mezzo non camminava né parlava. Per noi, che eravamo al terzo figlio, fu una novità assoluta».
E, intanto, il movimento anti-vaccinista continuava a crescere. «Se un ricercatore che lavora per salvare i più poveri condivide le proprie conoscenze e l’esperienza che gli ha posto di fronte la vita, occorre sempre prestare attenzione», spiega nella prefazione Arthur Caplan, bioeticista della New York University. E infatti nel libro - che spiega con dovizia ciò che sappiamo in merito ai disturbi dello spettro autistico - è ricostruito tutto l’artificio che ha portato a diffondere la fake news di una correlazione (inesistente) tra la vaccinazione trivalente e l’autismo: dalla pubblicazione dello studio di Andrew Wakefield su «The Lancet», nel 1998, al successivo ritiro, nel 2010, dopo che si era scoperto che i risultati erano stati falsificati e che il ricercatore era stato pagato per dimostrare quell’impossibile legame e, così, portare avanti cause milionarie. Nonostante ciò, sono ancora in molti a dare ossigeno a questa bufala. Hotez ne conosce molti da vicino. L’ex medico inglese, dopo essere stato radiato dal proprio ordine, si è infatti trasferito proprio in Texas, dove continua ad agitare uno spauracchio inesistente. Se molti texani considerano i bambini autistici dei vaccinati «feriti», buona parte delle responsabilità sono le sue.
Hotez rivela tutta la preoccupazione che lo tormenta per il crescente impatto dei movimenti anti-vaccinisti in Occidente. Un «mix di isteria e pseudoscienza» è quanto ha portato allo scenario attuale, spiega: con il web nel ruolo di una tanica di benzina a pochi passi da un incendio. «Esistono almeno 500 siti che fanno propaganda contro i vaccini. A consultarli sono perlopiù persone benestanti e istruite, non al punto però da distinguere una fonte attendibile da un portale antivaccinista».
Nel mostrare la propria intimità («Io e mia moglie Ann stiamo invecchiando e siamo preoccupati di come Rachel vivrà quando non ci saremo più») Hotez si augura che il dibattito sull’autismo si sposti sui bisogni di chi ne soffre e delle famiglie. «Se sono arrabbiato con chi si oppone ai vaccini è perché questo atteggiamento dirotta l’attenzione lontano da quelle che sarebbero le risposte da dare. La scienza ne ha già fornite molte: l’autismo è un problema che matura a partire dalla gravidanza, se non prima. Non è evitando di vaccinare un bambino che lo si pone al riparo da questo disturbo».

Repubblica Salute 27.11.18
L’allarme
Depressione Che paura la vita
Quasi tre milioni di italiani. Vittime dell’umor nero. Ma guarire si può Se si scelgono le terapie giuste
Quando vince la paura di vivere
di Valeria Pini


