il manifesto 2.11.18
25 aprile, 2 giugno feste divisive, teniamocele strette
di Angelo D’Orsi
Alla
fine del suo intervento a Milano, ospite del sindaco Sala, Domenico
Lucano viene salutato dal pubblico con un commosso e commovente “Bella
ciao”. A cui è seguito, il coro “Ora e sempre Resistenza”.Un episodio
fra tanti, che mostra che vi è una Italia del “non mollare”, che non
desiste e, appunto, resiste.
Ma a quella Italia si affianca e
contrappone, in modo sempre più netto, un’altra parte del Paese, e si
tratta non di due metà (anche se disuguali) di un tutto, ma, diciamolo,
di due nazioni, che sono la dimostrazione che la patria, come ebbe a
scrivere Ernest Renan nel lontano 1882 “è un plebiscito di tutti i
giorni”, ossia si appartiene a una patria non perché vi si è nati, ma
perché si sceglie di esserne cittadini, e la patria che scelgo io non è
detto sia la stessa del mio vicino di casa o di banco o di scrivania. Si
è accomunati non dal sangue, e solo in parte dalla lingua (la babele
linguistica è una specie di percorso inevitabile), o dai costumi (che
cambiano): si è accomunati da scelte ideali, da un “idem sentire”, per
cui ci si può sentire affratellati a un pescatore senegalese o a un
operaio serbo che vengono a vivere in Italia più di quanto non ci si
possa riconoscere, per fare un esempio, in quel partitino di destra
estrema che si è chiamato retoricamente “Fratelli d’Italia”.
Ebbene
proprio la responsabile di quel partitino, Giorgia Meloni, ha testé
lanciato l’ultima provocazione: invece del 25 Aprile e del 2 Giugno –
feste “divisive” – scegliamo il 4 Novembre come festa nazionale, capace
di unire tutti in un nuovo afflato patriottico, in quanto ricorrenza
della “vittoria” nella Prima guerra mondiale. La Meloni ha scarsissima
cognizione storica, perché quella guerra, che pure falciò una intera
generazione di giovani italiani, non fu per nulla “nazionale”, in quanto
voluta da ristrettissimi gruppi economici, e dai loro rappresentanti
politici, e produsse un enorme arricchimento per i pochi, un
immiserimento per i molti; e quella guerra fu combattuta proprio dai
poveri, che quando non ci lasciarono la pelle, o un braccio o un occhio,
tornarono a casa poveri come erano partiti, e molti furono colpiti
dall’epidemia di spagnola che fece più morti della guerra. La “vittoria”
del 4 novembre fu una vittoria per la Fiat, per l’Ansaldo, e gli altri
padroni del vapore, e per quegli intellettuali invasati che avevano
invocato la guerra come “igiene”.
“L’offensiva patriottica” di
Meloni, perciò, non solo appare fuori tempo massimo, ma, dietro il mito
patriottico, si schiera idealmente con quei gruppi sociali che vollero
il conflitto e ne beneficiarono. Quella data, che segnò la fine del
conflitto per l’Italia portatavi a rotta di collo da tre persone (il re
Vittorio Emanuele III, il presidente del Consiglio Salandra, il ministro
degli Esteri Sonnino, in spregio del Parlamento, tenuto chiuso), è
tutt’altro che unitaria, è “divisiva” come tutte le date storiche. E
credo sia un errore rispondere sostenendo che il 25 Aprile e il 2 Giugno
sono date di tutti e per tutti: non lo sono, sono date in cui soltanto
una parte del Paese si riconosce (sperando sia la maggioranza), e può,
se non proprio con fierezza, quanto meno senza vergogna, dichiararsi
“italiana”. Io non mi sento fratello di Meloni e dei suoi camerati, e se
i loro cuori non vibrano alle note di “Bella ciao”, non mi dispiace
affatto.
Ma dovrebbero sapere che le due date che pretenderebbero
di archiviare sono quelle che definiscono il perimetro dell’Italia
repubblicana, post-fascista in quanto antifascista: sono loro a
chiamarsene fuori, sono loro gli stranieri in patria. Per questo è
inaccettabile lo slogan della campagna dei nuovi fascisti “Non passa lo
straniero”, anche se è evidente il nesso con l’attualità, e col tema
migranti, i quali, implicitamente, diventano i nuovi “nemici”, gli
“austriaci”, un secolo dopo la fine del conflitto. Il pot pourri tra
ieri e oggi viene temerariamente aggravato dai soliti bravacci di Casa
Pound, tra grottesche marce di omaggio alla tomba mussoliniana,
manifestazioni irredentiste (!) a Trieste e addirittura quelle
annunciate a Riejka da loro perentoriamente chiamata col toponimo di
“Fiume”, strizzando l’occhio al defunto “vate” D’Annunzio: il che ha
suscitato le ovvie proteste della Croazia contro il revanscismo
italiano.
Avanti così! L’Unione Europea ci sta stretta? Proviamo
intanto a far ridiventare l’Adriatico mare nostro. E poi, si sa,
l’appetito vien mangiando… V’è forse un modo migliore di “celebrare” il
centenario della guerra che sognarne un’altra?