Ne soffrono tre milioni di italiani. Ma meno del 20% si cura Colpa dello stigma sociale. Dei servizi che non ci sono E soprattutto della convinzione di non essere malati U n solo errore in tanti anni di carriera. Un dettaglio che diventa un’ossessione, un pensiero costante. La sensazione di non farcela, la perdita di interesse per le cose. Per Maria, magistrato, 56 anni, la depressione è iniziata così. Un percorso doloroso durato più di due anni. Ci si ammala per un fallimento, ma anche per un successo, come è accaduto a Franco, 60 anni, direttore di banca, che è andato in crisi dopo una promozione e la paura di un incarico di maggiore responsabilità. Ma anche se le cure ci sono, in Italia solo il 17% dei pazienti segue il percorso giusto verso la guarigione. Nella maggior parte dei casi i malati continuano a soffrire, quasi prigionieri di una nebbia che li isola dal mondo. Sono alcuni dei dati emersi da uno studio dell’Organizzazione mondiale della sanità ( Oms), presentati al congresso nazionale della Società italiana di psichiatria (Sip) di Torino.
«Ancora oggi una percentuale molto alta di persone non si cura — spiega Bernardo Carpiniello, direttore della Clinica psichiatrica dell’Azienda ospedaliera universitaria di Cagliari, già presidente Sip — perché la depressione non viene percepita, anche quando è evidente, come patologia da curare. Quando ci si rende conto del bisogno di essere aiutati spesso non si ricevono le cure più adeguate al caso, col risultato che solo una minoranza di chi avrebbe bisogno di terapie risulta adeguatamente curata».
C’è chi non ha la forza di affrontare un lutto, una separazione, un trasloco, la perdita del lavoro o un cambiamento inaspettato. A volte, anche se apparentemente tutto va bene, mancano le energie, ci si sente fiacchi. Tutto quello che fino a poco prima sembrava semplice si complica. Oggi un paziente che si ammala di depressione maggiore, la forma più diffusa, ha sette possibilità su 10 di guarire, se segue cure mirate. Si parla in tutto di 2,8 milioni di persone, fra le quali aumentano le categorie più fragili, anziani e adolescenti, ma anche persone senza lavoro. Si tratta in misura maggiore di donne, le più esposte, quasi il doppio degli uomini.
Il male di vivere però sembra in parte ignorato, come lo sono tanti malati che preferiscono nascondersi perché ancora oggi il disagio mentale è avvolto da un forte stigma. Solo il 3,5% del budget della sanità pubblica italiana è destinato a questo settore, rispetto al 10- 15% di media di altri paesi europei come Francia, Germania, Spagna, Regno Unito.
«In questi 40 anni in Italia è stata creata una vasta e capillare rete di strutture psichiatriche — spiega Enrico Zanalda, neo eletto presidente della Sip — che garantisce ogni anno assistenza a oltre 800 mila persone, grazie all’impegno di circa 30 mila operatori. Il personale — ancora poco numeroso — è la vera risorsa in questo settore che si fonda sulla relazione con il paziente. Lo standard minimo, quello di un operatore dei servizi di salute mentale ogni 1500 abitanti non è stato raggiunto nella maggior parte delle regioni, che in media hanno il 25-50% di dipendenti in meno » . Negli ospedali e negli ambulatori pubblici i medici combattono con poche risorse. Una manciata di minuti per affrontare un caso e ricostruire la storia di una persona. Un problema, visto che il rapporto fra medico e paziente è fondamentale per l’adesione alle terapie, soprattutto nelle malattie psichiatriche. Nei casi di depressione maggiore, ad esempio, va seguita un’adeguata psicoterapia con incontri frequenti e approfonditi, accompagnata, quando necessario, dalle cure farmacologiche.
« Ma se nei centri pubblici lo psichiatra o lo psicologo ha a disposizione solo 10 minuti per paziente è difficile creare quella relazione che porta alla guarigione — aggiunge Carpiniello — così come è complicato seguire passo dopo passo la cura farmacologica. E non è raro il fenomeno del fai- da- te, un rischio per la salute. Soprattutto in caso di sospensione improvvisa, che può portare a sintomi psichici e fisici».
La maggior parte delle persone finisce così per rivolgersi a un ambulatorio privato e solo il 40% dei pazienti è in cura presso il Servizio sanitario nazionale. Questo quando si decide di curarsi e di rivolgersi a uno specialista. Perché spesso i pazienti non ammettono di essere malati. Nei casi estremi, il rischio può essere il suicidio. « In molti non percepiscono la malattia, per questo in media servono due anni per arrivare alla diagnosi. E quando si incomincia tardi — commenta Claudio Mencacci, direttore del dipartimento di Neuroscienze dell’ospedale Fatebenefratelli- Sacco di Milano — tutto è più difficile. Dei pochi pazienti che iniziano il trattamento, meno della metà lo segue nel modo giusto per tempi e dosi. Ma è importante curarsi bene per prevenire episodi successivi. Le ricadute sono frequenti. Chi ha sofferto di depressione maggiore ha il 50% di possibilità in più di ammalarsi di nuovo. E dopo un secondo episodio il 90% di probabilità di averne altri».

Repubblica Salute 27.11.18
Se sono i teen a tagliare fuori il mondo
I giovani sono più esposti Dai 14 anni in su
Ma capire non è facile
di v. p.


Adolescenti fragili, alla ricerca di un’identità. Stretti in un dolore che diventa malattia, la depressione. Anche perché, come ricorda l’Oms, quando si parla di salute mentale metà dei problemi incomincia a 14 anni. Un tema appena affrontato al congresso della Società di Psichiatria. Per Pim Cuijpers, professore di Psicologia alla Vrije Universität di Amsterdam, uno dei maggiori esperti mondiali di depressione, è bene osservare con attenzione i ragazzi per capire se c’è qualche cosa che non va.
« La depressione può insorgere a tutte le età e in qualsiasi momento. Ma i giovani sono particolarmente a rischio - spiega Cuijpers anche per la diffusione di droghe e di alcol. È una priorità curarli per evitare che il male si cronicizzi».
Nel mondo dal 10 al 20% di bambini e adolescenti soffre di depressione o di un altro disturbo mentale. Numeri che sarebbero in crescita. « Difficile stabilire con certezza che ci sia un maggior numero di ragazzi depressi oggi rispetto al passato. Questa malattia c’è sempre stata e oggi usiamo per definirla dei parametri che non erano conosciuti trent’anni fa. In passato molti casi non venivano classificati».
In Italia i giovani tra i 12 e i 25 anni sono circa 8 milioni e 200 mila. Fra loro, il 10%, si dichiara insoddisfatto della propria vita. Questo stato d’animo può essere il primo passo verso la malattia. Ma quali sono i segnali che possono far intuire che un giovane non sta bene? «Un cambiamento improvviso fa capire che qualche cosa non va. Se il figlio non frequenta più gli amici, non esce, è triste, poco concentrato, irritabile, mangia poco o troppo, a quel punto deve scattare l’allarme - spiega Cuijpers - tutto dipende, naturalmente, dal carattere».
Sbalzi di umore e ansia sono altri elementi da tenere d’occhio. Fino a 12 anni si ammala fra l’1 e il 2% dei ragazzini, una percentuale che sale negli anni dell’adolescenza fino a sfiorare il 5-6% dopo i 18 anni. E sono le femmine ad essere più fragili. «È difficile fare una diagnosi in un teenager. - aggiunge Cuijpers - Non si fanno curare, si chiudono, non parlano, e chiedono aiuto quando la malattia è in fase avanzata. Quando non riescono più ad andare a scuola».
Spesso questi disturbi influiscono sullo sviluppo e, se trascurati, possono persistere nel tempo. Possono essere un precursore di altri problemi psicopatologici da adulti, con un aumentato rischio di suicidio o di evoluzione verso il disturbo bipolare.
«Per questo la prevenzione è importante - conclude l’esperto - anche se non è facile conquistare la fiducia degli adolescenti. Serve una formazione per gli insegnanti per dare loro i mezzi per captare eventuali segnali di allarme. L’intervento psicologico dovrebbe funzionare anche nelle scuole».
( v. p.)

Repubblica Salute 27.11.18
Effetti della Brexit Gli inglesi si consolano col Prozac


Il 23 giugno 2016 gli inglesi hanno votato per uscire dall’UE e nel mese successivo in Gran Bretagna la prescrizione di antidepressivi è aumentata, in netto contrasto con il calo registrato nella prescrizione di altri medicinali. È ciò che mette in luce uno studio pubblicato sul
Journal of Epidemiology and Community
Health.
I ricercatori del King’s College di Londra, insieme a colleghi della Harvard University (Usa), hanno analizzato le prescrizioni di alcuni farmaci nelle 326 circoscrizioni di voto tra il 2011 e il 2016. Rispetto agli altri medicinali, gli antidepressivi sono cresciuti del 13,4%. Ma, avvertono i ricercatori, i risultati vanno interpretati con cautela: non si può stabilire un nesso causale.
-m.t.b


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